WHAT DISTINGUISHES OUR PARTY: The political continuity which goes from Marx to Lenin, to the foundation of the Communist Party of Italy (Livorno, 1921); the struggle of the Communist Left against the degeneration of the Communist International, against the theory of „socialism in one country“, against the Stalinist counter-revolution; the rejection of the Popular Fronts and the Resistance Blocs; the difficult task of restoring the revolutionary doctrine and organization in close interrelationship with the working class, against all personal and electoral politics.

 

III. VERSO IL PARTITO COMUNISTA D'ITALIA SEZIONE DELL'INTERNAZIONALE COMUNISTA

 

 

Il processo di formazione del partito comunista in Italia presenta rispetto alla Germania e alla Francia caratteristiche non solo diverse, ma opposte, e per ragioni che sarebbe antistorico ridurre ai soli meriti (peraltro decisivi) di chiarezza, continuità e intransigenza della Frazione comunista astensionista.

Rispetto a Halle e Tours, Livorno appare infatti capovolto non solo perché la nascita della sezione italiana della III Internazionale avvenne sulla base di una netta rottura, oltre che con il riformismo, anche e soprattutto con quel centro massimalista in cui i bolscevichi avevano per primi ravvisato uno dei maggiori ostacoli alla soluzione rivoluzionaria della crisi post-bellica, non essendo il frutto né di uno spostamento dell'ala comunista del movimento operaio verso posizioni compatibili con quelle di una parte del centro (come in Germania), né di uno spostamento della maggioranza centrista verso posizioni accettabili da un'esile ed eterogenea ala sinistra (come in Francia). Appare capovolto anche perché la scissione non scaturì da una decisione maturata in sede di congresso, dunque in extremis e per un concorso di fattori contingenti, ma fu la sanzione finale di un processo non breve, tutto orientato verso quello sbocco e, appunto perciò, venutosi ad incrociare con una serie di favorevoli fattori esterni.

Senza raggiungere le punte estreme del dopoguerra tedesco, la lotta di classe in Italia non si era assopita neppure durante il conflitto, e sulla sua esplosione nel biennio successivo non avevano pesato negativamente né, come in Germania, la ferocia della repressione di cui era stato vittima lo spartachismo, né, come in Francia, la spaventosa emorragia umana imposta da un ciclone prolungatosi per quattro anni e il senso se non di euforia, certo di rilassamento, seguito nella classe operaia al "cessate il fuoco". Nello stesso tempo, mancava di radici in Italia la tradizione "radicale" e "giacobina" che tanto pesava in Francia su coloro che si andavano orientando verso il comunismo rivoluzionario, né avevano la stessa consistenza che in Germania le inerzie del passato secondinternazionalista nei campi della teoria, della prassi parlamentare e sindacale, dell'organizzazione immediata e di partito. Sia pure in senso relativo, le condizioni di ricettività del programma rivoluzionario da parte di settori di avanguardia della classe lavoratrice erano perciò migliori, le resistenze soggettive meno forti e suscettibili di essere, in una certa misura, superate in concomitanza con una situazione politica e sociale più instabile che in Francia e, malgrado le apparenze, nella stessa Germania.

Diversa e perfino opposta era stata, d'altra parte, la traiettoria del centrismo. In Germania, nel 1920, l'onere della resistenza alle "imposizioni di Mosca" era stato assunto in prevalenza dalla destra degli Indipendenti; in Francia, dalla destra della SFIO. Qualunque opinione dell'ala sinistra del centrismo avessero i bolscevichi (e si sa con quanta diffidenza la guardavano), la fermezza di cui in entrambi i Paesi aveva dato prova la destra riformista nel rifiutarsi di transigere sia sulle questioni teoriche e programmatiche, sia su quelle tattiche e organizzative, rendeva tanto evidente per le masse l'impossibilità di guadagnarla alla causa della rivoluzione, e anche solo di neutralizzarne l'ostilità, quanto faceva apparire scontato il passaggio su posizioni non contrastanti col programma rivoluzionario di una maggioranza che aveva mostrato di non volersi compromettere con la campagna apertamente antibolscevica dei Kautsky-Hilferding e dei Blum-Faure. Mentre perciò sarebbe stato difficile spiegare il rifiuto di accogliere nell'Internazionale, sia pure con riserva, questa maggioranza, solo l'andamento dei lavori congressuali avrebbe deciso della misura in cui l'ala centrista si sarebbe divisa, spontaneamente o sotto pressione esterna, dall'ala riformista, e della serietà con cui si sarebbe impegnata ad assumersi le responsabilità connesse all'accettazione di tutti i "21 punti". Da simili congressi, chiamati a stabilire se la scissione fosse o no necessaria, e quali confini le fossero tracciati sia dalla storia, sia dal principi del comunismo, tutto si poteva aspettare meno che l'eliminazione del mortale equivoco del "verbalismo rivoluzionario" centrista. Chiarezza politica e, quindi, prospettive di efficienza pratica potevano scaturire solo da un congresso, come poi quello di Livorno, chiamato a ratificare una scissione già in atto e come tale non solo accettata ma voluta dalla frazione comunista, nei termini ed alle condizioni ritenute inderogabili dall'Internazionale.

Ora, in Italia, a questo risultato diede un contributo oggettivo proprio il centrismo serratiano, sia spostandosi sulle posizioni della destra quanto più ci si avvicinava al congresso straordinario del PS, e mettendosi in prima fila nella polemica con Mosca, sia, nei limiti in cui si sforzava di prenderne le distanze, predicando la necessità di assicurare alla rivoluzione, come fattori essenziali del suo trionfo, le capacità tecniche e l'esperienza organizzativa dei dirigenti sindacali e degli amministratori comunali riformisti, e così dando conferma della inscindibilità dei suoi legami con la destra e della sua correità in una prassi di sostanziale adattamento alla società borghese. In Italia, fu perciò relativamente più facile che altrove percepire e quindi denunziare il processo obiettivo di meccanica sociale per cui l'"intransigenza rivoluzionaria" che accetta i principi della rivoluzione e della dittatura, ma non ne deriva un indirizzo di azione con essi coerente, quindi tale da escludere ogni ipotesi che la via della conquista del potere e la forma del suo esercizio siano assicurate dai meccanismi della democrazia parlamentare, è costretta a retrocedere da questa posizione ad una prassi di collaborazione diretta o indiretta con la borghesia; fu perciò relativamente più facile convincersi della necessità della rottura anche con coloro che per il loro passato sembravano meno sospetti, come la nostra corrente ebbe modo di affermare in tutto il periodo precedente e successivo alla scissione di Livorno. è vero che tanto non sarebbe bastato per mettere il partito e la classe al riparo dal flagello del "pendolarismo" serratiano: mentre in Germania non passeranno più di quattro mesi dal congresso di fusione, e l'Esecutivo del Comintern dovrà già assistere impotente ad una nuova e più grave frattura nel KPD, e in Francia dovrà intervenire fin dai primi giorni di vita del PCF per provocarvi la selezione che Tours non solo non aveva attuato, ma aveva impedito, in Italia avverrà l'opposto: due anni dopo Livorno, una parte del centro serratiano ritroverà la sua anima "intransigente", e un' Internazionale sottoposta a pressioni materiali irresistibili s'illuderà di poterle riaprire le porte senza pregiudizio per la solidità del partito originario. Ma questa è storia di anni successivi - anni, purtroppo, di declino del movimento comunista mondiale.

Tutti questi fattori esterni non basterebbero tuttavia a spiegare la felice eccezione che allora fu Livorno, senza il peso determinante della Frazione comunista astensionista nel processo di decantazione delle forze destinate a costituire il nerbo del PC d'Italia. Alla riunione di ottobre 1920 a Milano come alla conferenza di Imola in novembre, e al congresso di Livorno nel gennaio 1921, tre forze di origine e formazione differenti - la Frazione comunista astensionista del Soviet; il gruppo torinese derivante, attraverso vicende delle quali si è accennato nel capitolo precedente, dall'Ordine Nuovo; l'esile a tutta prima, poi cospicua estrema sinistra del massimalismo - convergono su un' unica piattaforma che é, senza riserve, quella delle Tesi e Condizioni di ammissione del II congresso: nessun mercanteggiamento avviene fra l'una e l'altra e, se la prima rinunzia alla pregiudiziale tattica, quindi secondaria, dell'astensionismo (come era già pronta a fare nel 1919), il secondo abbandona tutte le sue posizioni di principio, e il terzo fa proprie quelle propugnate in lunghi mesi unicamente dal Soviet, prime fra tutte le tesi sul ruolo centrale del Partito nella rivoluzione e nella dittatura comuniste e l'esigenza della centralizzazione e della disciplina.

Si prendano il Manifesto della "Frazione comunista" costituita come sopra in ottobre, o la mozione e il programma di Livorno: non v’é in essi nulla che anche soltanto arieggi l'ordinovismo; tutto rivela la nostra impronta, che è poi quella bolscevica. Su questa traccia le tre componenti - che restano, da Livorno e fino a tutto il 1922, indistinguibili (1) - si muovono in completo accordo; ma è caratteristico che tutto il lavoro di preparazione teorica, programmatica e tattica sia compiuto dal Soviet di Napoli e da quello che in pratica ne è il derivato su scala nazionale, il Comunista di Imola.

É un lavoro impostato in modo univoco secondo una prospettiva che non consente dubbi: la scissione è considerata tanto inevitabile, quanto salutare, e non potrà non coinvolgere il centro: la decisione di effettuarla non sarà condizionata da valutazioni contingenti di maggioranza o minoranza e ubbidirà a criteri obiettivi più rigidi e, come si disse, più chirurgici, di quanto non si auguri Mosca. Nessuna eccezione viene, né verrà più tardi, invocata: si chiede invece l'applicazione integrale delle regole, e non - come, pappagallescamente, non si cessa di ripetere - per scrupoli di "purezza ideale", ma per solidi motivi di efficienza pratica, fermo restando che, per il marxismo, non esiste efficienza pratica che non rispecchi una coerenza teorica.

La ragione di tutto ciò va cercata non soltanto (come si affannano a dire gli storici di parte nazionalcomunista, e come è vero solo in via subordinata) nel peso organizzativo della Frazione astensionista, l'unica a possedere una rete nazionale fortemente centralizzata (2), o nel fatto già ricordato che, come entità politica caratterizzata da un preciso orientamento e da una fisionomia inconfondibile, il gruppo dell'Ordine Nuovo nella seconda metà del 1920 scompare dalla scena, ma nella forza di attrazione esercitata sia dalla tradizione decennale di lotta contro le deviazioni riformiste, centriste e revisioniste, che solo la nostra corrente poteva vantare, sia dalla solidità di un inquadramento teorico che aveva trovato completa espressione nelle Tesi votate dalla conferenza nazionale dell'8-9 maggio a Firenze e negli interventi di Amadeo Bordiga al II congresso dell'Internazionale (3), gettando così le basi della fondazione non formale ma reale del Partito a coronamento della battaglia su più fronti condotta dal Soviet nel biennio postbellico.

In virtù di questa decisa influenza teorica, politica e, per conseguenza, organizzativa, la Frazione comunista del PSI, detta anche "di Imola" - formata da quelle tre correnti - si presenterà a Livorno con un programma nello stesso tempo generale e di azione, concepito non come piattaforma intesa a riunire il massimo possibile di consensi in sede di congresso, ma come base prefissata di impostazione programmatica e di inquadramento pratico del nuovo partito, dunque non suscettibile di modifiche, attenuazioni o concessioni agli umori di assemblee arroventate da polemiche antiche e recenti. Per essa, gli elementi di una soluzione del problema del partito comunista in Italia andavano cercati altrove che nel responso di un congresso: risiedevano, da un lato, "in tutte le esperienze e la preparazione politica della Sinistra del partito attuale", dall'altro "e più ancora nel contenuto del programma di azione della III Internazionale". Incontestabilmente nostra fu quindi la formula, usata a nome di tutta la Frazione da Bordiga nell'articolo (riprodotto integralmente più avanti) dal titolo Verso il Partito Comunista:

"Antidemocratici anche in questo, non possiamo accettare come "ultima ratio" la espressione aritmetica della consultazione di un partito che non è un partito. Il riconoscimento della giustezza della opinione espressa dalla maggioranza comincia là dove comincia la omogeneità di programma e di finalità; non lo accettiamo nella società divisa in classi, non nel seno del proletariato dominato necessariamente dalle suggestioni borghesi, non nel seno di un partito che comprenda troppi elementi piccolo borghesi, ed oscilli storicamente tra la vecchia e la nuova Internazionale e non sia quindi nella sua coscienza e nella sua pratica il partito di classe di Marx".

Guidati da questa direttiva, i relatori per la sinistra a Livorno si batterono, si, per strappare alla direzione massimalista-serratiana la maggioranza del PSI, pronti però senza alcuna incertezza a restare in minoranza, e decisi a non subire "né la situazione di un partito diretto da unitari, né quella di una direzione in comune tra noi ed essi" e a non "immobilizzare noi e il proletariato fino a un altro congresso". La conclusione (che si trarrà a Livorno) "della immediata uscita dal Partito e dal Congresso appena il voto ci avrà posto in minoranza" era dunque scontata in anticipo, - senza per questo essere idealizzata - insieme alla duplice convinzione, tutta nostra, e infatti più tardi sconfessata dagli uomini dell'ex Ordine Nuovo, che ad essa avrebbe fatto seguito, in seno al centro massimalista, una crisi tanto più feconda, quanto più ci si fosse attenuti a criteri di massima selezione politica dei quadri del partito e di ferma volontà di agire soltanto sulla loro base ai fini di un allargamento della propria influenza, e che dalla rottura con il centro (se non era possibile, e in realtà lo si riteneva improbabile, un suo "sbloccamento") dipendevano le sorti future del partito, e, con esso, dell'intera classe operaia.

É qui il nodo che fa di Livorno un caso internazionalmente unico e si può ben dire - esemplare.

Poiché - per tutti questi motivi - soprattutto oggi, e sul piano internazionale, il processo di formazione del partito in Italia appare doppiamente istruttivo, dal lato delle forze che la promossero come da quello delle forze che la osteggiarono, è opportuno dedicare alla storia delle correnti o frazioni del PSI prima di Livorno uno spazio che in sé, per alcune di esse, potrebbe sembrare esagerato. Il capitolo successivo sarà invece dedicato specificamente alla storia del nucleo costitutivo del PC d'I, la "Frazione comunista del PSI".

 

1. - L'avanzata della destra nel PSI

Se a Mosca, a giustificazione del proprio unitarismo, Serrati si era fatto forte dell'argomento che l'ala turatiana del PSI non rappresentava che se stessa, già l'esperienza dell'occupazione delle fabbriche bastava a dimostrare come l'intero corso del partito fosse, più ancora che "condizionato", determinato dal prepotere - politico, sindacale, organizzativo, oltre che dottrinario e, in senso lato, pubblicistico della destra (4). Ma a quella contro-prova se ne aggiungevano altre, e non meno decisive.

Il II Congresso mondiale si chiude il 7 agosto: eppure la direzione del partito si riunisce, per discuterne le conclusioni e la famosa lettera dell'Esecutivo, solo nella seduta del 28 settembre-1° ottobre; lo stesso Avanti! e la rivista Comunismo quasi non ne fiatano prima del ritorno di Serrati, avvenuto il 16 settembre. Ben altro è lo spirito di iniziativa della destra turatiana o, come presto si chiamerà, della "frazione di concentrazione". L'Avanti! dell'8 settembre dà solo un breve cenno del Manifesto che questa, riunitasi il 30 agosto a Milano, lancia al Paese; ma è un cenno sufficiente per chiarire lo stato d'animo in cui essa guarda alle prospettive vicine e lontane della situazione.

I riformisti hanno chiara coscienza di poter smascherare l'insincerità e la demagogia massimaliste: sono queste - dicono - che, impedendo di cogliere a tempo l'occasione di "imporre alla borghesia riluttante ma trepida l'accettazione di principi e di istituzioni che potrebbero costituire un efficace avviamento all'assetto socialista", hanno rafforzato il potere della classe avversa, "fatta più spavalda dagli strumenti di difesa e di offesa che la nostra vuota e clamorosa minaccia l'ha indotta ad apprestare". I fatti stessi impongono perciò quella revisione del programma di Bologna, e quel ritorno del partito alle sue origini, di cui finora non si è avuto il coraggio.

É d'altra parte la Critica sociale a prendere per prima posizione sul Congresso di Mosca, e a farlo in chiave di "sinistra". Nel nr. 17 dell'1-15 settembre si legge - chi scrive è senza dubbio Claudio Treves:

"Di fronte ad una II Internazionale evirata ed esausta, per non dire [ma guarda un po'] putrefatta e sepolta, e ad una pretesa III Internazionale, che é, a dire il meno, Internazionale di esigue minoranze, di frazioni pasciute di mitiche o mistiche chimere dittatorie e pseudocomuniste, a cui le maggiori e più consapevoli forze proletarie del mondo sono o indifferenti o straniere, e che si diverte [!!], in un momento così tragicamente serio e decisivo della vita dei popoli, nel puerile ostracismo dei più nobili e fedeli esponenti della grande tradizione socialista marxista [...], noi attendiamo ed affrettiamo sempre più, con tutti i voti del nostro cuore [eccoli, i lungimiranti precursori], la IV Internazionale - l'ultima, la vera, la sintetica, quella che non può non risorgere, e gli eventi dovrebbero incalzarla, composta di tutti i grandi partiti socialisti che non tradiscono il socialismo per la sua fosca parodia - quella di tutti i proletari organizzati e militanti dei paesi democraticamente più avanzati del vecchio mondo e del nuovo, insorgenti compatti, sul terreno classico della lotta delle classi, in conformità alla naturale evoluzione delle forme sociali delle diverse nazioni (non già secondo un unico figurino estetico ed artificiale) e coi metodi che ci appresero i santi padri, che giammai non rinnegheremo, della nostra gloriosa dottrina seriamente e scientificamente rivoluzionaria, contro il mondo capitalistico, naufrago nell'impotenza della propria inane prepotenza, e risospingente stoltamente le nazioni verso una specie di peggiorato e più sanguinoso Medio Evo".

Lo stesso Treves, al quale assai più che a Turati si deve l'impostazione generale del "concentrazionismo" - molto più vicina a quella dei Longuet e, soprattutto, dei Blum, che a quella dei Hilferding o dei Noske -, si incarica di spiegare nel nr. 19 dell'1-15 ottobre l'enigma di Mosca, cioè la contraddizione tra la "furia d'intransigenza comunista" e l'"ostracismo a tutto il socialismo democratico", da un lato, e il "battere alle porte di tutti i parlamentari europei" dall'altro; fra il "concetto di classe, che vuole essere così rigido, così intransigente, rispetto ai socialisti" ad un polo, e "l'alleanza, apertamente proclamata nei 21 punti di Mosca, tra rivoluzionari comunisti e rivoluzionari nazionalisti", tipo Enver Pascià (5) al polo opposto.

Quale dunque la chiave alla soluzione del mistero? Eccola. "il congresso che ci ha recato le 21 tesi della nostra sparizione dal mondo socialista, non è stato tanto un congresso di partito, quanto un atto di governo, dominato quindi da interessi di Stato e da considerazioni diplomatiche, anziché da ragioni di dottrina pura": quella pura dottrina che invece si tratta di salvare riconoscendo la perfetta legittimità di battersi contro la democrazia borghese, il pacifismo borghese, la libertà borghese ecc. senza che per questo la III Internazionale si arroghi di

"essere contro la democrazia in sé, contro la libertà in sé, e di porre l'uniformità, l'accentramento, la coercizione bellica collettiva e la coercizione personale come i fondamenti della sua opera, ai quali debbasi metodicamente ricorrere anche là dove risultati ingenti e fecondi siano già raggiunti e siano raggiungibili senza ricorso a cotesti aspetti di violenza".

Sono questi anche i temi svolti al Convegno di Reggio Emilia (10-11 ottobre), il primo tenuto da una frazione in vista del XVII Congresso nazionale. La destra socialista vi si proclama, essa sola, veramente rivoluzionaria: è all'inazione massimalista - si legge sull'articolo di C. Treves A Reggio Emilia!, in Critica Sociale dell'1-15 ott. '20 - che risale la responsabilità di aver disperso e "disperdere tanta generosa forza di realizzazione proletaria in movimenti parziali, tumultuanti", laddove una saggia ma vigorosa politica di intervento avrebbe potuto costringere la classe dominante, indebolita dalla guerra, a "lasciar passare qualunque opera di trasformazione profonda, radicale, di tutti gli istituti borghesi" (6). "Veri riformisti che non collaborano", come li chiama la Sinistra, e in quanto tali pienamente accettabili dai massimalisti, i pellegrini a Reggio Emilia rivendicano nella loro mozione finale, non a caso redatta dai superconfederali Baldesi e D'Aragona e votata all'unanimità (salvo dieci voti contrari - quelli dei turatiani al 100% - nella parte riguardante la conquista del potere), "il nome del Partito e gli intenti e lo spirito educativo della sua propaganda ed il buon lavoro quotidiano di organizzazione amministrativa, cooperativa e sindacale".

Si dichiarano avversi ad ogni scissione e convinti che "la coesistenza di scuole socialiste, quali sono sempre esistite nel Partito, come ha consentito il formidabile sviluppo del passato, permetterà ancora una fraterna collaborazione, tanto più feconda di risultati quanto più da ogni parte sarà il reciproco rispetto, la volontà comune di affermare la libertà di giudizio su ogni situazione, la massima disciplina nelle molteplici forme dello svolgersi della lotta di classe". E proclamano, in accenti che ben li distinguono dai colleghi d'oltr'Alpe e che, appunto per la loro miscela di riformismo apertamente dichiarato e di accorto possibilismo nei confronti sia della III Internazionale, sia dei principi da questa sostenuti, gettano un ponte verso le posizioni tipiche dei massimalisti, non distinguendosene che per grado di retorica verbale (i corsivi sono nostri):

"La frazione di concentrazione conferma l'adesione del Partito alla III Internazionale, riaffermando l'unità interpretativa nell'applicazione dei 21 punti secondo le condizioni di ogni paese, dichiarando nettamente l'esclusione dalle sezioni dell'Internazionale dei gruppi anarchici e sindacalisti e degli elementi massoni.

La frazione di concentrazione non ha pregiudizi [!!!] circa il divenire storico del socialismo e dei mezzi da impiegare per il suo definitivo trionfo. La dittatura del proletariato, intesa nel senso marxista come una necessità transitoria imposta da speciali situazioni e non come un obbligo programmatico, non viene negata dalla frazione di concentrazione, ma tale dittatura non deve, non può essere modellata per tutti i paesi su quella di uno solo: e sarebbe grave errore il voler prescrivere a popoli democraticamente sviluppati ed insofferenti di autoritarismo, leggi o sistemi ritenuti utili e necessari per altre nazioni.

La frazione di concentrazione non condanna l'uso della violenza e dei mezzi illegali nella lotta di classe e per la conquista del potere politico. I passaggi storici di tale potere da una classe all'altra sono i risultati definitivi dell'urto di forze contrapposte. L'uso della violenza per il compiersi di tale passaggio non può venire negato, ma esso non può essere che lo sforzo ultimo a cui il proletariato ricorre contro la bieca resistenza e l'imposizione della classe borghese e per spezzare una organizzazione sociale incompatibile con la nuova economia e coi nuovi mezzi di produzione.

La frazione di concentrazione ritiene che la guerra per la sua stessa incapacità a conseguire lo scopo per cui fu scatenata ha accelerato la crisi del regime capitalistico e reso più urgente per il proletariato la soluzione dei problemi da cui dipende l'avvento rivoluzionario del regime socialista. Tale periodo rivoluzionario si è ancor più accentuato dopo il crollo dell'impero degli czar e dopo la pace di Versailles sanzionante la sopraffazione degli stati capitalisticamente più forti su quelli più deboli. Ma sarebbe puerile asserire che tale periodo rivoluzionario sia giunto alla fase più acuta in tutto il mondo e che la possibilità di sconvolgimento nei paesi capitalistici più ricchi sia da prevedersi a breve scadenza. E la frazione di concentrazione sostiene che la rivoluzione in Italia nella forma violenta e distruggitrice desiderata dagli estremisti colla immediata formazione di un ordinamento soviettista tipo russo sia destinata a crollare a breve scadenza ove manchi la concordante azione economica e politica del proletariato di qualche paese più ricco, durante l'immancabile precipitazione economica.

La frazione di concentrazione socialista sostiene tutti i possibili tentativi di approssimazione al regime socialista. Presentandosene l'occasione il Partito non rinuncia alla conquista del potere politico nella forma consentita dal momento e dalla situazione internazionale, valendosi della forza di tutti gli organismi sindacali che agiscono in pieno accordo col partito ed in completa indipendenza da qualsiasi frazione democratica della borghesia".

Il fatto che nel convegno emergano sfumature diverse e perfino discordanti, non solo è ovvio, ma coincide con tutta la tradizione della destra. Se Modigliani trae dai fatti più recenti della vita nazionale la conclusione "che si impone la conquista del potere a ritmo accelerato" - la famosa repubblica socialista, magari anche dittatoriale - e che "se il proletariato rinuncia alla conquista del potere, si va allo sfacelo e del paese e delle forze stesse dei lavoratori" spinti "in braccio al massimalismo", U.G. Mondolfo teme che "l'assunzione del potere da parte dei socialisti […] imponga difficoltà e responsabilità assai più gravi anche di quelle prospettate da Modigliani"; ribadisce comunque che "la violenza è una necessità cui si ricorre solo quando le resistenze non possono essere superate con altri mezzi", e che "la dittatura, affatto temporanea, solo allora è socialisticamente legittima, quando è esercitata per delega del proletariato che abbia indicati ed assegnati i finì che con essa debbono essere raggiunti". Se Ciccotti è per l'assunzione del potere "quando ciò sia deliberato da competenti organi economici e politici e non sia opera dell'iniziativa individuale di qualcuno d'accordo con partiti borghesi", Dugoni chiede agli uomini della Direzione perché mai vogliano "trascinare l'Italia alla rivoluzione, certi che domani le mancherà tutto (grano, carbone, cotone, ecc.) e tutto si ridurrà ad avere milioni e milioni di operai disoccupati", mentre Baldesi, che ha già "fatto presente l'impossibilità tecnica, per una rivoluzione massimalista, di mantenersi in piedi", chiede che a quell'impossibilità si opponga la possibilità della rivoluzione... riformista, chiarendo alle folle perché "si intenda arrischiare il salto piccolo invece di quello grosso, ultrapericoloso in questo momento". Se Turati, distintosi per aver detto francamente che "come per fare il salmì di lepre ci vuole la lepre, così per avere l'unità del Partito bisogna che esista un partito; quando i partiti sono più di uno, non ci si può illudere di ottenere l'unità", non è affatto disposto a transigere nella valutazione della rivoluzione bolscevica, e respinge, come una transazione da condannare senza appello, la tesi secondo cui "il bolscevismo non è un errore o un pericolo se sperimentato in Russia" (perché ciò equivarrebbe a "dire che la pestilenza è pericolosa solo in un paese e non in un altro"), Treves non teme di difendere "il nostro diritto di scelta della rivoluzione italiana", traendone l'insegnamento classico del gradualismo educazionista e riformatore ("continuiamo dunque l'opera nostra di preparazione e di educazione: eliminiamo gradualmente lo sfruttamento capitalistico, sostituendo ad esso forme economiche associative"); e, se non esclude l'andata al potere "prima che il socialismo sia maturo nelle cose", depreca "come desiderio questa che può essere possibilità".

L'insistenza da parte nostra sulla varietà di questi temi non è gratuita. Essa mostra come sia la destra a fornire gli argomenti d'uso più corrente al centro massimalista, e a "coprirlo" nei confronti di Mosca. Può farlo a tanto maggior ragione, in quanto sono integralmente nelle sue mani la rete degli organizzatori sindacali, degli amministratori comunali, dei dirigenti delle cooperative e il nerbo del gruppo parlamentare, appunto quegli "istituti" nella cui esistenza Serrati e C. vedono la garanzia della "realizzazione socialista", e il più potente dei quali, la CGL, conduce con consumata maestria il gioco dell'adesione a Mosca senza pregiudizio dell'adesione ad Amsterdam, e non esita a citare, per esempio, le Tesi sindacali del II Congresso a conforto della propria interpretazione del ruolo "rivoluzionario" del "controllo operaio" marca Giolitti! Il rapporto fra riformisti e massimalisti andava sempre più ricalcando, nella lettera e soprattutto nello spirito del famoso "patto d'alleanza", quello fra Confederazione e Partito - un rapporto non di parità, ma di sudditanza del secondo al primo (7). D'altra parte, se per Serrati il problema non era di preparare le condizioni politiche e "soggettive" della rivoluzione, ma di predisporre le condizioni tecniche ed organizzative delle "realizzazioni socialiste", era innegabile che andavano cercati i "realizzatori", quindi la vera spina dorsale del partito. Perciò, secondo la nostra corrente, estirpare il bubbone del riformismo era impossibile senza abbatterne la colonna portante massimalista. Non era uno "sport", come poi si disse, ma una necessità inderogabile.

Non era nemmeno, per noi, questione di individui. A Reggio, la destra aveva toccato l'infallibile corda del sentimento proclamandosi decisa a restare in blocco nel partito, o, viceversa, ad uscirne al completo se uno solo dei suoi membri di primo piano fosse stato espulso. Aveva ragione, e Il Soviet non solo esitò a dichiararsi "pienamente" d'accordo sulla necessità di non "fare per alcuni di essi [dei riformisti] soltanto una questione personale circa la loro permanenza nel partito" ma, rivendicando l'inevitabilità "del distacco dai comunisti di tutto il blocco socialdemocratico", ribadì: "Il metodo proposto da alcuni compagni [...] di metter fuori qualcuno è per noi assolutamente riprovevole, è ingiusto per qualcuno dei colpiti ed è esiziale per la compagine del partito, che non si purifica e si fortifica eliminando soltanto qualche persona, sibbene colla sincera adesione dei singoli al suo fondamentale programma" (8). Il massimalismo non aveva comunque bisogno di spettacoli lacrimosi per convincersi che l'unità del partito non andava rotta neppure sul piano disciplinare: unitario esso era per definizione. E poi, solo pochi mesi separavano il partito dall'ennesimo banco di prova delle elezioni amministrative: come uscirne bene, se ci si andava amputati dei più abili e "prestigiosi" amministratori?

 

2. - Il rinculo massimalista

Diversamente dalla destra, che è insieme combattiva ed estremamente sfaccettata (caratteristiche che concorrono a renderne ancor più insidiosa l'influenza), in tutto il periodo pre-Livorno il massimalismo appare quasi privo di vita, e, nella misura in cui la sua parabola si identifica con quella "personale" di Serrati (9), sempre meno distinguibile dal riformismo. Nei suoi confronti, il II Congresso dell'IC aveva svolto in pieno la funzione di reagente teorico e programmatico, politico ed organizzativo, rivendicata come permanente dalla Sinistra.

Il "paradosso" al quale si assistette nella seconda metà del 1920 fu perciò che, mentre in Germania e Francia una parte consistente del centro socialista si piegava all'accettazione di quelle stesse "Tesi e Condizioni di ammissione" al cui rifiuto tutta la sua tradizione conduceva, e ciò, se permise un sostanziale ampliamento della base dei nuovi Partiti comunisti, perpertuò e perfino aggravò l'equivoco di adesioni non sorrette da effettive convinzioni, in Italia furono gli esponenti della maggioranza di un partito tuttavia aderente da un anno e mezzo all'IC quelli che trassero dai deliberati del II Congresso lo spunto per dissociarsene ed assumere nei confronti di Mosca un atteggiamento destinato a rendere inevitabile non solo la polemica, ma la rottura; e ciò ebbe il risultato inverso di contribuire a restringere la consistenza numerica del nuovo Partito favorendone però la nascita - in presenza di una forte e rigorosa corrente di sinistra - su basi teoriche e politiche non viziate da riserve, malintesi, occultamenti.

É solo il 21 settembre che l'Avanti! pubblica le Condizioni di ammissione; è solo nel numero 15 ottobre-15 novembre della rivista Comunismo che vede la luce la più volte annunciata Lettera del CE del Comintern al Comitato centrale e a tutti i membri del PS (10). Da parte di Serrati, le ragioni di un simile ritardo sono chiare: latore ufficiale dei deliberati del II Congresso, egli non li considera né come veri e propri deliberati, né come documenti vincolanti: essi sono rivedibili. Devono anzi essere riveduti, "non solo perché generalmente nulla vi può essere di dogmatico [aggettivo che sta, semplicemente, per stabile] in una associazione rivoluzionaria, e tutte le nostre deliberazioni sono soggette a nuovo studio e perciò a più mature decisioni, ma specialmente perché, nel senso specifico, parecchie circostanze di fatto dimostrano la revisione necessaria" (11). Le "circostanze di fatto" che inficerebbero - per vizio di forma e di sostanza - la validità del II Congresso in quanto tale e delle tesi da esso approvate, sono varie, ma tutte analoghe a quelle che abbiamo sentito invocare dal centrismo in Germania e Francia, e sulla loro mutevole tastiera si sgranò, nei mesi successivi, il rosario di una polemica con Mosca tanto più velenosa, quanto più ci si avvicinava al congresso nazionale del partito.

Vizio di forma. Il II Congresso - si dice - non è stato preceduto né da un'adeguata preparazione, né da un approfondito dibattito; non era rappresentativo né del movimento operaio e comunista, né del peso dei diversi Paesi e dei rispettivi partiti; i delegati non si conoscevano a vicenda, e alle difficoltà di comprensione e informazione reciproca legate alla distanza geografica e alle vicende storiche fra guerra e dopoguerra si aggiungevano le diversità di lingua, costume e tradizione; i documenti a base della discussione erano stati sottoposti al loro giudizio pochi giorni prima dell'incontro e come fatto ormai compiuto (12); ne era uscito non tanto un congresso quanto "un concilio di singoli, quasi tutti impreparati, sopra cui soffiava fortissimo e travolgente il vento di una rivoluzione in atto" (13). è vero che, aggiungeva Serrati, "la grande autorità" dei dirigenti rivoluzionari russi aveva sopperito alle "evidenti manchevolezze dell'improvvisata organizzazione" ed alla "quasi direi estemporaneità delle deliberazioni", conferendo al Congresso, "con un atto di imperio", il "carattere decisivo e tranchant" che di per sé non possedeva. Ma questo fatto storicamente giustificato ("é la Russia, per ora, che sopporta tutto o quasi [!!] il peso della rivoluzione e ne soffre tutte le asprezze", dunque "é anche giusto che sia essa stessa a darne il la" (14)), aveva aggravato i rischi derivanti sia dalla scarsità di informazioni di cui, isolati dal "cordone sanitario" teso tutt'intorno alla Russia rivoluzionaria, soffrivano gli organi deliberativi ed esecutivi dell'Internazionale, sia dalla poca o nulla affidabilità della "massoneria rossa che opera nel silenzio e nel mistero, e che giudica e manda all'infuori dei partiti; della burocrazia cieca e feroce", che Serrati vede già costituita a Mosca sulla base di "un nuovo privilegio"; della "vallettaglia" di "eminenze grigie" schieratesi intorno alle mura del Cremlino e composte vuoi dai "maddaleni pentiti" di Occidente, vuoi dai "profittatori", "pescecani" e "corrieri" della rivoluzione vittoriosa in Oriente, vuoi, infine, dai "commessi viaggiatori in sommosse e generi diversi" sopravvissuti ad una serie di rivoluzioni fallite e prosperanti su rivoluzioni ancora da fare (15) a cui, emulo dei Crispien e dei Dittmann, egli attribuisce un potere occulto sugli "artefici della rivoluzione di Ottobre".

Vizio di sostanza; e qui ci si trova di fronte al peculiare amalgama serratiano di un estremismo di facciata posto al servizio di un opportunismo di fondo, palese anche nella quasi totale identità di argomentazioni con quanto si è letto in campo riformista. Da un lato, si assume di fronte alle tesi dell'IC sulla questione nazionale e coloniale e su quella agraria, o a proposito di una certa tolleranza verso alcuni sindacalisti e anarchici, o, per contro, verso elementi di destra del movimento internazionale, un atteggiamento giustificabile (entro certi limiti) solo "partendo - come osservava Il Soviet - dalle premesse di un metodo […] che voglia dare al movimento comunista confini precisi, omogeneità assoluta, intransigenza tattica contro tutti" (16), e che non è certo il metodo di Serrati; dall'altro ci si fa scudo di questo "rigore" in dati campi della teoria e della tattica per avallare la massima transigenza nel modo di affrontare i problemi più scottanti sia della costituzione del Partito in Italia, sia della disciplina internazionale del movimento comunista. E come non riconoscere in questa "duplicità" il tratto distintivo, su scala mondiale e in ogni tempo, del centrismo? (17)

Nello stesso numero dell'Avanti! in cui appaiono le Condizioni di ammissione, Serrati dichiara infatti (18) di accettarne pienamente la rigidità, anzi sostiene che "la vorrebbe maggiore se possibile", e rinnova le critiche al "soverchio opportunismo" e alla "mancanza di chiarezza onde [gli] parvero impeciate quasi tutte le deliberazioni del Congresso". Qui, dunque, si troverebbe la radice del dissenso: campione dell'... ortodossia, il massimalismo non esclude "accostamenti" e "adattamenti": ma "tutto ciò non si teorizza e soprattutto tutto ciò non si universalizza nel tempo e nello spazio facendone articolo di fede, onde ad esempio sia fissato che non possa far parte della III Internazionale chi non crede, puta caso, nella opportunità dell'alleanza dei comunisti turchi col nazionalista rivoluzionario Enver Pascià" (19), o sostenga che "l'anarchismo e il sindacalismo sono malattie dell'organismo proletario al pari del riformismo", o affermi che, mentre "in talune regioni la piccola proprietà agricola è la sola forma economica possibile", e "in talune circostanze l'azione del proletariato - se vorrà essere vittoriosa - dovrà tener conto delle peculiari condizioni della piccola proprietà", tuttavia "teorizzare in un congresso queste eccezionali circostanze, fare delle eccezioni quasi la regola […] è correre verso il precipizio di un opportunismo riformista senza limiti". Avendo così pontificato nello stile di Kautsky-Crispien, e fatto sfoggio di intransigenza a carico di strati sociali e movimenti non proletari, il teorico del massimalismo si crede in diritto di trattare invece con estrema tolleranza le ali opportuniste del movimento proletario, con un alto grado di empirismo e di indeterminatezza l'insieme dei principi, e con spirito largamente autonomistico i problemi d'organizzazione; tutto ciò in funzione dell'obiettivo - sempre più determinante, anzi prioritario - di mantenere ad ogni costo l'unità del partito, non solo ignorando, ma apertamente contestando le decisioni prese a Mosca.

Gli argomenti a favore di questa contestazione sono diversi. V'é anzitutto la rivendicazione, anticipatrice di sviluppi di cui l'eurocomunismo non ha poi cessato di offrirci esempi macroscopici, della "relativa autonomia di movimento" (20) delle sezioni nazionali, che poi si risolve in autonomia completa. Poiché infatti i veri rivoluzionari nasceranno solo "allorquando la rivoluzione si sarà affermata" e nel frattempo è inevitabile che ci si avvalga, "indipendentemente da ogni concetto morale [...], dell'elemento che la situazione pone a nostra disposizione"; poiché nel giudicare gli individui ci si deve basare sulle opere del passato e su quelle del presente, come solo è dato a "quei nuclei comunisti che vivono nell'ambiente e ne possono vagliare e valutare gli elementi"; si impone "per ogni paese una tattica diversa, conforme alle particolari condizioni ambientali e da seguirsi con opera intensa, in loco, dai compagni che per essere sul posto ci sembrano più capaci delle soluzioni comuniste". Naturalmente all'Esecutivo dell'IC spetterà "l'alta vigilanza su tutte le sezioni nazionali" e "il diritto di controllo di critica e di richiamo"; ma esso non dovrà spingersi oltre quella vigilanza e quel diritto - in forza di una concezione del modo di essere e di agire del partito e dell'Internazionale che Serrati definisce "autonomistica ed accentratrice ad un tempo". Ne segue che "noi siamo per i ventun punti di Mosca" (costa così poco!), "ma della loro applicazione nel nostro paese crediamo di avere il diritto di essere noi i giudici competenti in quella misura e in quella forma che meglio ci sono consentite dalle situazioni locali" (21).

V'é poi una applicazione ad usum Delphini di quello che vorrebbe essere il materialismo dialettico, in virtù della quale: 1) dannarsi a rompere i ponti con i riformisti è inutile fatica: sarà la rivoluzione stessa, se non a convertirli, certo a trascinarli con sé mettendoli al proprio servizio: "i destri ci seguiranno perché sono gli avvenimenti che determinano gli indirizzi degli uomini e delle istituzioni" (ritroveremo al congresso di Livorno altre perle di questa pseudo-ortodossia deterministica); 2) allo stesso modo, deterministicamente, "l'ascesa verso il meglio può essere anche l'opera non dei migliori ma dei peggiori", e avvedutezza vuole che non ci si sbarazzi di compagni magari attestati su posizioni riformiste, ma dotati di alte capacità amministrative, organizzative e tecniche. Per esempio, "c'é una crisi di capacità che fa spavento in Italia e in tutti i paesi, ed ecco che il II Congresso dell'Internazionale comunista ci ordina di mettere in tutti questi posti (comuni, cooperative, camere del lavoro ecc.) dei comunisti, senza preoccupazioni di sorta circa le loro capacità". Ora, "qui siamo nel regno dell'inverosimile: vi immaginate il comune di Milano retto da un gruppo di incapaci, nuovi arrivati, spacciatisi all'ultima ora per comunisti ferventi?" (22).

Così pure è vero che il partito si può e magari si deve epurare, ma non per "far gettito sconsideratamente di tutti quegli organismi politici ed economici i quali, pur essendo diretti da compagni che possono dissentire da noi sull'uno o sull'altro punto, possono servire come ottimi baluardi per la difesa della rivoluzione e per le sue graduali realizzazioni". (Non ci si chiede neppure perché mai perdere un organizzatore capace ma ultra-opportunista debba necessariamente significare far gettito della istituzione ch'egli si trova a dirigere). 3) Poiché la rivoluzione, essendo materialisticamente determinata, è un processo fatale, e quella che l'Italia attraversa è una situazione "indubbiamente rivoluzionaria", compito del partito non è "tanto incitare l'atto violento risolutivo - il quale [...] non è che una necessità conseguente da tutta la situazione e viene quindi quasi fatalmente da sé - quanto preparare gli elementi che ci diano la possibilità di approfittare come partito di classe di questo inevitabile atto e di trarne tutte le conseguenze socialiste consentite dai tempi e dall'ambiente", approntando "tutte le forze dell'assestamento socialista indispensabili per consolidare il nuovo regime e renderne possibile il definitivo trionfo" (23); secondo questa concezione fatalistica e nello stesso tempo tecnicistico-costruttivistica, il partito non è un organizzazione di militanti rivoluzionari, ma una scuola di gestori della rivoluzione avvenuta ed uno strumento per l'utilizzo nel suo quadro delle competenze altrui, anche se esercitate da controrivoluzionari. Che importa? La rivoluzione si fa comunque da sé! 4) Il solito argomento, legato al precedente, della necessità di "tener conto della situazione delle folle se si vuole davvero guidarle al trionfo e non distanziarsi da loro e staccarsi dalla loro vita" (24) (il che significa, in realtà, accodarsi alle masse comunque orientate, e farsene guidare) si accompagna a quello, tipico dei riformisti, che in Italia "la rivoluzione sarà compiuta in condizioni infinitamente più difficili di quella russa", altra ragione per procedere "coi calzari di piombo" facendo uso accorto delle doti organizzative e tecniche di amministratori riformisti conservati in virtù di tali benemerenze nelle file di un partito ufficialmente... antiriformista.

Forte (si fa per dire) di questi argomenti (25), il massimalismo serratiano affronta la riunione della direzione del 28 sett.-1 ott., la prima dopo il II Congresso mondiale. Di questo episodio (26) si è molto esagerata l'importanza: se intatti essa segna una prima incrinatura nel vertice massimalista, il dibattito e le sue conclusioni sono quanto mai superficiali.

Per i massimi dirigenti socialisti tutto si riduce alla questione della natura, del significato e dei limiti di quella che gli uni chiamano "separazione", gli altri "epurazione" del partito. Sulla sua necessità tutti concordano, almeno a parole: ma Graziadei si preoccupa di ammorbidire i 21 punti sostenendo che essi lasciano alle sezioni nazionali "una ragionevole libertà di giudizio" e, col XXI, offrono "una formula serena, dignitosa e impersonale per la divisione"; Terracini reputa necessario "non porre come pregiudiziale l'unità del partito e come eccezione ad essa l'epurazione dei singoli, ma affermare la necessità dell'epurazione, la quale dovrà poi essere compiuta senza vane e dannose esagerazioni"; Regent giudica tanto inevitabile la scissione, quanto doverosa l'imposizione della "più severa disciplina anche agli elementi di estrema sinistra"; Bacci è per l'unità del partito, "salvo l'uscita di coloro che ne respingono le basi fondamentali", cioè nessuno; Gennari invoca l'espulsione dell'intera frazione di Reggio Emilia, ma esclude ogni ostracismo verso "i centristi"; Serrati, infine, sostiene che ci si deve scindere, certo, ma "temperare l'impoliticità delle espressioni e delle norme russe [!!] con quell'avvedutezza italiana che, nulla abbandonando del programma comunista, lo adatti alle particolari circostanze del nostro paese", ovvero applicare i deliberati di Mosca "con quel tanto di sano criterio nostrano che ci permetta di eliminare gli elementi nocivi senza provocare al Partito una tale crisi, che ne siano travolti i più delicati organismi".

Il vittorioso o.d.g. Terracini (7 voti contro 5) afferma:

"La Direzione del Partito, riconoscendo che le necessità attuali (27) della lotta rivoluzionaria italiana e la situazione storica presente impongono di rendere più omogenea la compagine del Partito; che se questo risultato, necessario per lo sviluppo del movimento proletario del nostro paese, non venne raggiunto al congresso di Bologna, ne spetta la colpa al non avere allora potuto, per le speciali contingenze, dare alle deliberazioni in esso approvate un carattere impegnativo per tutti gli iscritti al Partito, ma all'avere invece permesso a tutti la permanenza in esso, salvo l'obbligo, non osservato, della disciplina; che l'esperienza di quest'ultimo anno ci ha insegnato che è illusorio supporre che la disciplina possa essere imposta ed osservata da coloro che hanno una convinzione ed una pratica di azione completamente contraria e non conciliabile con i principi e la tattica della III Internazionale; fa suoi i 21 punti delle tesi di Mosca sulla costituzione dei partiti comunisti, per i quali punti si deve procedere ad una radicale epurazione, allontanando dal Partito gli elementi riformisti ed opportunisti, secondo le forme e i modi che verranno sottoposti alla discussione del prossimo Congresso".

Ed ecco invece i punti essenziali del soccombente o.d.g. Baratono:

"La D. del PSI, discutendo in merito ai 21 punti stabiliti dal II Congresso della III IC, come condizioni ugualmente fissate ai partiti socialisti di tutti i paesi per far parte, quali sezioni nazionali, della III IC, riconosce che […] essi corrispondono pienamente ai concetti che prepararono le tesi trionfanti al congresso di Bologna e ispirano fino ad oggi l'azione del PSI, nonché ai principi genuini del "Manifesto dei Comunisti" del 1848; afferma [poco curandosi della contraddizione con quanto detto sopra] la necessità di conformare il criterio [o programma?] politico di ogni sezione della III IC alle ragioni storiche e alle contingenze concrete e di fatto del proprio paese, sottoponendolo all'approvazione della stessa Int.; e riafferma pertanto la necessità di mantenere compatta l'unità del PSI sulla base e nei limiti giustamente imposti dal 21° punto, secondo cui non potrà essere membro della III Int. chi ne respinga i principi e non ne accetti consensualmente la disciplina; intende che i casi individuali di indisciplina siano più rigorosamente invigilati e sanzionati, dando alla Direzione un potere più centralizzato che per l’innanzi".

La stessa riunione accetta che la pubblicazione della Lettera del CE dell'IC sia rinviata, in attesa di una risposta alle rettifiche suggerite dalla direzione e di un incontro da essa sollecitato con Zinoviev, che poi non avvenne (28).

La riunione del 29 sett.-1 ott. inaugura un periodo di accelerata crisi massimalista. Il l0/X Serrati si dimette dalla direzione della edizione piemontese dell'Avanti! per protesta contro un violento attacco di quest'ultima alla delegazione confederale a Mosca (29): il manifesto lanciato a Torino "Ai Compagni, alle sezioni socialiste, ai Consigli di fabbrica e alle organizzazioni economiche" sottolinea il "contrasto ideale" acuitosi nell'ultimo semestre con l'edizione nazionale del quotidiano, e rivendica all'edizione piemontese il diritto di presentarsi "senz'altro come organo di una tendenza" basata sulla "accettazione e applicazione integrale dei principi comunisti" - non dunque la tendenza dell'Ordine Nuovo che all'epoca è in piena eclissi, ma la tendenza di estrema sinistra socialista favorevole all'accettazione senza riserve delle Tesi del II Congresso. Pochi giorni prima, era avvenuta a Milano la riunione di "compagni rappresentanti le frazioni e le tendenze estremiste del PSI" con la costituzione ufficiale della Frazione comunista (vedi il capitolo seguente). Di poco successiva è un'aspra polemica fra Serrati da una parte, Lenin e Zinoviev dall'altra, sulla quale conviene soffermarsi.

Una prima Lettera aperta al compagno Serrati redatta da Zinoviev e datata Berlino 22 ottobre (l'Avanti! la pubblica il 14 novembre), afferma che "i destini della rivoluzione italiana dipendono, nell'immediato avvenire, dalla misura in cui il PSI saprà liberarsi dagli elementi riformisti che sabotano la rivoluzione proletaria", trasformandosi "da organizzazione che ostacola la rivoluzione in organizzazione che contribuisce a svilupparla".

Ribadito che "chiunque si preoccupa in questo momento di unirsi con i riformisti o con i semiriformisti commette, lo voglia o no, un crimine nei confronti della rivoluzione", essa chiede a Serrati di dire la sua "ultima parola", augurandosi che questa "renda possibile la nostra azione comune".

In una breve postilla, il direttore dell'Avanti! conferma tuttavia il proprio "diritto a pensare contro tutti i nazionalismi, contro tutti gli opportunismi e contro tutte le prepotenze" (sic!).

La seconda lettera, da Stettino, 23 ottobre, qualifica di "sfida" la costituzione della Frazione unitaria e, ripetendo che "civettare con i riformisti significa letteralmente e precisamente uccidere la rivoluzione proletaria e tradire la classe operaia in Italia", conclude:

"Senza diplomazia, con franchezza proletaria, noi vi diciamo la nostra opinione. Vi proponiamo di cancellare il capitolo scritto nelle ultime settimane. Vi preghiamo di darci una risposta chiara e diretta, affinché sappiamo chi è pro o contro e che cosa dobbiamo fare" (30).

Se qui Zinoviev non sembra escludere un superamento dei contrasti e perfino, una volta "purificato" il PSI dai più noti elementi di destra, la possibilità di qualche modifica di dettaglio alle condizioni di ammissione, e se in una contemporanea lettera a Gennari (31) giudica che "con l'attuale situazione in Italia sarebbe veramente un lusso una divisione nelle file dei comunisti", il messaggio dello stesso 23/X da Stettino alla Frazione comunista del PSI mostra come, desideri a parte, per il CE dell'IC non vi siano dubbi:

"Se Serrati e i suoi amici vogliono difendere l'IC, se vogliono contribuire effettivamente alla formazione di un vero Partito comunista in Italia, devono prendere posto nella vostra frazione.

É questa l'unica soluzione possibile, né il CE dell'internazionale Comunista potrebbe accoglierne o approvarne un'altra […] Noi non riconosciamo in Italia altra frazione comunista che la vostra. Tutti coloro che non sono con noi, sono contro di noi" (32).

L'articolo di Lenin, A proposito della lotta in seno al PSI, è del 4 novembre; Falsi discorsi sulla libertà (A guisa di poscritto), è dell'11 dicembre. Il primo risponde al breve commento apposto da Serrati il 5 ottobre alla Lettera agli operai tedeschi e francesi scritta il 25 settembre dallo stesso Lenin: questi, dice il big massimalista, "attenua fino a un certo punto quelle che parevano draconiane condizioni dettate da compagni che non sono totalmente in grado di valutare uomini e condizioni a tanta distanza e con tanta differenza di ambiente", non esclude "eccezioni" alla regola generale, e intanto "abbandona una preda: Modigliani". Ora, circa l'ironica allusione alla "preda", Lenin ribatte che, se egli cita questo o quel nome, lo fa "solo come esempio per designare una tendenza" caratterizzata - al di là delle "singole persone" da cui è composta - da un ruolo storico ben preciso. Quanto alla "particolarità concreta dell'Italia" invocata dai serratiani per giustificare il loro atteggiamento, essa consiste "nell'effettiva incapacità dei riformisti di applicare realmente le decisioni del partito e di tradurre nella pratica la sua politica". Ne segue che "tollerare che i riformisti rimangano nel partito mentre la situazione generale si acuisce sempre più, e si è forse già alla vigilia di battaglie rivoluzionarie decisive, non è soltanto un errore, ma anche un delitto". Riferendosi infine ad una intervista di Serrati all'Humanité del 14 ottobre e ad alcuni degli articoli sopra ricordati, Lenin riassume così il nodo del dissenso: "Serrati teme la distruzione dei sindacati, delle cooperative, dei comuni, l'imperizia e gli errori dei novizi, degli uomini nuovi; i comunisti temono invece che i riformisti sabotino la rivoluzione"; sanno anzi, per amara esperienza, che "avendo nelle proprie file i riformisti, i menscevichi, non si può difenderla". Perciò l'espulsione dell'intera frazione di Reggio Emilia "non indebolirà ma rafforzerà il partito", liberandolo di "capi" che possono solo "perdere la rivoluzione 'all'ungherese', pur se continuano ad essere leali". Il partito anzi si rafforzerà anche accettando le dimissioni degli esponenti della frazione unitaria: "dopo il periodo delle battaglie decisive, essi ritorneranno, e saranno allora più utili al proletariato". Che poi agli occhi di Lenin l'insistenza di Serrati e C. nel difendere a tutti i costi l'unità coi riformisti abbia reso sempre più dubbia anche quest'ultima prospettiva, lo dimostra il Poscritto (33) dell'11 dicembre, dove, prendendo a bersaglio i discorsi di Nobs e Serrati sulla libertà in generale o, che è lo stesso, la libertà "entro i confini della democrazia del lavoro", egli proclama "condizione principale e fondamentale della vittoria" la "libertà dei partiti del proletariato rivoluzionario dagli opportunisti, dai 'centristi', dalla loro influenza, dai loro pregiudizi, dalle loro debolezze, dalle loro esitazioni".

Sono parole forti, che però lasciano aperto uno spiraglio alle future condiscendenze di un'Internazionale non più sicura di sé verso gli autentici "centristi" del movimento operaio, soprattutto occidentale - non gli esponenti dichiarati del riformismo, ma coloro che accettano di "coprirli da sinistra". Lo lasciano aperto non perché, come tutti i documenti dell'Internazionale in quell'epoca, diano della situazione italiana un giudizio eccessivamente ottimistico, ma perché limitano il ruolo obiettivo di sabotaggio dei centristi e di buona parte degli stessi riformisti ai periodi di "vigilia della rivoluzione" e mettono sullo stesso piano gli Zinoviev-Kamenev, esitanti di fronte al grande salto dell'Ottobre, e un massimalismo incapace di assumere i compiti e le responsabilità - tanto più gravi nell'Occidente a capitalismo avanzato e a tradizioni democratiche incancrenite - della preparazione rivoluzionaria delle masse contro tutte le insidie del gradualismo riformista. "Alla vigilia della rivoluzione e nei momenti della lotta più accanita per la vittoria di essa - scrive Lenin - le più piccole esitazioni in seno al partito possono perdere tutto, far fallire la rivoluzione, strappare il potere dalle mani del proletariato, poiché questo potere non è ancora solido, perché l'attacco contro di esso è ancora troppo forte. Se in un momento simile i capi esitanti [compresi "degli eccellenti comunisti che potrebbero tentennare, e che manifestano esitazioni nel senso dell'unità con i riformisti"] si tirano in disparte, questo non indebolisce, ma consolida il partito, il movimento operaio, la rivoluzione". Il guaio - questa l'obiezione della nostra corrente - è che né quei capi "si tirano in disparte" (se anche lo facessero, rimarrebbe in piedi la fitta rete di un apparato non solo di partito, che sta alle loro spalle, e di cui essi sono l'espressione o almeno la voce: del resto, gli isolati Zinoviev e Kamenev, che erano ben altra cosa dai Serrati e C., avevano dovuto essere espulsi dal partito bolscevico: altro che "tirarsi in disparte"!), né la loro azione è meno rovinosa nel difficile cammino che porta dalle inerzie della tradizione democratica fino alla lotta per la conquista rivoluzionaria del potere, quando proprio sui sindacati, i comuni, i seggi in parlamento ecc. fa leva - col pieno appoggio del verbalismo centrista - la diseducatrice propaganda e, soprattutto, la sabotatrice prassi riformista. La "muraglia di diffidenza, di vigilanza e di controllo proletari" di cui Lenin invoca la costruzione affinché gli uomini di Reggio Emilia "non rovinino la causa della rivoluzione", come hanno fatto "in tutti i tempi e in tutti i paesi" e come era accaduto di recente in Ungheria e per poco non era avvenuto in Russia, è altrettanto necessaria (lo stesso Lenin, del resto, l'aveva più volte ripetuto) per gli "uomini di Firenze": il loro "ritorno", a parte casi individuali, non sarà mai "utile" alla causa del proletariato. La storia successiva dell'Internazionale ne sarà l'ulteriore riprova (la stessa polemica postuma sul grado in cui era stato bene che a Livorno si tagliasse spietatamente "a sinistra" ne risentirà nella primavera successiva) e la conferma delle nostre apprensioni di allora: è un magro conforto la certezza che Lenin non si sarebbe mai lasciato legare le mani da simili "formule di propaganda", poiché la formula ha fatto il suo corso e combinato i suoi guai indipendentemente da chi l'aveva contingentemente lanciata.

Riunitasi a convegno il 20-21 novembre a Firenze, la Frazione "comunista unitaria" del PSI votò infine una mozione, la cui prima parte, relativa alle passate "conquiste" del movimento, è forse ancora più istruttiva di quella finale (che elenca i punti essenziali dell'azione presente e futura del partito), perché ne mette in luce la concezione del tutto gradualista della "via del potere". Essa ricorda, anzitutto, che il PSI,

"in forza della sua organizzazione politica ed economica, non è soltanto il più compatto ed il più robusto dei partiti politici in Italia, ma ha già conquistato un potere politico effettivo (34), che risiede nei vari e molteplici organi della sua perenne attività; è dunque il solo che possa assicurare al proletariato, così l'abbattimento del regime borghese, come la ricostruzione e l'ordinamento comunista"; rievoca la posizione assunta dal PSI contro la guerra imperialistica e per la ricostruzione dell'Internazionale nel 1914-1918; sottolinea il fatto che, "dopo il Congresso di Reggio del 1912 (espulsione dei riformisti) e il Congresso di Ancona del 1914 (espulsione dei massoni), la tendenza rivoluzionaria e assolutamente intransigente ha dominato senza contrasto nel partito, trascinandosi dietro [!!] le frazioni di destra e le organizzazioni sindacali confederate, subordinando le prime con una severa [!!] disciplina, le altre con un chiaro [!!] patto di alleanza"; afferma "che le conquiste economiche e politiche di questi ultimi tempi, anche se determinate da condizioni e da finalità contingenti, hanno chiaramente ed incontestabilmente assunto [di per sé?] il carattere di semplici mezzi per le ultime conquiste comuniste". Proclama [ecco il gloria in cui finiscono i salmi precedenti] "la necessità per il nostro Partito di conservare la sua compagine unitaria allo scopo di meglio e più rapidamente giungere allo sbocco rivoluzionario della nostra azione".

Circa i rapporti con la Internazionale Comunista, la mozione ricorda (con grande sfoggio di retorica) che il "PSI ha per primo aderito alla III Internazionale nella quale è entrato a bandiera spiegata", "ha strenuamente caldeggiato e difeso di fronte allo stato borghese la rivoluzione russa, a lei rivolgendo tutte le proprie speranze e a lei dedicando le migliori energie", e, immediatamente dopo la guerra, ha "sentito spontaneamente il bisogno di modificare il suo statuto votando al Congresso di Bologna una mozione che accettava i criteri direttivi della nuova Internazionale, conformi del resto a quelli che ispirano il Manifesto dei comunisti, ossia la dittatura del proletariato, la necessità della violenza, l'opposizione degli istituti comunistici a quelli democratici, ecc. ecc., conformemente ai mezzi e ai fini della Terza Internazionale"; dichiara che, "di conseguenza, dopo il II congresso dell'IC, il PSI accetta nella loro integrità [!!] i 21 punti di Mosca, aggiuntovi il 22° sull'esclusione dei massoni".

"Infine, rispetto alla interpretazione dei 21 punti e alle conseguenze pratiche che ne derivano, afferma: 1) che [gli unitari] intendono i 21 punti siano interpretati e applicati secondo le condizioni ambientali e storiche del nostro paese, come del resto il CE di Mosca ammette, ed usa poi di fatto con altri paesi, previo accordo con esso CE; 2) Che il concetto di patria e ogni fine nazionale [una piccola lezione... di marxismo ai bolscevichi] sono ormai superati nel concetto e nei fini della Internazionale, dalla quale non si può tornare indietro senza pregiudicare l'interesse della lotta di classe e del proletariato; 3) Che i rapporti tra gli organismi della Terza Internazionale debbano essere aperti e franchi e intercorrere fra organismi responsabili e senza diplomazia segreta [!!]; 4) Che ogni mezzo di conquista è adottabile, nei limiti della più assoluta intransigenza ['ogni' e 'assoluto': miracoli della dialettica massimalista!] di classe e sempre al fine della rivoluzione comunista, per il quale il Partito ha bisogno di integrare la sua azione politica con quella economica delle forze sindacali".

Formulate così le loro rivendicazioni basilari, i massimalisti avanzano una serie di proposte, nessuna delle quali - tanto erano saldamente radicate in loro le tradizioni democratiche e legalitarie - sarà tradotta in pratica dal PSI negli anni successivi:

"1) che il PSI venga rafforzato con un maggiore accentramento, in modo che ogni singolo membro od organo subordini la propria attività alla legge dell'interesse generale e del risultato integrale, e ciò anche [!!] per quanto si riferisce al controllo sulle attività esplicate nel campo intellettuale e della propaganda; 2) che, di fronte all'organizzazione di resistenza e agli organismi economici, il pensiero e la pratica di ragione politica si assicurino la preminenza su tutte le ragioni contingenti e sindacali, con la perfetta [!!] subordinazione al partito politico degli organismi centrali del movimento economico e sindacale; 3) che si dia opera alla preparazione legale ed illegale sia per organizzare i mezzi di educazione e di avviamento e gli strumenti di conquista rivoluzionaria, sia per fondare gli organi di sostituzione". Affermano per concludere che: "Il PSI assume il nome di 'Partito socialista Comunista Italiano', Sezione della Terza Internazionale Comunista".

Accenniamo di volo alla dichiarazione di principi dei rivoluzionari intransigenti raccolti intorno a Lazzari (35) e fusisi a Livorno con gli unitari di Serrati. Essa oppone al riformismo una "rigida concezione della lotta di classe e la concezione marxista unitaria della lotta politica in rapporto a quella economica", la fede nella "rivoluzione non solo come definitiva, esteriore e quasi superflua [!!] conclusione di un ciclo ormai interamente concluso, ma come continuo e dinamico contributo alla trasformazione sociale", la valutazione della "funzione storica del Partito" come "prevalentemente dialettica nella significazione marxista, critica e demolitrice della società presente", e il riconoscimento della "necessità storica, fatale per quanto dolorosa, di non arretrare di fronte all'uso della violenza per rovesciare e superare le immancabili resistenze della classe borghese". Oppone d'altra parte agli "estremisti di sinistra, cosiddetti comunisti esclusionisti" il ripudio di "una concezione rivoluzionaria che tutto riduce [!!] a conquistare il potere politico per comandare dittatorialmente alle leggi economiche [!!]", il rifiuto di "abbandonare il socialismo di Marx per ritornare a quello di Licurgo" [?!], di "valorizzare le masse amorfe e indisciplinate" e di "scambiare per fermento rivoluzionario certi reliquati di guerra (arditismo e simili [bestie nere, in realtà, degli estremisti di sinistra]) che il proletariato deve combattere e debellare per sempre". Infine, respingendo sia una valutazione esclusivamente critica, sia una "mistica adorazione" della rivoluzione russa, e riaffermando la propria "salda coscienza internazionalista", oppone, così all'ottimismo di coloro che belano ancora di "possibili accomodamenti borghesi", come all'ottimismo opposto di chi "disconosce le forze del nemico e ritiene di poterle in brev'ora debellare", la "necessità di una fervida opera di preparazione delle masse all'austero e grande compito che loro riserba la storia; la necessità [rieccoci al gloria] di mantenere, per le difficili ore di lotta che ci attendono, salda la compagine del partito, in una inesorabile disciplina di uomini e di masse".

Il convegno di Firenze si era tenuto una decina di giorni dopo l'ultima domenica di quelle elezioni amministrative che avevano segnato un nuovo trionfo socialista, e mentre a Bologna i fascisti davano l'assalto prima alla Camera del Lavoro, poi a Palazzo d'Accursio, inaugurando una delle fasi più accese dell'attacco alle roccaforti del "potere rosso" (cfr. il capitolo VII). In questa antinomia si rispecchiava la sfasatura fra direzione massimalista del PSI e realtà del movimento sociale. Non solo l'esito della consultazione elettorale svoltasi in più tornate dal 12/IX al 7/XI venne accolto dai serratiani come argomento in più a favore della salvaguardia dell'unità del partito, e della assoluzione di una destra che controllava le grandi organizzazioni operaie e buona parte delle amministrazioni comunali e provinciali (i socialisti avevano ottenuto la maggioranza in 2162 su 8059 comuni e in 25 province su 69), ma lo stesso esito contribuiva a diffondere tra i massimalisti un senso del tutto illusorio di sicurezza, per non dire - nel linguaggio di Adelchi Baratono -, di "potenza".

L'offensiva antiproletaria dello Stato democratico e del parastato fascista era infatti in pieno corso, incontrando resistenze nella fiera determinazione degli operai di non cedere terreno, non certo nel fatto che alle loro spalle ci fosse la guida politica e l'organizzazione pratica del partito. Eppure, commentando il trionfo elettorale nell'Avanti! del 12/XI (Dopo la vittoria), Serrati non esitava a scrivere con beata incoscienza: "il proletariato - e il partito socialista che ne è l'espressione politica - sa perfettamente quale è la propria capacità, quali sono i suoi mezzi di lotta, non si culla in illusioni fantastiche, non si rode in scoramenti eccessivi. Noi sappiamo che vinceremo, conosciamo la meta che dovremo necessariamente raggiungere, abbiamo notizia delle tappe che ci resteranno nel cammino; valutiamo anche, con quella relatività che ci è consentita, i pericoli che potremmo incontrare per istrada. Sono perfino calcolate [!!] nel nostro difficile viaggio anche le soste forzate e gli eventuali arretramenti; non siamo dei miracolisti, noi, e neppure dei volontaristi, siamo dei marxisti che valutano e misurano la realtà, che si muovono in essa". E il 25/XI aggiunse, questa volta non più per dar prova di tranquilla fiducia, ma per giustificare una posizione di attesa passiva che escludeva, nei fatti se non nelle parole, ogni seria preparazione delle masse: "Non siamo dei romantici che si battono quando fa comodo al nemico: siamo dei materialisti, dei marxisti, che quando occorre sanno attendere e prepararsi" (articolo intitolato Attenti alla reazione!). Così, più il terreno reale sfuggiva sotto i piedi di quello che pretendeva di essere l'organo di direzione e organizzazione delle masse, più il massimalismo si adagiava nella placida convinzione che la capacità di "conservare integre e compatte le forze delle nostre istituzioni" rappresentasse la garanzia che si sarebbe usciti vittoriosi da una situazione troppo favorevole, oggettivamente e soggettivamente, per poter essere sfruttata dalla classe avversa. Significativamente in risposta a Lenin, Serrati arrivava a scrivere con orgoglio alla metà di dicembre (36):

"L'unico paese - dopo la Russia - che si trovi socialisticamente in buone condizioni di lotta contro la borghesia, è l'Italia.

Qui, anche se 'vittoriosi', tutte le strutture economiche, politiche, morali dei vinti. Qui, più che altrove, la crisi, qui il disagio, qui la irritazione. Qui, in pari tempo, una preparazione politica delle masse ed una organizzazione economica - proporzionalmente - migliore che altrove.

Il nostro partito conta 250.000 soci, ha 150 deputati alla Camera, 2.500 Comuni. Le Organizzazioni economiche di resistenza raggruppano oltre due milioni e mezzo di aderenti. Le Cooperative che sono sulle nostre direttive si contano a migliaia. Abbiamo il terreno ed i materiali per la ricostruzione. Per la massa dei nostri compagni non c'é dissenso tra quelle che si sono chiamate le due anime: anzi esse non sono che un'anima sola, realizzatrice ed avvenirista; per la conquista immediata e per la rivoluzione: un'anima socialista e rivoluzionaria".

Come stupirsi che un' Internazionale tuttavia disposta a concedere un minimo di fiducia all'ala di sinistra del socialismo francese o tedesco nella misura in cui, sia pure con molte esitazioni, accettava di rompere con la destra, considerasse invece chiuso il capitolo di un possibile accordo col massimalismo italiano, sempre più tenacemente aggrappato ai riformisti? Il 20/XII, su mandato del CE dell'Internazionale, Zinoviev indirizzava da Reval un'ultima lettera alla direzione del partito socialista, e personalmente a Serrati, che era nello stesso tempo una lettera di addio. Dopo aver denunciato le crescenti esitazioni e, peggio, capitolazioni massimaliste di fronte alla destra, egli vi si diceva convinto "che il compagno Serrati sdrucciola di più in più verso la politica opportunista centrista. Ammettere delle concessioni ai riformisti per far piacere a Serrati sarebbe rovinare il partito". E concludeva: "Soltanto la frazione comunista italiana che ha tenuto recentemente la sua riunione ad Imola ha posto il problema in modo chiaro e distinto. Coloro che vogliono marciare in Italia con l'Internazionale comunista devono sostenere questa frazione [...] Viva il partito comunista italiano purificato degli elementi riformisti e semiriformisti!".

 

3. - L'eclissi dell'ordinovismo

Gli storici nazionalcomunisti (o "eurocomunisti") del processo di formazione del PCd'I si trovano in uno sgradevole dilemma: da un lato, avrebbero il dovere d'ufficio di documentare il contributo dell'ordinovismo o almeno di Gramsci a tale processo - e non lo possono se non a costo di "rifare dalle fondamenta" la storia; dall'altro si rammaricano che, nella tarda estate e nell'autunno 1920, gli uomini già dell'Ordine Nuovo abbiano finito, agendo in ordine sparso o addirittura astenendosi dall'agire, per lasciar via libera all'"egemonia bordighiana" - e cosi negano loro proprio ciò che in quel periodo meritoriamente li distinse, cioè l'essersi messi disciplinatamente, anche se in modo non molto attivo né, soprattutto per quanto riguarda Gramsci, molto chiaro, al servizio di una causa alla quale non erano in grado di fornire apporti teorici e programmatici: la causa cioè non del "bordighismo", ma del comunismo tout court.

Si è già visto come le ali dell'Ordine Nuovo separatesi in luglio si fossero poi riavvicinate durante l'occupazione delle fabbriche, quando la stragrande maggioranza dei cosiddetti ordinovisti agì come parte integrante "comunista elezionista" della sezione del PSI e della sua stessa direzione, e Gramsci ne seguì sostanzialmente, sia pure con un certo distacco, le orme. Ora poi, assunta in pratica la direzione dell'Avanti! in edizione piemontese, i primi erano tutti impegnati nella polemica interna con riformisti e serratiani e nella diffusione della piattaforma sulla cui base, conformemente alle Tesi del II congresso dell'IC (37), si era appena costituita la Frazione comunista del PSI, e Gramsci traeva lo spunto per un "profondo ripensamento" dal bilancio politico dell'occupazione delle fabbriche, spostando la sua attenzione dalle masse, e dal loro sforzo per "autogovernarsi industrialmente e politicamente", all'"avanguardia proletaria", la cui assenza aveva impedito di risolvere il problema - tuttavia postosi obiettivamente - della presa del potere, e presentando questa avanguardia come lo "stato maggiore" di una guerra che esige di essere non solo minuziosamente preparata ma "condotta senza consultazione preventiva, senza apparato di assemblee rappresentative": insomma, come il partito (38). Ed è ben vero che il numero 2 ottobre 1920 de L'Ordine Nuovo riprendeva il tema classico dei Consigli come "l'istituzione rivoluzionaria storicamente più vitale e necessaria della classe operaia" e del controllo sull'industria "come fase del processo rivoluzionario in cui il proletariato crea un suo apparecchio di potere economico e dimostra alle grandi masse della popolazione di essere il solo capace di risolvere i problemi posti dalla guerra imperialista". Ma, col passare dei giorni, il richiamo a tutta questa tematica assunse toni sempre più didattici e propagandistici e sempre meno agitatori, e l'attenzione di Gramsci si concentrò sulla polemica spicciola e acrimoniosa con le correnti di destra e di centro del partito (39) a detrimento delle grandi questioni programmatiche. Avviene cosi che gli "storici" non possano citare un solo articolo in cui egli affronti, in vista del congresso, i problemi di fondo intorno ai quali si svolgeva internazionalmente il dibattito (40): nella più benevola delle interpretazioni, si può dire che egli svolse, nel processo conclusosi a Livorno, un ruolo di cauta e modesta retroguardia.

Nei rari casi, invece, in cui cerca di elevare il discorso all'altezza dei principi, egli si muove in un'orbita del tutto personale, senza il minimo punto di contatto con quella disegnata dalle grandi tesi del II congresso dell'IC - esempio tipico il lungo saggio, che fa la delizia degli storici e dei politici tipo Botteghe Oscure, apparso il 4/IX e il 9/X de L'Ordine nuovo col titolo Il Partito Comunista, l'unico di qualche impegno uscito dalla sua penna nel periodo pre-Livorno. Qui, in pagine a tutto ispirate fuorché alla dottrina marxista, il proletariato appare bensì come classe solo in quanto si organizzi in partito, non tuttavia perché quest'ultimo sia il depositario del programma comunista e l'organo fondamentale della battaglia per la sua realizzazione, ma perché - si badi bene! - "é lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione, per cui l'operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà". D'altro canto, al riconoscimento della necessità del partito vi si arriva o per la constatazione empirica che, "esaurita la borghesia come classe dirigente con l'esaurirsi del capitalismo come modo di produzione e di scambio, non esistendo nella classe contadina una forza politica omogenea capace di creare uno Stato, la classe operaia è ineluttabilmente chiamata dalla storia ad assumersi la responsabilità di classe dirigente", oppure in virtù del postulato pseudo-teorico, estraneo comunque al marxismo, che "solo il proletariato è capace di creare uno Stato forte e temuto, perché ha un programma di ricostruzione economica, il comunismo" (il comunismo, nel quale lo Stato deve per definizione estinguersi, è qui ridotto a garante della capacità della classe operaia di costruirne uno, forte quanto sembrerebbe che sia debole quello borghese!), quando poi non ci si richiama all'argomento giuridico-costituzionale che solo il proletariato "può, creando un organo del diritto pubblico [!!], il Soviet, dare una forma dinamica alla fluida e incandescente massa sociale, e sistemare un ordine nel generale sconvolgimento delle forze produttive". è perciò, non per tutt'altre considerazioni, che "é naturale e storicamente giustificato che si ponga il problema della formazione del Partito comunista, espressione dell'avanguardia proletaria che ha esatta coscienza della sua missione storica, che fonderà i nuovi ordinamenti, che sarà l'iniziatore e il protagonista del nuovo originale periodo storico"!

O vogliamo ritenere un contributo alla riaffermazione e precisazione del programma comunista gli articoli dell'1 e 13 gennaio '21, intitolati rispettivamente Lo Stato operaio e Il congresso di Livorno, altra delizia per gli storici e politici del "partito nuovo", nazionale e democratico?

Nel primo di essi (41), tutto quel che si rinfaccia al PSI è d'essere "incapace di formarsi una dottrina dello Stato operaio nazionale e di elaborare un metodo di azione idoneo a raggiungere il fine immediato della sua esistenza, la fondazione appunto di un tale stato", onde la sua incapacità di comprendere anche "la dottrina dello Stato operaio mondiale, la dottrina dell'Internazionale comunista". Nel secondo, si svolge la tesi, allora quanto meno... peregrina, che "solo la classe operaia può portare a termine l'opera della borghesia" ovvero "il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento", precisando che, se "la borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano, la classe operaia ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano" (42) e facendo dipendere dalla missione... nazionale del proletariato la stessa esigenza internazionalista: "La classe operaia italiana sa di non potersi emancipare e di non poter emancipare le altre classi oppresse e sfruttate dal capitalismo nazionale, se non esiste un sistema di forze rivoluzionarie mondiali aspiranti allo stesso fine [...] è disposta [bontà sua!] ad aiutare le altre classi operaie nei loro sforzi di emancipazione, ma vuole avere anche una certa garanzia [!!] che le altre classi l'aiuteranno nei suoi sforzi. Questa garanzia può essere data solo dalla esistenza di un potere internazionale fortemente centralizzato". Altro che verso Livorno: qui si naviga verso il mostriciattolo del "partito nuovo" chiamato a completare il Risorgimento nazionale, a copertura della cui gestazione nel 1923-24 Gramsci, in tutta coerenza, chiederà l'appoggio internazionale di Mosca.

Per concludere, Gramsci segue il processo di formazione del PCd'I, non vi contribuisce, e lo fa da spettatore non impegnato. E qui vediamo la "limitazione di fondo" alla quale accennavamo come tipica degli ordinovisti - sia che si dedicassero attivamente alla propaganda per il nuovo partito e alla diffusione del suo programma, sia che ripiegassero su se stessi in distaccata meditazione -, nel modo di aderire alla III Internazionale: il loro contigentismo. Benché in ritardo, essi sentirono la necessità del partito "fortemente centralizzato" e centralizzatore perché e nella misura in cui la situazione italiana appariva loro gravida di potenzialità rivoluzionarie a scadenze vicine, e una recente esperienza insegnava loro che ad affrontarne i compiti non erano sufficienti lo slancio delle masse operaie e, quale sua immediata espressione, i Consigli, così come una vecchia esperienza additava nel PSI uno strumento partitico inidoneo a quello scopo; compresero inoltre che, nella congiuntura del tempo, nessuna prospettiva rivoluzionaria era pensabile fuori della Internazionale comunista (43). L'impostazione data dai bolscevichi in genere e dagli "astensionisti" in specie ai problemi della costituzione, del programma e dell'organizzazione del partito era l'unica che rispondesse ai requisiti urgenti dell'ora, si conciliasse o meno con quanto essi avevano sostenuto in passato: quindi l'abbracciarono e, finché la situazione italiana non parve loro mutata e l'Internazionale non divenne accessibile ad una ripresa dei loro temi prediletti, la difesero, perfino con asprezza. Gli elementi del gruppo che più avevano alle spalle una milizia di partito, prima nel PSI, poi nel PCd'I, furono anche i più lenti e restii ad accettare la "svolta" del 1923-1924; Gramsci faticò tanto meno degli altri ad "allinearsi", in quanto era giunto al congresso di Livorno isolato più di tutti. Non prima del 1923 uscirà dalla sua penna qualcosa di simile alle parole succitate, che per due anni buoni nessuno dei suoi scritti aveva ripreso a formulare.

A Livorno, comunque, l'eclissi dell'ordinovismo appare totale: fino a poco prima, esso sopravviveva come tenue fiammella solo nel suo originario ispiratore.

 

4. - L'ultima battaglia della Frazione comunista astensionista

Il volume precedente si è chiuso con la riproduzione e il commento di tutti i contributi dei comunisti astensionisti al dibattito in sede di II Congresso del Comintern, e con la riconferma della loro fondamentale convergenza con le basi costitutive della III Internazionale. Dobbiamo ora illustrare l'ulteriore sviluppo e la conclusione della battaglia sostenuta da Il Soviet, di cui nei precedenti volumi abbiamo rievocato il concitato percorso; sviluppo e conclusione durante i quali, accantonata la rivendicazione dell'astensionismo in rigorosa osservanza delle "Tesi sul parlamentarismo rivoluzionario" e delle "Condizioni di ammissione" (44), le energie della Frazione appaiono tutte concentrate nello sforzo di chiarire, propagandare ed applicare i deliberati del II Congresso sbarazzando il terreno da tutto ciò che, specialmente in campo massimalista, ostacolava od impediva, sul piano dei principi teorici e politici come dei criteri tattici e organizzativi, la costituzione di un partito comunista il più possibile selezionato, omogeneo e quindi efficiente.

Per essere condotta a termine, questa battaglia implicava che l'onere della polemica su tutti i fronti fosse assunto integralmente dall'unica corrente organizzata in seno al PSI il cui allineamento sulle posizioni dei bolscevichi durante la guerra e nel biennio postbellico non avesse avuto nulla di contingente, di occasionale o di aleatorio, e che quindi potesse difenderle, propagandarle, e svolgerne tutte le implicazioni per quanto riguarda sia l'insieme dei compiti del partito di classe su scala internazionale, sia la loro applicazione ai problemi del movimento operaio occidentale. Se "la condizione che basta per essere incompatibili con l'internazionale non è il collaborazionismo ma un'attitudine che sta più a sinistra del collaborazionismo"; se chi non intende che bisogna romperla col socialdemocratico "che non collabora" non romperà neppure con quello che collabora (45); se tutto ciò - su un terreno che andava ben oltre le vicende personali e locali di uomini e gruppi, per investire l'intero corpo della dottrina e del programma del comunismo, - implicava la decisione di tagliare senza pietà i rami secchi sopravvissuti alle pressanti richieste del dopoguerra europeo, è chiaro che la sola forza capace di porsi alla testa del processo di catalizzazione degli elementi di avanguardia proletaria sulle basi programmatiche integrali del Comintern e di conferirgli il grado più alto possibile di coerenza, compattezza e rigore nella situazione italiana, era la frazione riunita da due anni intorno al Soviet (46). Come i fatti dimostrano, essa accettò di svolgere questo compito senza riserve e, sia detto a smentita degli storici di scuderia, senza settarismi, a meno di considerare settarismo l'esigenza della sottomissione di chiunque, individuo e, a maggior ragione, gruppo (dunque anche degli astensionisti), ai dettami di una piattaforma unica, da non rimettere sotto nessun pretesto in discussione. La fase che così si iniziò, e che occupa tutta la seconda metà del 1920, appunto perché preceduta da un lungo processo di sistemazione teorica poté svolgersi sul doppio binario della battaglia polemica contro la destra e il centro del riformismo, e della battaglia pratica di inquadramento organizzativo delle forze schieratesi sul fronte della Terza Internazionale, senza sacrificare nulla dei principi e senza mai decadere dall'alto livello dottrinario del periodo precedente: l'obiettivo della cristallizzazione non andò mai a detrimento dell'obiettivo parallelo della selezione. Così si spiega un'altra (e indecifrabile per i suddetti storici) peculiarità del processo di formazione del PC in Italia: non solo, qui, le circostanze da noi descritte vietarono al grosso dei massimalisti di entrare nel nuovo organismo e di insediarvisi, ma la coerenza e la continuità della battaglia sostenuta per anni contro la destra e il centro riformisti assicurarono alla Sinistra, nel partito di Livorno, un'egemonia tanto naturale da imporsi da sé come fatto non artificiale, ma organico, e tanto completa da non aver bisogno di esprimersi in una prevalenza numerica né alla base né – come poi si pretese che fosse accaduto - al vertice del partito (47). Tanto meno ne ebbe bisogno, in quanto la sua battaglia si era svolta sullo sfondo di un movimento sociale che, per essere in piena lotta di difesa contro l'attacco congiunto delle forze legali e illegali della repressione borghese, non solo poneva con urgenza il problema del partito di classe, ma gli assegnava, una volta costituito, compiti di eccezionale gravità, cui poteva far fronte solo una direzione tempratasi in una congiuntura sociale e politica ardente oltre che in appassionate controversie dottrinarie. O si riesce a collocarsi in questa prospettiva storica, tanto diversa da quella dei periodi di "ordinaria amministrazione", o non si capiranno mai Livorno e la sua caratteristica (per noi vitale, per altri funesta) di anti-Halle ed anti-Tours.

Il segnale d'inizio della battaglia, e l'annunzio del suo contenuto, dei suoi temi dominanti e dei suoi obiettivi, è dato dal n. XXIV, 3-X-1920, de Il Soviet appena successivo alla già commentata riunione della direzione del PSI. Vi figura anzitutto un comunicato del CC della Frazione, intitolato La situazione politica:

"Udita la relazione del compagno Bordiga sul Congresso di Mosca, ed esaminata la situazione politica italiana, ritiene che i recenti avvenimenti e lo svolgimento del conflitto metallurgico confermino in modo suggestivo le critiche mosse dalla Frazione Comunista al PSI circa la presenza in esso di elementi socialdemocratici e la inettitudine della maggioranza massimalista, che non sa toglier loro il controllo del movimento proletario né tracciare direttive sicure all'azione delle masse: ritiene che il rimedio a queste gravissime deficienze si otterrà con l'applicazione dei deliberati presi al Congresso di Mosca in merito alla situazione del PSI, applicazione che dovrà essere fatta con serietà e con energia spezzando l'equivoco dell'unità del Partito e liquidando la nefasta eredità della tattica socialdemocratica ed opportunista in Parlamento e nei Sindacati, anche quando si celi sotto etichetta massimalista; invita tutti i compagni della Frazione a sorreggere l'azione che il CC ed il Soviet svolgeranno in questo senso per preparare il prossimo Congresso da cui dovrà uscire il nuovo partito Comunista; e fa appello anche al concorso di tutti i comunisti non appartenenti alla Frazione Astensionista perché possa trovarsi un terreno di risoluta azione comune, e possano al più presto organizzarsi le forze che assicureranno nel prossimo Congresso la vittoria del comunismo".

Il testo è importante, primo, perché colloca l'esperienza dell'occupazione delle fabbriche nel quadro internazionale dominato dal II Congresso di Mosca, e ne trae la conferma sia dei deliberati di quest'ultimo, sia delle critiche da noi rivolte alla corrente massimalista del PSI: secondo, perché mette al centro dei gravi problemi di indirizzo del movimento operaio e comunista quello di spezzare l'equivoco dell'unità del partito, non limitandosi a chiedere l'espulsione di singoli individui o gruppi, ma dichiarando pregiudizialmente necessaria la liquidazione della nefasta eredità dell'opportunismo collaborazionista in parlamento e nei sindacati, specie se mascherato di estremismo; terzo, perché mostra come la sinistra "bordighiana" non si ponga come unico possibile candidato alla costituzione del PCd'I, e inviti anche i comunisti non aderenti alla Frazione, ma decisi a far proprie le tesi e condizioni del II Congresso, a ricercare un terreno di "risoluta azione comune" nel senso delle decisioni prese in quella sede e in vista di un congresso nazionale destinato a concludersi con la costituzione del partito comunista.

Non erano, queste, soltanto proclamazioni di principio. Lo stesso numero del Soviet contiene un'importante risoluzione del CC della Frazione comunista astensionista su Gli astensionisti torinesi e il Partito. Vittime della stessa impazienza ed impulsività con cui, durante le grandi agitazioni dell'aprile e del settembre, non si erano curati di delimitarsi con sufficiente chiarezza dallo spontaneismo ed operaismo consiglista, col quale avevano anzi in vario modo civettato, gli astensionisti torinesi - in massima parte operai direttamente coinvolti nelle battaglie di quell'anno, e basti ricordare i Parodi, i Boero, i Gilodi - avevano tratto dal fallimento del moto di occupazione delle fabbriche sotto direzione riformista la giusta conclusione (o meglio riconferma) che era urgente separare le proprie responsabilità tanto dal Partito quanto dalla Confederazione, in modo - aggiungevano - che si potessero stabilire "con più chiarezza e con miglior precisione le basi per le imminenti battaglie rivoluzionarie", ma ne avevano pure tratto la conclusione sbagliata che fosse giunta l'ora di conquistare ipso facto "completa libertà di azione" staccandosi dal PSI, chiedendo perciò al CC della Frazione di "invitare tutti i gruppi della Frazione stessa a uniformarsi a questo deliberato" e di "iniziare il lavoro per la creazione del PC, sezione della III Internazionale", convocando "immediatamente un congresso nazionale per la costituzione degli organi direttivi".

Deciso a portare a fondo il lavoro preparatorio della scissione del PSI sulla base delle decisioni del congresso di Mosca (che, fra l'altro, demandavano ad un Congresso straordinario del PSI ogni decisione in merito all'epurazione o scissione del partito stesso), quindi senza colpi di testa e nella massima disciplina verso quell'Internazionale in cui la Frazione aveva sempre additato la più alta conquista del movimento operaio, il CC rispose:

"Questo gravissimo e inaspettato ordine del giorno dei compagni di Torino ci giunge accompagnato da un articolo di Boero che la mancanza di spazio ci obbliga a rimandare (48). Il CC, pur condividendo le critiche dei compagni di Torino all'indirizzo del Partito, non può impegnare tutta la frazione nel senso da loro chiesto, e non vede altra soluzione che la preparazione del prossimo Congresso Nazionale. Il Congresso di Mosca non ha lasciato adito ad altre soluzioni: ove si volesse fare quanto propongono d'altra parte gli ottimi compagni aretini (49), ossia, costituir subito un Partito comunista Astensionista, occorrerebbe appartarsi dalla Internazionale Comunista, il che non può essere neppure discusso. Invitiamo tutti, dunque, alla coesione e alla calma.

I compagni di Torino, sui quali facevamo il più grande assegnamento, non hanno abbastanza lavorato per la frazione che oggi vorrebbero condurre con sé - anzi hanno adottato direttive tattiche da noi non condivise ed affacciate da altri gruppi, direttive le quali, malgrado il meraviglioso lavoro rivoluzionario dei compagni torinesi, hanno indirettamente e in un certo senso contribuito allo scioglimento poco felice di due grandi recenti battaglie proletarie (50).

Di ciò tratteremo altra volta, ma lo ricordiamo per far presente ai nostri amici di Torino quanto sia facile fare dei passi falsi e quanto sia necessario procedere con unità e disciplina nella preparazione dei metodi di lotta del proletariato. Così pure non siamo pel Congresso della frazione dato il carattere della preparazione del Congresso Nazionale, e preghiamo i torinesi (ed anche i fiorentini) di non insistere in tale richiesta".

La mozione, preludio e, insieme, annuncio della costituzione della Frazione comunista del PSI pochi giorni dopo a Milano, testimonia della decisione degli "astensionisti" - ferme restando le loro convinzioni circa i limiti della tattica comunista, con particolare riguardo all'utilizzo in funzione rivoluzionaria della tribuna parlamentare, e circa il modo di costituzione e organizzazione del Partito - di attenersi ai deliberati del II congresso e di respingere ogni iniziativa, sia pure dettata dalle più generose intenzioni, che ad essi contraddica. Ed è istruttiva anche perché richiama un gruppo di compagni, tuttavia meritori per combattività e dedizione, alla necessità di un comportamento non estemporaneo, ma continuo in tutte le sue manifestazioni, e che, in particolare, lavori nel senso della creazione del Partito su basi solide ed internazionalmente uniformi, non lasciandosi influenzare né dalla contingenza né dalle iniziative - troppo spesso venate di impazienza - di gruppi o correnti di formazione non marxista come l'ordinovismo in senso specifico prima (aprile) e il consiglismo in senso generale poi (settembre). Se la classe operaia doveva trovare nel nuovo Partito la serietà, la fermezza, l'abitudine al lavoro metodicamente collegato in ogni sua fase all'obiettivo da raggiungere, mai subordinato ai capricci della "moda" o alla suggestione di facili successi, a coloro che pretendevano di esserne gli alfieri spettava darne per primi l'esempio non solo nelle proclamazioni, ma nei fatti. Se, per difendere questi criteri, era centralmente necessario pestare sulle dita dei "compagni di squadra" prima che degli outsiders, non si doveva esitare a farlo. Gli "astensionisti torinesi" e aretini ne ebbero la controprova e, da buoni militanti, "incassarono" (51).

Nello stesso numero de Il Soviet si legge un comunicato meno importante, ma utile come dimostrazione di aderenza incondizionata al metodo che si trattava, prima di tutto, di far valere dandone l'esempio. Si era alla vigilia delle elezioni amministrative, e molti si attendevano che la Frazione prendesse un atteggiamento di opposizione frontale al Partito. Fedele alla linea decisa a Mosca, che contemplava - pur senza farne un assoluto - la partecipazione in senso rivoluzionario alle elezioni e al parlamento (o agli organi dell'amministrazione locale), il CC della Frazione rispose a questi compagni appellandosi ad un comunicato apparso il 5/IX nel Soviet, col quale si disponeva che, là dove la sezione avesse presentato una propria lista, i compagni si astenessero "per disciplina dall'attività astensionista". Non per questo essi avrebbero dato attivo contributo ad una battaglia elettorale svolgentesi "insieme a numerosi elementi socialdemocratici e centristi, la cui permanenza nel Partito, dopo le deliberazioni del Congresso di Mosca, è assolutamente precaria": infatti, solo quando il Partito si fosse rinnovato, offrendo le garanzie politiche richieste così dall'Internazionale come dalla corrente astensionista, la disciplina interna sarebbe stata totale, traducendosi non soltanto nella rinuncia a far opera contro l'intervento del Partito là dove le istanze centrali lo avessero deciso, ma anche nell'attiva partecipazione ad esso. Se la Frazione poteva solo entro certi limiti disciplinarsi alle direttive centrali del PSI, doveva essere invece disciplinata senza riserve alle direttive di massima dell'IC: niente astensionismi per principio!

Di là dalle questioni di rilievo più immediato, Il Soviet affronta subito le questioni di fondo destinate ad occupare la scena di tutta la fase preparatoria del congresso di Livorno. Anzitutto il problema del partito e dell'urgenza della sua costituzione, che viene posto anche in rapporto col bilancio dell'occupazione delle fabbriche e del crollo dei miti consiglisti, autogestionari, ecc. In Orientarsi e rinnovarsi!, apparso come editoriale nello stesso numero 24 del 3/X, da un lato si precisa [corsivi nostri]:

"Il famoso 'problema del controllo', e tutta l'agitazione iniziata a Torino da un gruppo di compagni il cui orientamento lasciava a desiderare, non ci hanno mai troppo entusiasmati: fin dai primissimi accenni abbiamo facilmente preveduto che su questo terreno si apriva la via a nuovi espedienti riformistici, e che 'il controllo' operaio sulla produzione, lungi dal bastare a suscitare un incendio rivoluzionario, sarebbe andato a finire in una qualunque provvidenza legislativa dello Stato borghese",

dall'altro si avverte, in pieno accordo - checché ne dicano gli storici tipo Botteghe Oscure - con le Tesi sindacali del II Congresso dell'IC (corsivi nostri):

"Non vogliamo dire che un tale problema non abbia contenuto reale, che i consigli di fabbrica e le occupazioni delle aziende siano organismi e movimenti artificiali. Tutt'altro: abbiamo in essi manifestazioni fondamentali dello svolgimento della crisi borghese, in cui i comunisti, il partito comunista, hanno il dovere di intervenire appunto per introdurvi quel contenuto rivoluzionario che 'intrinsecamente' essi non hanno, come non lo ha la tradizionale lotta sindacale […] Un qualsiasi piccolo strappo alle pure forme borghesi dell'economia e del diritto non è mai rivoluzionario se non fino al momento in cui la borghesia lo nega con tutte le forze, ponendo così il problema del potere: non si passa se non dopo aver rovesciato le istituzioni! Così fu un tempo 'rivoluzionario' anche il postulato, oggi pacifico, della organizzazione e del diritto di sciopero.

Quando questi postulati - e soprattutto quello del controllo - vengono accettati dalla borghesia, la loro efficacia dialettica diviene controrivoluzionaria, nel senso che nel campo economico offrono mezzi di assestamento all'anarchia della produzione, nel campo politico causano un arresto nello slancio delle masse contro il potere borghese".

Quale dunque la conclusione, fermo restando che in simili lotte e in simili organismi i comunisti necessariamente intervengono? Già anticipata in febbraio (52), essa trova ora la sanzione dei fatti (corsivi nostri):

"La lotta veramente rivoluzionaria si svolgerà quando il problema del potere politico, della direzione sociale, sarà irrevocabilmente posto, e la battaglia sarà diretta da quella avanguardia cosciente che è il Partito comunista. Questo può e deve possedere una tale coscienza storica da garantire completamente se stesso, e nella misura del possibile la massa, dalle oscillazioni prodotte dal conseguire i successivi obiettivi che la realtà dell'evoluzione capitalistica le pone - e che si possono chiamare, a piacere, le riforme dei socialdemocratici o i miti dei sindacalisti o dei neo-sindacalisti.

Per imporre in Italia il problema della dittatura proletaria, a cui le masse sono meravigliosamente predisposte, occorre precisamente averlo, un simile partito. Le tergiversazioni dei massimalisti ne hanno forse resa più difficile la formazione, poiché il malcontento e l'insofferenza rivoluzionaria non sono materiali bastevoli a costruirlo. Tuttavia, Mosca ci ha dato fondamenta solide per quest'opera. Non dobbiamo permettere che delle accorte infiltrazioni di vecchie ed equivoche correnti abbiano a minare, fin dai primi momenti, le basi dell'opera nostra.

Non si tratta di escogitare mezze misure e formulette, per applicare da una parte formalmente le condizioni dell'Internazionale e salvare dall'altra l'opera passata di qualche dirigente o di tutta la frazione che ha anche la responsabilità del Partito. Si tratta di dire chiaro e forte che si era completamente fuori strada.

La rotta deve essere radicalmente mutata, la zavorra deve essere buttata via senza esitazione. Il Partito ha una malattia che lo incancrenisce ogni giorno di più. La diagnosi di Mosca è in massima esatta. Occorre il ferro del chirurgo, e bisogna tagliare senza falsa pietà".

Il taglio radicale di Livorno è dunque pienamente scontato, e in funzione di esso la nostra corrente lavora. Il numero del 17/X reca a questo proposito il Manifesto-programma della Frazione comunista del PSI redatto alla riunione congiunta di Milano (cfr. il capitolo successivo) e un comunicato di Adesione della Frazione comunista astensionista in seguito alle intese raggiunte nella fase preparatoria:

"Il CC della Frazione […], riunito il 9 ottobre 1920, udita la relazione del comp. Amadeo Bordiga circa le intese con le altre frazioni e tendenze di sinistra del Partito per la preparazione del congresso e l'azione diretta a conseguire la più efficace applicazione dei deliberati del congresso di Mosca, e presa visione del Manifesto-programma lanciato a tale scopo, stabilisce di dare la sua piena adesione a tale movimento a nome della Frazione comunista astensionista, comunicandola al Comitato provvisorio di Bologna (53), ed invita tutti i gruppi aderenti ad esaminare il programma suddetto in un'apposita assemblea, procedendo quindi nella rispettiva sezione ad un'intesa, sulle basi del programma stesso, coi gruppi affini.

Prende atto che il comp. Bordiga ha dichiarato, senza che altri firmatari del Manifesto sollevassero obiezioni, che la Frazione comunista astensionista conserva tuttora la sua costituzione e la sua organizzazione, e si attiene, circa le elezioni amministrative, ai criteri contemplati dai recenti deliberati del CC. Ed augura che gli sforzi concordi di tutti i comunisti siano coronati dal successo nell'opera di rinnovamento degli organismi e dell'attività rivoluzionaria del proletariato italiano".

Imperterriti, gli storici d'ufficio ripetono il ritornello della chiusura, dell'intrattabilità e del settarismo "bordighiani"!

Le grandi questioni di principio - la rivoluzione e la dittatura proletaria come unica via di trapasso al comunismo, l'internazionalità della lotta rivoluzionaria, il ruolo centrale del partito nella preparazione e nella guida dell'assalto al potere e nel suo dittatoriale esercizio, il ruolo subordinato ma pur sempre vitale degli organismi intermedi, e la necessità per il partito di conquistarli alla propria influenza, ecc. - erano state ormai definitivamente sistemate, oltre che nelle Tesi e Condizioni di ammissione dell'IC, nelle Tesi e nei diversi articoli teorici della Frazione. Si trattava ora di portare alle estreme conseguenze la lotta sia contro l'opportunismo nella tradizionale veste socialdemocratica, sia contro l'opportunismo nell'insidiosa veste centrista (o massimalista) denunciando di quest'ultimo la falsa ortodossia sinistreggiante nelle questioni tattiche relative a strati sociali e a forze storiche non proletarie ma oggettivamente spinte a battersi contro il giogo dell'imperialismo capitalista e, in parallelo, il vergognoso tradimento dei principi nelle questioni non solo strategiche ma tattiche del movimento puramente proletario. Si trattava di demolire ideologie comuni anche a correnti destinate a confluire nel partito di Livorno, mostrando la necessità che le decisioni del II congresso fossero applicate alla situazione italiana e alle vicende interne del PSI con tutta la severità e il rigore imposti da un bilancio decennale di amare esperienze. Si trattava di raccogliere su basi di chiarezza e omogeneità politica il massimo delle forze proletarie conciliabile con l'esigenza di non sacrificare alle seduzioni del numero o del successo immediato l'intransigenza e globalità del programma, e di smantellare l'edificio di maligne insinuazioni e di voluti travisamenti costruito intorno all'Internazionale e ai suoi organi direttivi. è su questi temi, perciò, che insiste la campagna della Frazione astensionista nella seconda metà del 1920, e va ad essa il merito di averla condotta con grande rigore a costo di sostenere da sola tutto il peso della polemica con la destra ma soprattutto con il centro socialisti.

Così, nello stesso numero, l'articolo su Il convegno di Reggio Emilia mostra quanto sia equivoca la mozione dell'ala riformista del partito e deplora, come già Il gesto dei concentratori del 19/IX, che l'abituale sincerità turatiana rischi di cedere il passo ad una più o meno esplicita tendenza alla riconciliazione coi massimalisti, ad ulteriore scapito della necessaria chiarezza politica. Il numero del 17/X, Da Mosca a Firenze (in quest'ultima città si sarebbe dovuto riunire il XVII congresso poi convocato per motivi di sicurezza a Livorno) prende spunto dalla riunione ricordata più sopra della direzione del PSI per ritornare sulle obiezioni rivolte da Serrati al cosiddetto "opportunismo moscovita" nelle questioni agraria, nazional-coloniale ed altre, additando in esse un espediente di bassa cucina per contrabbandare, sotto le spoglie menzognere della "intransigenza" teorica, posizioni ultra-opportuniste:

"Tutte le obiezioni [di Serrati] a certe risoluzioni del congresso" si giustificherebbero "solo partendo dalle premesse di un metodo precisamente opposto a quello invocato da Serrati nelle polemiche con noi, che voglia dare al movimento comunista confini precisi, omogeneità assoluta, intransigenza tattica contro tutti.

Solo su tale terreno possono poggiarsi osservazioni, come quelle di Serrati, avanzate contro le troppe alleanze, contro gli accordi coi movimenti nazionalisti rivoluzionari, con certi ceti della popolazione agraria, con i sindacalisti e anarchici, con certi elementi di destra del movimento francese, inglese e americano (e chissà perché non tedesco) (54).

Noi saremmo stati lieti di constatare una così completa conversione dottrinale, o, se vogliamo, felice ritorno alla sana intransigenza della sinistra del nostro partito. Ma la tesi della conversione era, disgraziatamente, inconciliabile colle direttive sostenute accanitamente da Serrati per la situazione italiana.

Come spiegare che egli vedesse il fuscello nell'occhio di... Lenin, ma non la trave in quello di Turati o D'Aragona? Serrati assolveva nei destri italiani - elevate all'ennesima potenza - le stesse tendenze alla transigenza delle quali scorgeva così finemente le tracce nelle tesi del congresso. Così per la transigenza verso le ideologie nazionali e irredentiste, verso gli strati piccolo-borghesi vicini al proletariato, per la tendenza alla costituzione a tipo laburista del movimento economico e politico proletario, dai nostri riformisti sempre perseguita ed in parte realizzata nelle fraterne intese tra gruppo parlamentare e Confederazione del lavoro alla barba del massimalismo".

Quanto al coro di vituperi della stampa non solo borghese ma socialista "contro i decreti di Mosca e gli ukase di Lenin", l'articolista scrive:

"Il giudizio dell'Internazionale comunista sulle deficienze del partito italiano non dipende dal capriccio di un dittatore o dalle fobie di un sinedrio, ma è il risultato di anni di polemiche e di dibattiti esaurienti, la sanzione di reiterate richieste di tutta una corrente del movimento italiano, che ha appoggiato le sue critiche con un corredo formidabile di fatti e di argomenti.

Chi si sente, per un malinteso senso sciovinistico, o per una imperdonabile vanità personale, ferito da quel giudizio, pensi che l'intervento dell'Internazionale sarebbe stato superfluo, se, dopo la fine della guerra, il partito italiano avesse saputo proseguire la via che la sua storia, specie degli ultimi anni, gli tracciava eloquentemente, e invece di passare alla retroguardia avesse saputo attingere alla propria esperienza teorica e tattica le direttive di un'ulteriore evoluzione in senso rivoluzionario, selezionandosi e rafforzandosi come già a Reggio Emilia, ad Ancona, all'epoca delle diserzioni interventiste. Solo così il Partito avrebbe conservato nell'Internazionale quel prestigio a cui scioccamente si insinua che sarebbe stata recata offesa dalle decisioni di Mosca. Solo qualora avesse parlato a nome di un tal partito, Serrati avrebbe avuto il diritto di prospettare un metodo comunque diverso da quello dei compagni russi, e forse più materiato di intransigenza rivoluzionaria.

Ma invece egli parlava a nome di un partito che in tutto si è dimostrato inferiore all'aspettazione del proletariato internazionale, pure entusiasta del suo passato. Egli parlava a nome di quella parte del Partito che ancora non vuole convincersi di tutte queste deficienze, che esita a liberarsi degli impedimenti che ne intralciano l'azione.

A giusta ragione, dunque, non dall'arbitrio di pochi, ma dal giudizio unanime dei rappresentanti del movimento comunista internazionale, è venuta la parola di rampogna, sono state indicate e prescritte le norme per porre rimedio a tanti errori. Questo è stato detto da uno e da mille, da italiani e da russi, a Bologna e a Mosca. Questo è sentito da decine di migliaia di compagni, di lavoratori italiani […]

Per conto nostro - poiché secondo Serrati Mosca transige troppo, poiché secondo Alessandri non è dignitoso farsi dettare da Mosca ogni passo - lotteremo per sanzioni più severe ancora di quelle che Mosca richiede. Se Lenin mollasse una preda, ci saremmo noi per agguantar quella e le altre, grosse e piccine, che meglio di lui così lontano sapremo scovare".

Contemporaneamente ha inizio la serie di articoli intesi a smascherare l'opportunismo e la duplicità della direzione della CGL. Questa, pur avendo sottoscritto il documento istitutivo del Consiglio provvisorio internazionale dei Sindacati Rossi a Mosca, continuava a mantenere l'adesione ad Amsterdam grazie anche alla connivenza di Serrati, come se il criterio allora adottato di comune accordo non fosse stato che i "comunisti non devono seguire la tattica di abbandonare le file dei sindacati attuali, anche se di tendenza controrivoluzionaria, ma restarvi per conquistarli; ove però un organismo sindacale nazionale sia nelle mani dei comunisti, esso deve staccarsi dalla Internazionale gialla di Amsterdam per aderire alla Sezione sindacale della III Internazionale" (55).

La polemica all'interno del partito si svolgeva mentre il governo alternava all'offerta del ramoscello d'olivo ai confederali (con cui andava discutendo sulla procedura di attuazione del "controllo sull'industria") ed ai riformisti le operazioni di polizia contro i sovversivi in genere e gli anarchici in specie, e mentre le squadre fasciste davano inizio alle loro "spedizioni punitive". Sul primo punto, l'articolo La politica attuale della borghesia firmato Il Soviet e apparso nel nr. XXVI del 24/X, mostra come si tratti di un'unica politica di controrivoluzione preventiva e come, benché la tendenza attuale sia di giungere ad un esperimento di governo socialdemocratico, nulla escluda che, appunto perché si tratta di una "tendenza" suscettibile d'essere contrastata da fattori antagonistici, la democrazia giolittiana si assuma essa stessa l'incarico di reprimere con la violenza i moti di resistenza operaia:

"Il potere della classe borghese in Italia traballa sulle sue basi. Dinanzi al giganteggiare della crisi nemmeno Giolitti può e sa fare una politica continua. Ieri egli si spingeva alle estreme concessioni verso i nuovi postulati avanzati dal proletariato nell'agitazione metallurgica - oggi sembra voler dare dei saggi della maniera forte, e colpisce con arresti e punizioni il vigoreggiante movimento anarchico. Non ci preme ora indagare quando Giolitti si fermerà e darà un altro colpo di timone alla barcaccia della politica italiana. Probabilmente la rotta procederà a zig-zag, ma non riuscirà per questo ad evitare lo scoglio del fatale naufragio.

Ciò che è bene invece ribadire è che non siamo in presenza di opposti metodi di governo, ma del metodo unico con cui la borghesia gioca l'ultima partita contro la prorompente rivoluzione proletaria [corsivo nostro]. Noi ci avviciniamo alla fase dell'esperimento socialdemocratico, nella quale la borghesia cerca di conciliarsi quanto vi è nel movimento proletario di assimilabile per lei, per trovare le forze necessarie ad una repressione violenta della parte estremista. Giolitti si prefigge forse e si illude di poter rappresentare questa parte senza ricorrere alle ulteriori messe in scena di rivoluzioni a contenuto democratico e repubblicano. D'altra parte si vocifera della cosiddetta congiura Nitti-Modigliani, e degli avvicinamenti di questi alla sinistra del partito popolare. Modigliani a Reggio non solo ha tratteggiato il programma tecnico ed economico del governo socialista, ma ha chiaramente detto che questo governo dovrà governare con energia, e senza scrupoli nell'uso della forza contro gli avversari.

La situazione si delinea dunque chiaramente: il governo 'socialista' col potere raggiunto attraverso la via democratica si distingue dalla dittatura del proletariato in quanto è una dittatura contro il proletariato esercitata per conto della borghesia dagli ultimi delegati di questa: i socialdemocratici.

Il Congresso di Firenze, sebbene troppo tardi, chiarirà questa situazione: da una parte darà alla borghesia gli uomini per un tale governo, dall'altra le mostrerà a quali forze essa deve scatenare addosso l'assalto della reazione. Col colpire fin da ora quasi esclusivamente gli anarchici (56), il governo mostra l'incertezza della sua posizione. Forse esso si illude ancora che l'unitarismo, alimentato dalle accorte insinuazioni dei destri, gli consenta ancora di tenere tutto il proletariato socialista dalla parte del suo gioco, come finora è stato grazie ai provvidi interventi dei leaders sindacali e parlamentari nei momenti critici. Ma tutto ciò è durato troppo; e finirà".

Considerando il secondo lato della questione (per il quale cfr. più particolareggiatamente il capitolo VII), l'articolo Manovre disfattiste del 9/XII denuncia il discorso alla Camera sui fatti di Palazzo d'Accursio in cui Filippo Turati distribuisce fifty-fifty fra camicie nere e "fanatici della bandiera rossa" la responsabilità dell'esplosione di rabbia controrivoluzionaria a Bologna e invoca l'urgente necessità di "disarmare gli spiriti, deporre le armi e pacificare gli animi" dando così via libera - chiara anticipazione di quello che sarà un anno dopo l'atteggiamento socialista di fronte alla marea montante della reazione antiproletaria - a squadracce fasciste armate fino ai denti e sornionamente lasciate fare dal governo (57).

In entrambi i casi, sia il doppio gioco dei governi liberali e democratici e la divisione dei compiti fra squadre legali e illegali di repressione, sia l'atteggiamento pacifista e rinunciatario del PSI, belante sulle libertà violate e invocante la protezione dei pubblici poteri mentre incitava gli operai ad attendere inermi che fosse il nemico ad attaccare per non cader nella "trappola della provocazione", confermavano come la necessità della costituzione del partito fosse dettata non solo da considerazioni di principio, ma da imperiose esigenze pratiche: mai il proletariato si sarebbe potuto difendere - come si ripeterà in tutto il '21 e '22 (cfr. il cap. VII) - finché soggiaceva alla influenza di un partito che tanto più lo chiamava a disarmarsi, quanto più l'avversario affilava le proprie armi e non esitava ad impiegarle. La tesi, scandalosa per gli attuali storici d'ufficio, che la sconfitta del fascismo era inseparabile dalla liquidazione della destra e del centro socialisti era dunque tanto realistica quanto era irrealistica l'opinione inversa: la "vittoria della reazione", che nel 1924 Gramsci farà risalire a Livorno, fu, caso mai, il prodotto del ritardo eccessivo nell'operare la scissione. A sua volta, l'ipotesi già qui adombrata che il PSI, nella sua componente di destra ma con la complicità del centro, completasse la sua opera controrivoluzionaria andando al governo, sola o con altri, per schiacciare il movimento operaio, era così poco campata in aria che non solo aveva trovato attuazione in Ungheria, Germania, Baviera, e soltanto per un soffio non si realizzò in Italia fra il '22 e il '25 (tante saranno allora le offerte in quel senso, e tanta, specie tra i confederali, la voglia di accettarle), ma ha poi celebrato il suo trionfo nel secondo dopoguerra - o con il PCI al posto del PSI di allora, o con il PSI "rinnovato" alle sue calcagna ovvero assunto alla vicepresidenza o addirittura presidenza di governi di coalizione -, senza contare il lascito riformista ai governi di centro-sinistra e simili, in confronto alla cui capacità di sopravvivenza al vertice dello Stato e di apparati repressivi ultra-efficienti i periodi fascista e nazista appaiono come pallidi "interludi", durante i quali per giunta non si disdegnò, in un primo tempo, di ricorrere ai metodi democratico-parlamentari di governo, e in un secondo di far proprio il bagaglio di "riforme sociali" che era stato il vanto della socialdemocrazia, non di rado traducendolo in atto meglio di quanto avessero saputo fare le sue vestali socialiste. è questo il segreto di mezzo secolo di dominazione borghese (d'altronde, lo stesso trionfo del fascismo come partito unico di governo non era già stato una vittoria del riformismo in altra veste?): avevamo o no ragione di denunciarlo fin d'allora come trend storico destinato ad imporsi, prima o poi e non importa ad opera di chi, pur fra mille tentennamenti e oscillazioni?

Ma riprendiamo il filo. In Le tendenze al prossimo congresso (del 24.X) si constata che "l'unità formale ha rafforzato la parte riformista e indebolito la energia rivoluzionaria del partito" nel suo insieme, e, dalla prospettiva che "le tendenze unitarie anche questa volta si uniscano", si deduce che "la frazione comunista dovrà agire con ogni risolutezza e con la più inesorabile intransigenza", mentre un lungo articolo dello stesso numero su Il torto di G.M. Serrati confuta tutti gli argomenti addotti dal massimalismo a favore di una applicazione dei 21 punti tale da renderli inoperanti e quindi da perpetuare un equivoco fatale per le sorti dell'intero movimento proletario. Premesso che non si tratta di infierire sulla persona di Serrati, esso prende in esame alcuni degli argomenti usati da quest'ultimo a sostegno del proprio disaccordo con una parte delle tesi votate, e si sofferma in particolare sulla conclusione del lungo sproloquio. è bene citare integralmente questa parte della risposta [corsivi nostri]:

"Dove Serrati s'impegola fino ai capelli nella contraddizione e nel sofisma è nel ragionamento ch'egli presenta a mo' di conclusione del suo scritto. Noi abbiamo nelle mani, egli dice, migliaia di comuni, di cooperative, di organizzazioni, tanto che scarseggiamo di uomini per coprire tutte le cariche. La III Internazionale contro simili conquiste non lancia scomuniche, anzi le incoraggia, ma intanto pretende che a tutti quei posti si pongano dei comunisti autentici, magari incapaci. Questo vorrebbe dire sfasciare tutte le istituzioni proletarie. La conclusione è che non solo, secondo Serrati, i non-comunisti devono restare nel Partito, ma soprattutto non bisogna disturbarli nel pacifico esercizio delle cariche direttive che occupano.

Il punto di vista da cui parte la III Internazionale nel prescrivere che i partiti comunisti debbano servirsi di tutte quelle forme di azione, è che il lavoro per raggiungere lo scopo principale dei comunisti, cioè l'abbattimento del potere borghese, quando esista il suo strumento storico, ossia il partito politico di classe rispondente a tutti i caratteri e le condizioni contemplati dalle Tesi, questo lavoro rivoluzionario possa utilmente essere svolto in tutte quelle istituzioni. Quelle stesse istituzioni sono terreno favorevole all'opera degli opportunisti, soprattutto in quanto la toro funzione nei quadri della presente società diviene fine a se stessa e finisce col risolversi in un mezzo col quale, in forme molteplici, si dilaziona il precipitare della crisi rivoluzionaria. I comunisti però debbono penetrarvi appunto per combattere gli opportunisti, per denunziare l'incapacità di esse a dare stabili soluzioni dei problemi che interessano il proletariato, per svolgervi la propaganda e l'agitazione, creando così gli effettivi per la guerra di classe diretta dal Partito comunista. Dato che esista questo partito, si è detto a Mosca, purché esso risponda a determinati criteri fra cui importantissimo quello di essere scevro da elementi socialdemocratici ed opportunisti, tale partito può e deve penetrare e lottare nel sindacato, nella cooperativa, nel comune, nel parlamento. Avere i sindacati, le cooperative, i comuni etc., senza che esista quella fondamentale condizione di avere il partito comunista, vuol dire non essere al caso di fare opera rivoluzionaria, anzi correre il pericolo di rendersi complici della conservazione borghese. Serrati vuole, appunto per conservare quelle istituzioni che oggi fanno questo gioco opportunistico, rinunziare alla condizione, alla premessa, della costituzione del Partito. Anche i ciechi vedono che la contraddizione è in lui, non nelle prescrizioni di Mosca.

Si può, dal punto di vista della dialettica marxista, trovare troppo semplice quel criterio che sta alla base di tutte le decisioni tattiche del Congresso di Mosca. Si può, dal punto di vista storico-critico e seguendo le vicende dei contrasti fra le diverse tendenze e i diversi metodi socialisti, con lo stabilire una continuità di sviluppo nei metodi del marxismo rivoluzionario, come sono stati difesi dalla sinistra dell'Internazionale contro riformisti ed anarchici, arrivare a conchiudere che la formazione dei partiti comunisti veramente rivoluzionari e la selezione progressiva dagli elementi piccolo-borghesi di scuole dissenzienti si sono svolte e si svolgono attraverso la esclusione, in dati momenti storici, di dati metodi e forme di azione ormai svuotati di qualunque possibilità di utilizzazione rivoluzionaria. Nessuna obiezione potrebbe farsi al Serrati ove egli, rivendicando di essere un rappresentante della frazione di sinistra del partito socialista italiano, domandasse di svolgere una simile disamina critica. Ma non si può consentirgli che, per giovare alla sua conclusione che occorre conservare l'unità del partito italiano, egli falsifichi il senso del metodo rivoluzionario adottato dall'Internazionale.

Appunto perché questa vuole che tutte le antiche forme di azione siano utilizzate, rinnovandole di un nuovo ed opposto contenuto rivoluzionario, dal movimento comunista, occorre che questo sia veramente epurato da qualunque elemento di eterogeneità, senza di che il bilancio del suo intervento in tutte quelle istituzioni, che fin qui furono il campo delle gesta dei riformisti, sarà disastrosamente negativo. Ad esempio un comune come quello di Milano, un organismo come la Confederazione del Lavoro o la Lega Nazionale delle Cooperative, sono, dal punto di vista del metodo stabilito a Mosca, organismi che i comunisti devono ancora conquistare, poiché in essi si svolge un'opera che è ancora quella tradizionale e perniciosa della II Internazionale, in quanto i Caldara e i D'Aragona, mentre vi risolvono problemi che agevolano la borghesia nella lotta contro le difficoltà che la soffocano, nulla fanno per la propaganda, per l'agitazione e per l'azione rivoluzionaria. Occorre dunque, secondo i criteri di Mosca, che di quei posti prendano possesso buoni comunisti, disciplinati al loro partito, che, se tecnicamente saranno meno abili nel risolvere a tutto pro' della borghesia i problemi contingenti, utilizzeranno però le posizioni conquistate per un'opera fattiva di organizzazione della lotta rivoluzionaria.

Voler risolvere tale problema, posto in modo chiarissimo sulla base della documentazione inoppugnabile dell'opera svolta fino ad oggi nelle istituzioni in parola, volerlo risolvere annunziando che D'Aragona e Caldara hanno la tessera del Partito Socialista Italiano, aderente alla III Internazionale, vuol dire cadere semplicemente nel ridicolo.

L'Internazionale non potrà non rispondere: mandate via dal Partito Caldara e D'Aragona, anche se ciò vi costa la perdita del comune di Milano e della Confederazione. Ciò tanto più in quanto può dimostrarsi che quei campioni del riformismo si sono potuti procacciare i voti degli elettori e la fiducia dei lavoratori organizzati attraverso il prestigio dell'etichetta rivoluzionaria che loro conferiva la tessera del Partito. Ecco dunque pazientemente ma facilmente smontato un altro sofisma di Serrati, ecco ancora una volta dimostrato come egli ascenda una cattedra dell'intransigenza, ma da essa profferisca solo lezioni di opportunismo".

La critica del serratismo sarebbe tuttavia incompleta se non si smantellasse il mito delle passate benemerenze del PSI. A. Bordiga perciò continua (corsivi nostri):

"Ma tutta questa roba Serrati la trae fuori per suffragare la sua tesi favorita, cioè che, pur riconoscendo le 21 condizioni di Mosca, si dia tempo ai partiti aderenti, sotto la loro singola responsabilità, di procedere alla epurazione degli elementi opportunisti. Su queste basi Serrati si prepara a sostenere a Firenze la conservazione della unità del partito, salvo qualche esclusione personale destinata a dar polvere negli occhi. Anziché chiedere ancora tempo a divenire un partito comunista rivoluzionario, io affermo che il Partito Socialista Italiano è già enormemente in ritardo, che la scissione avrebbe dovuto essere compiuta da tempo, e che ogni giorno che passa rende più difficile e intricato il problema.

Tutto ciò si desume dalla storia recente del nostro partito, ed oggi lo accenno rapidamente, salvo a tornarci sopra, in modo più ampio, essendo qui il nodo della questione. Ho d'altronde già scritto che a Mosca - negli unici due minuti nei quali parlai di cose italiane - feci una dichiarazione prendendo atto che tale era il concetto di Lenin e di Zinoviev e di tutti quelli che avevano criticato il partito italiano (58).

Le particolari circostanze in cui il problema della guerra si presentò in Italia permisero a troppi elementi di destra di salvarsi l'anima passando per oppositori della guerra, mentre in nulla differivano dai socialpatrioti esteri del 4 agosto 1914. La presenza di costoro nel partito si rivelò pericolosa soprattutto quando la invasione austriaca rese di attualità il problema della difesa nazionale. Come spesso giustamente ricorda il compagno Gennari - unitario a Bologna nel 1919 - già a Roma, nel 1918, si sarebbe dovuto mandar fuori la destra fautrice della difesa della patria. Ma in quel congresso molti dei migliori compagni della sinistra erano assenti, ed i presenti si fecero puerilmente giocare da alcuni Modigliani. Quando il Partito aderì alla III Internazionale, prima col voto della direzione e poi col Congresso di Bologna, si perse un'altra occasione per selezionarlo dalla destra; e non vogliamo ora ricordare le mille ed una ragioni per cui si doveva farlo. Non facendolo, si è aderito irregolarmente, per non dir peggio, alla III Internazionale […].

Il tempo passato dopo Bologna, e quello che sta passando prima di Firenze, e quello che secondo Serrati e i suoi pii desideri - o empi vaticinii - dovrebbe passare dopo, rappresentano sempre maggiori difficoltà e pericoli non solo per il rinnovamento del partito, ma per lo svolgimento storico della lotta rivoluzionaria del proletariato italiano. La massa del partito è oggi più prigioniera della destra che alla fine della guerra. Quella situazione invocata da Serrati citando i posti direttivi affidati a non comunisti - o meglio a disfattisti della rivoluzione - si è andata e si va aggravando proprio per colpa degli unitari, proprio per responsabilità dei Serrati.

É dopo la guerra che le grandi organizzazioni economiche hanno ricostituito i loro effettivi e i loro quadri, e che i massimalisti hanno lasciato legare il loro entusiasmo per i metodi rivoluzionari affermati in Russia alla praticaccia opportunista delle organizzazioni dirette dal loro stesso partito. Dopo Bologna, il partito, ingolfatosi unitario malgrado tutto nelle elezioni politiche, manda alla Camera un gruppo parlamentare nel quale, ingranditi, si rinnovano i difetti denunziati nel precedente attraverso sei anni di polemiche, e si ripete la prevalenza della minoranza di destra del partito. E si arriva oggi, sorvolando su tutto il resto, alle elezioni amministrative, in cui il massimalismo diviene ancor più prigioniero di mille e mille situazioni locali, il partito si immedesima con le sue rappresentanze ai comuni e alle province, costituite dai suoi elementi opportunisti e piccolo-borghesi peggiori, da tutta la gente che è restata od entrata nelle nostre file tollerando o abbracciando l'estremismo demagogico, dopo essersi bene assicurata che la vecchia pratica della conquista dei mandati elettorali non ha cambiato in nulla il suo carattere - dato che, contro la eresia di chi scrive, sia suscettibile di cambiarlo - e che non si fa sul serio, senza di che questa marmaglia rinculerebbe vergognosamente nei ranghi dei timidi o dei rinnegati (59).

Ho visto ultimamente un diagramma dell'accrescimento del nostro partito. è il diagramma di un'elefantiasi galoppante. Noi siamo ad oltre duecentomila soci: ciò vuoi dire semplicemente che il nostro effettivo in rapporto alla popolazione supera quello del partito comunista russo, colla semplice differenza che qui la borghesia ci sculaccia quando vuole, e là nessun cane di controrivoluzionario osa più, nonché di abbaiare, di fiatare.

Ed il male è che tutto questo avviene mentre - perché negarlo? - molti dei migliori elementi proletari disposti alla lotta generosa e non all'arrampicamento imbelle e idiota a posti di comodo, vanno con gli anarchici, il cui movimento - da cui non devo ripetere il mio radicale dissenso - cresce di numero e di energia combattiva. Se si lasciasse fare a Serrati e agli unitari il Partito seguiterebbe non ad evolvere com'essi pretendono verso il comunismo, ma a ricadere fatalmente nella peggiore funzione socialdemocratica di servo sciocco della borghesia e nel dispregio delle masse lavoratrici. Ci vuole una bella dose di coraggio, a proporre: aspettiamo ancora! Il fatto è però che, aspetti chi vuole, noi non aspetteremo più. L 'unità del partito sarà a Firenze inonoratamente sepolta.

Peggio per quelli, pochi o molti, che ostinandosi nell'errore, vorranno restare attorno al cadavere ed avvelenarsi nelle sue esalazioni".

Uno dei bersagli del Soviet è la visione tecnicistica e costruttivistica del ruolo del partito di classe, propria del massimalismo ma anche, a ben guardare, dell'ordinovismo. Nell'articolo Il dovere dell'ora presente, apparso nell'Avanti! del 24 ottobre, Serrati aveva scritto che il compito del PS, nella sua opera di "rincalzo" alla rivoluzione, non era "tanto quello di condurre le folle in piazza - come pensano i romantici delle barricate -, quanto quello di apprestare tutte le forze dell'assestamento socialista, indispensabili per consolidare il nuovo regime e renderne possibile il definitivo trionfo". In Una consultazione sfortunata (nr. XXVII, 31/X/1920, de Il Soviet) A. Bordiga commenta (corsivi nostri):

"Se la contrapposizione fosse quella che, contro una concezione romantica e volontarista dell'atto insurrezionale, sviluppa tutto il valore della funzione del Partito come organo della consapevolezza e della forza proletaria organizzata per la lotta contro il potere della classe borghese, nulla vi sarebbe da obiettare. Il processo rivoluzionario non può ridursi ad un drammatico combattimento sulla barricata. La inevitabile guerra civile tra il proletariato e il potere statale del capitalismo, per sboccare nella definitiva vittoria rivoluzionaria, esige che il Partito comunista abbia preparato le masse a comprendere la necessità di organizzare e disciplinare la loro lotta, per organizzare e disciplinare poi, dopo la prima sconfitta dell'avversario, l'esercizio del potere rivoluzionario nelle sue istituzioni; il che si raggiunge diffondendo la coscienza della necessità storica della dittatura proletaria e del regime soviettista. Ma il concetto del direttore dell'Avanti! è ben altro. Egli non dice che il Partito deve avere fin da ora in vista tutto il processo che lega l'abbattimento del potere borghese all'organizzazione delle nuove istituzioni del regime proletario. Secondo lui, il compito attuale del Partito non consiste nella lotta insurrezionale, non consiste nel preparare l'esercizio del potere rivoluzionario, ma soprattutto nella preparazione degli elementi che svilupperanno le nuove forme economiche socialiste, la cui realizzazione si dovrebbe tecnicamente allestire fin da ora. Egli salta dunque a pié pari i periodi più critici per il lavoro del Partito. Supponendo di avere di fronte come contraddittori solo coloro che affermano doversi riunire nel Partito tutti quelli che sono disposti ad impugnare il fucile, qualunque sia il loro concetto del processo rivoluzionario posteriore - ed in tal caso non saremmo noi i suoi contraddittori -, il direttore dell'Avanti! afferma che il partito deve invece comprendere nelle sue file tutti coloro che nel periodo di assestamento del nuovo regime potranno e sapranno dare opera alle attività di organizzazione del nuovo assetto comunista e che sarebbero tutti dirigenti di leghe, comuni ed altre istituzioni ad etichetta socialista.

Non ricordiamo tutti gli argomenti da noi ripetutamente svolti contro il famoso inganno del massimalismo realizzatore, concretizzatore, preparatore di tecnici del comunismo. Notiamo che nelle tesi del Congresso internazionale sul compito del partito comunista nella rivoluzione […] nulla può trovarsi che lontanamente dia appiglio a questi criteri di un riformismo mal mascherato. Al contrario, le tesi pongono in rilievo, si può dire in ogni loro linea, il carattere specificamente politico della funzione del Partito prima e durante e dopo la conquista del potere. Se dunque è vero in un certo senso che il Partito non ha la missione di una vera mobilitazione militare del proletariato per dirigerlo in una campagna bellica e dargli il segnale nel momento prestabilito dell'inizio delle ostilità o della battaglia campale, è per altro innegabile che, affermando che l'urto violento, determinato da cause superiori ad ogni umana volontà, è inevitabile, il Partito deve preparare ad esso il proletariato, e non può comprendere nel suo seno coloro che a tale inevitabilità non credono, e che, sconsigliando il proletariato dalla preparazione ad una tale situazione, riescono solo ad aumentare le probabilità di vittoria dei suoi avversari - tanto più che luminose esperienze mostrano che costoro, quando l'inevitabile avviene, non vogliono riconoscere il fallimento delle loro previsioni e del loro metodo, ma se ne vendicano passando al campo nemico. Il Partito non può né deve comprendere neanche quegli altri, che, pur essendo fautori della formazione delle nuove strutture socialiste, sostengono che queste possono nascere e svilupparsi senza che il meccanismo politico della democrazia borghese sia stato spezzato e sostituito dagli istituti della dittatura proletaria.

I compiti che il direttore dell'Avanti! attribuisce al Partito allo scopo di poter concludere che occorre conservare l'attuale equivoca unità prescindono dai più importanti criteri su cui si fondano il programma e l'azione comunista. La rivoluzione, prima di essere messa in pericolo dal fallimento delle sue imprese di rinnovamento della struttura economico-sociale (pericolo inventato più che altro dai diffamatori borghesi dell'attuale fase della Rivoluzione Russa), attraversa, come dicevamo, ben altri periodi critici. Vi è il pericolo che, scoppiata l'insurrezione anche indipendentemente dal volere del Partito, questa sia schiacciata dalla potenza dello stato borghese. Questo pericolo è aumentato dalla funzione dei socialdemocratici che, essendo per principio contro la insurrezione, incitano il proletariato a desisterne e si schierano anche nel campo avverso. Se poi elementi di questo genere si troveranno nelle file del Partito Comunista, allora il proletariato nel momento decisivo sarà senza l'organismo che solo può dirigerne e disciplinarne lo sforzo. Ma il direttore dell'Avanti! sembra credere che l'"atto risolutivo" non solo si inizi da sé ma si compia da sé senza nessun disturbo per il Partito, e per i suoi membri […].

Il secondo pericolo è che, abbattuta magari la forza della borghesia da un'insurrezione altrettanto spontanea e fortunata come quella che immagina lo scrittore in parola, manchi alle masse la possibilità di organizzare la loro forza armata per la difesa dagli immancabili assalti della controrivoluzione. Questo avverrà di certo se mancherà un Partito il quale sostenga la necessità di privare la classe borghese di ogni diritto politico, di ogni libertà di agitazione, di organizzazione e di stampa. Il direttore dell'Avanti! deve essere estraneo a questo fondamentale concetto rivoluzionario e comunista, se pensa che il Partito possa comprendere elementi che sono contrari a questo metodo, che, cioè, non intendono le necessità ferree dell'esercizio della dittatura proletaria.

Egli vuole conservata l'unità del Partito con la esclusione dei soli fautori della collaborazione di classe, ossia di coloro che sarebbero disposti ad accedere, attraverso una combinazione parlamentare, ad un potere ministeriale condiviso da elementi borghesi. Ma costoro sono o dovrebbero essere fuori del Partito fin dal Congresso di Reggio Emilia del 1912. Tutta la storia della guerra europea e della Rivoluzione Russa e d'altri paesi non ha insegnato all'autore della lettera in parola come, in relazione appunto ad una illuminata visione del difficile processo rivoluzionario in corso, occorra eliminare dalle nostre file anche coloro che non ritengono inevitabile l'urto violento tra le classi avverse, anche coloro che non ritengono indispensabile che la gestione del potere da parte del proletariato superi i limiti e spezzi le forme della democrazia liberale - perché, come abbiamo mostrato, nei momenti più difficili sono proprio costoro i complici prima incoscienti e poi volontari della controrivoluzione. Di fronte a queste centrali necessità, sono zero le preoccupazioni di ricostruzione tecnica e concreta. Chi le affaccia come argomento per conservare nel Partito gli avversari dei metodi di azione politica comunista parte in realtà da altre considerazioni più o meno inconfessate, dalla convinzione o dalla illusione che il processo rivoluzionario può passare per altri sviluppi, può fare a meno della guerra di classe e della dittatura di classe. Costui non deve fare un passo innanzi - o indietro - per unirsi al coro dei controrivoluzionari i quali dicono che quel metodo di implacabile e guerriera intransigenza che ha permesso al bolscevismo russo di essere ancora in piedi contro un mondo nemico, è la causale della incompleta realizzazione di una struttura sociale comunista nella Russia odierna.

Dopo ciò, facciamo grazia ai lettori di una critica agli ultimi postulati del direttore dell'Avanti! secondo cui si deve chiedere nel Partito maggiore accentramento e disciplina, e nell'Internazionale tutto l'opposto, ossia una maggiore autonomia di movimento! Contraddizione? Certo. La cui chiave è sempre la stessa. Disciplina nel Partito per poter giustificare in certo qual modo agli occhi delle masse italiane, attraverso nuove dichiarazioni rivoluzionarie nella maggioranza, la permanenza in esso dei parlamentari alla Modigliani e degli organizzatori alla D'Aragona - autonomia nell'Internazionale per esimersi dall'applicare le tassative sanzioni del congresso di Mosca nei riguardi di quei signori".

Più volte, nel II volume, abbiamo illustrato il forte contributo degli astensionisti all'orientamento in senso rivoluzionario della Federazione giovanile socialista. Il nr. 27 del 31/X de Il Soviet reca a questo proposito una mozione del Comitato provvisorio della Frazione giovanile comunista astensionista, in cui si prende atto con soddisfazione "dell'atteggiamento da qualche tempo assunto dal CC a proposito della crisi del Partito, atteggiamento che coincide in linea di massima con quello costantemente tenuto dalla nostra Frazione", e, auspicando un'accentuazione ed un rafforzamento della lotta "contro i socialdemocratici e gli ex-massimalisti ancora riverniciati di rivoluzionarismo opportunista e parolaio", si chiede una pronta convocazione del Congresso nazionale in modo da dare ai giovani socialisti la possibilità di svolgere "una più organica azione preparatoria [...] e l'agio di prepararsi in maniera che, quali che siano per essere le soluzioni del Congresso stesso, la gioventù possa immediatamente porre tutte le sue energie e tutte le sue risorse a disposizione del nuovo Partito".

La polemica antiunitaria e antiriformista prosegue successivamente in parallelo alla vigorosa attività di propaganda, agitazione e proselitismo della Frazione comunista di Imola, all'obiettivo del cui rafforzamento gli "astensionisti" subordinano ogni loro iniziativa, pur conservando intatta la propria organizzazione quale testimonianza e garanzia della continuità di orientamento dei diversi gruppi confluiti in un unico organismo (60). Due temi di primaria importanza sono affrontati sui nr. XXVII, del 31/X, e XXVIII dell'11/XI. Il primo è La disciplina nell'Internazionale. Ricordando come la frazione astensionista abbia "stabilito" di eseguire senza riserve i deliberati dell'Internazionale, ragione per cui i suoi aderenti, "a partito comunista realmente costituito, parteciperanno alle elezioni così come gli altri comunisti", l'articolista - L. Tarsia - ribadisce:

"L'Internazionale è un organo di azione, è il centro dirigente della colossale guerra mondiale contro la borghesia, guerra che non può essere combattuta senza l'unità di comando alla quale si è stati condotti dalle stesse esigenze dell'azione […] Le deliberazioni della III Internazionale sono quindi ordini di battaglia, i quali debbono essere senz'altro eseguiti. Sarebbe assurdo accettare che in un esercito in guerra gli ordini del comando supremo fossero eseguiti dai singoli reparti o individui soltanto per quella parte che ognuno di essi approva per proprio conto: sarebbe il caos e la sconfitta sicura. Se anche negli ordini del comando supremo si ravvisassero errori fondamentali e gravi, i danni derivanti all'azione da una esecuzione libertaria e indisciplinata sarebbero più gravi di quelli derivanti da una perfetta esecuzione di essi".

Ciò non significa né che i dati risultanti dallo svolgimento di questa o quella azione tattica non debbano, in generale, essere criticamente vagliati, né che, in particolare, le deliberazioni della III Internazionale siano "in ogni campo l'ultima parola": sono però "la prima parola positiva", e la vittoria finale nella guerra in vista della quale esse sono emanate dipende in gran parte dalla "vittoria che ogni singolo combattente conseguirà su se stesso, educandosi a sentirsi parte integrante di un grande esercito in lotta" e a subordinare la propria individualità (come non fanno, per primi, i dirigenti del partito socialista) alle esigenze generali di quest'ultima.

La fine dell'occupazione delle fabbriche e l'apertura delle trattative col governo per il "controllo sulla produzione" non cessavano a loro volta di riflettersi nelle polemiche all'interno del PSI, e i riformisti, forti delle posizioni... conquistate a tavolino nella schermaglia con Giolitti e con gli industriali, non esitavano - per bocca, ad esempio, di Gino Baldesi nell'articolo Sindacato e Partito socialista pubblicato il 5/XI nell'Avanti! - ad appellarsi alle "Tesi sul movimento sindacale, i Consigli di fabbrica e la Terza Internazionale" approvate al congresso di Mosca (61) a convalida della propria rivendicazione che il controllo fosse affidato ai Sindacati d'industria anziché ad organi locali come i Consigli di azienda, pretendendo di trarne una riprova della propria "fedeltà" alla lettera e allo spirito dell'insieme dei deliberati di quell'assise.

Solo che - piccola differenza! - il problema posto da Radek della conquista del potere politico come obiettivo della lotta per il controllo era posto, ovviamente, nei termini del tutto riformistici ben illustrati dalla frase dello stesso Baldesi: "Può darsi che la borghesia sia costretta a cedere se il proletariato sappia intendere l'importanza della lotta, ed allora, a controllo instaurato, comincerà davvero l'epoca nuova, durante la quale c'é, in pratica e non solo in teoria, una autorità che va scomparendo e un'altra che si installa al posto di quella tramontata: il nuovo tipo di produzione scalza il vecchio". Ne Il Soviet dell'11/XI, nr. 28, Bordiga ribatte quindi con energia in Il controllo sindacale:

"Non occorre dilungarsi per dimostrare che è la vecchia concezione riformista che impasticcia la trasformazione economica della produzione con un passaggio graduale dell'autorità, a pezzettini, dalla borghesia al proletariato, la solita falsificazione piccolo-borghese del marxismo che scorda la premessa rivoluzionaria della conquista 'tutta in una volta' di 'tutto' il potere politico quale base allo sviluppo economico del comunismo. Ciò fa a calci con la precisa affermazione delle Tesi: La lotta per il controllo operaio sulla produzione porta alla lotta per la conquista del potere da parte della classe operaia.

Il controllo operaio in sé non è incompatibile col potere politico borghese. Esso non è una conquista rivoluzionaria. è la lotta per arrivarvi che - diretta dal Partito comunista - ha un valore rivoluzionario, in quanto non si arresti - ad opera dei connubi tra i Giolitti e i... Baldesi - prima della conquista del potere. Non resta, di comune tra il punto di vista confederale e quello delle tesi, che il criterio formale che il consiglio d'azienda non esclude il sindacato e si integra in esso, e che il controllo prima e poi la gestione della produzione (sempre però dopo la conquista del potere politico) vertono non su un ingranaggio dei consigli di aziende, ma sui grandi sindacati d'industria, divenuti veri e propri organi statali del proletariato liberato. Questo è il meccanismo russo, che non ha a che fare cogli aborti preparati in Italia dalle commissioni figliate dall'astuzia borghese e dalla complicità dei socialdemocratici sindacali e parlamentari.

Noi diremo altra volta che forse ci scostiamo da Radek [in effetti, Radek, nelle suddette Tesi sindacali, presenta un po' meccanicamente il problema del significato e degli sviluppi della lotta per il controllo scrivendo: "Poiché al tentativo degli operai di controllare l'approvvigionamento delle fabbriche in materie prime, le operazioni finanziarie degli imprenditori ecc., la borghesia e i governi capitalistici rispondono con le più energiche misure contro la classe lavoratrice, la lotta per il controllo operaio sulla produzione conduce necessariamente alla lotta per la presa del potere da parte della classe operaia"] nel pensare - proprio come Baldesi, ma per trarne opposte conclusioni - che la borghesia potrà concedere qualche cosa di simile al controllo sindacale riformisticamente inteso. Appunto perché questo - che pei controrivoluzionari della Confederazione è un augurio, per noi un pericolo - potrebbe realizzarsi, facendo mirabilmente gli interessi della conservazione borghese, noi siamo meno caldi entusiasti della lotta per il controllo di alcuni nostri amici comunisti e ci preoccupiamo che questa si svolga prendendo la mano alla ferma direttiva dell'azione politica da parte del partito comunista e preparando una intera fase di collaborazione di classe. Ma tutto ciò lo esporremo chiaramente altra volta. Ci basti per ora aver chiarito che corre un abisso tra le concezioni dell'Internazionale Comunista e quelle della Confederazione del Lavoro italiana, che anzi esse stanno fra loro come la rivoluzione e la controrivoluzione".

Sia il tema della nuova veste assunta dai riformisti, i quali, sentendosi in declino, si affannano a "recitare la parte del docile agnello", pronti perfino a sottoscrivere la tesi della necessità della dittatura proletaria e pieni di zelo solo per l'unità del partito, sia il tema, caro soprattutto a Modigliani, di una rapida andata al potere per via parlamentare, ma... non d'accordo con la borghesia, allo scopo di "salvare il paese dalla catastrofe economica", sia infine la dimostrazione che con ciò, se anche fosse possibile, si fornirebbe alla borghesia un'estrema ancora di salvezza, vengono ripresi in due articoli dei numeri del 18 e del 25/XI. In quest'ultimo, Rita Majerotti parla - benché in toni meno drastici di quelli usati generalmente dal Soviet - della "necessità della separazione", e, nel numero del 9/XII commentando L'adunata unitaria di Firenze, L. Tarsia scrive che "se la forma della mozione fiorentina" (cioè quella unitaria, da noi già parzialmente riprodotta) "non subirà le modificazioni dei lavori di corridoio e le combinazioni chimiche della pastetta dell'ultima ora, si può fin d'ora giurare che i destri la voteranno per acclamazione", come infatti avverrà a Livorno. Va infine ricordato il largo spazio dedicato da Il Soviet al tormentato processo di formazione del partito comunista in Germania e in Francia (vedi il I capitolo del presente volume) e agli echi del Congresso di Mosca e dei suoi deliberati (vedi il II volume, pp. 650-651 e 676-685).

A questo punto, la Frazione comunista astensionista e il suo organo centrale cessano praticamente di assolvere compiti distinti da quelli della Frazione di Imola. Avvenuto il 28-29/XI il convegno (62) di quest'ultima, il Soviet pubblica il seguente comunicato:

"Il CC, riaffermando che con la costituzione in Italia del Partito Comunista aderente alla III Internazionale sarà esaurito il compito principale che la Frazione si era proposta di raggiungere nella sua Conferenza, tenuta a Firenze nel maggio del 1920; riaffermando inoltre essere inconciliabile nel seno del Partito Comunista la permanenza di una Frazione autonoma astensionista, invita i gruppi aderenti a voler prendere in merito a queste questioni le loro deliberazioni. Queste saranno comunicate nella apposita riunione di delegati della Frazione che questo Comitato Centrale intende tenere in occasione e durante il periodo del Congresso Nazionale del Partito socialista".

Come vedremo, puntualmente il 21 gennaio 1921 a Livorno, i delegati di cui si parla deliberarono lo scioglimento della Frazione. Comunque, ogni dubbio in merito era già stato fugato dalla pubblicazione, nel Soviet dell'8/1/1921, di una nota di risposta ad una nuova manifestazione di intemperanza dei compagni torinesi. In seguito alla pubblicazione della succitata Mozione, questi avevano scritto al CC manifestando il proprio disaccordo e sottolineando la necessità di mantenersi raggruppati - sia pure non come "partito" ma come semplice "avanguardia" - anche dopo il congresso; e ciò al fine di "svolgere" un'opera "di controllo e di spinta" e "vagliare gli uomini dai quali dobbiamo ottenere maggiore affidamento, dovendo ad essi affidare le più delicate mansioni". Aggiungevano, per dare maggior forza alla loro tesi: "Ciò non sarebbe necessario quando fossimo certi della correttezza e sincerità di tutti gli aderenti al Partito comunista; ma siccome (fino a prova contraria) noi troppo temiamo della invadenza di molti elementi opportunisti, crediamo giustificata la nostra preoccupazione al fine di evitare l'equivoco anche per l'avvenire".

La risposta del CC era stata, ancora una volta, immediata e tagliente:

"Il punto di vista dei compagni torinesi non può essere accolto. La ulteriore permanenza nel seno del partito comunista della frazione astensionista verrebbe precisamente a costituire quello che essi giustamente dicono di non volere, ossia un partito nel partito.

Colla costituzione del partito sulla base del programma comunista, che è stato sempre il programma della nostra frazione ed è il programma della III Internazionale, la nostra frazione si troverebbe in esso differenziata per la sola questione dell'astensionismo, su cui l'Internazionale ha già preso la sua decisione.

Assumendo questa posizione noi ci troveremmo nella condizione di coloro che accettano con riserva il programma di Mosca, il che è contro le nostre direttive da una parte e dall'altra renderebbe impossibile quella funzione di vigilanza disciplinare che può essere assunta soltanto da coloro che non hanno alcuna pregiudiziale sia pure minima in rapporto al programma.

I compagni torinesi, colle loro parole 'all'infuori della pregiudiziale astensionista', sembra evidentemente vogliano abbandonare questa pregiudiziale, e allora a maggior ragione non vi è motivo per l'ulteriore permanenza in vita della frazione, che darebbe invece buon gioco per apprezzamenti di poca sincerità nella nostra azione, diminuendone il valore e l'efficacia.

I nostri compagni, edotti della triste esperienza del passato che è il presente, si preoccupano di possibili infiltrazioni opportuniste, e vogliono costituire gruppi che abbiano la precisa mansione di combattere queste perniciose deviazioni. Ma ciò deve essere compito del partito tutto, e dei suoi organi dirigenti in specie, regolato e disciplinato mediante opportune disposizioni statutarie. Quando dovessimo giungere alla necessità di organizzare questi speciali gruppi, già il male dell'opportunismo avrebbe dovuto essere tanto avanzato da divenire pressoché incurabile senza ricorrere a rimedi estremi, ossia a novelle scissioni. Non è possibile che siamo ora a questo punto.

Nel partito comunista, che nella sua unità unifica la classe del proletariato rivoluzionario, non possono, non debbono esistere né frazioni né tendenze, il che non esclude che in esso vi saranno individui i quali spingeranno più a sinistra in contrasto con altri che tenderanno a destra, e che si stabiliscano in rapporto a questo stato d'animo vario delle più strette affinità, che si rivelino soprattutto nelle azioni.

Noi siamo sicuri che quei compagni, che hanno costituito la frazione astensionista, continueranno anche quando questa sarà finita ad essere alla sinistra, all'avanguardia del movimento e, diffondendo in tutta la tessitura del partito comunista il loro spirito di sacrifizio e di devozione alla causa rivoluzionaria, eserciteranno in tal modo la loro utilissima funzione".

 

5. - Verso Livorno!

Qui giunti, e prima di affrontare l'esame di ciò che fu la "Frazione di Imola", non potremmo chiudere meglio il paragrafo che riproducendo integralmente l'articolo di Amadeo Bordiga Verso il Partito comunista, apparso come contributo alla discussione precongressuale sull'Avanti! del 23/XI/1920 (ma uscito già prima nel numero VII, 19/XII de Il Comunista), per mostrare con quale spirito i compagni della nostra corrente intesero che si andasse al Congresso di Livorno, che cosa si proponevano di sostenervi e coerentemente vi sostennero, per quale soluzione erano decisi a battersi e infatti si batterono, fermi nel non cedere terreno su nessun particolare delle Tesi e Condizioni dell'IC, neppure se tale cedimento fosse valso ad assicurare al Partito un numero assai più elevato di aderenti (corsivi nostri):

Verso il Partito Comunista

"Il Convegno di Imola credete opportuno non pronunciarsi sull'atteggiamento che la nostra frazione dovrà tenere nel caso che il voto del Congresso nazionale ci ponga in minoranza, e non volle farlo più che altro per non contraddire al suo carattere di Convegno radunato per un lavoro di frazione, per organizzare la conquista della maggioranza del Partito e del Congresso.

D'altra parte, come Gramsci osserva, il Convegno aveva la sensazione di preparare con la sua opera, più che una vittoria di congresso, la costituzione di un nuovo Partito. E il vero obiettivo di tutto il nostro lavoro è proprio questo. Occorre, dunque, tener presente che una questione così importante come il costituirsi in Italia del Partito Comunista non sarà giudicata in ultima istanza dalla maggioranza del congresso nazionale; è anzi dopo il voto di questo che se ne potrà direttamente affrontare la soluzione. Gli elementi di essa sono in tutta la esperienza e la preparazione politica della Sinistra del partito attuale, del Partito di sinistra, anzi, tra i due che finora insieme convivono, e più ancora nel contenuto di programma d'azione dell'Internazionale Comunista.

Antidemocratici anche in questo, non possiamo accettare come 'ultima ratio' la espressione aritmetica della consultazione di un partito che non è un partito. Il riconoscimento della giustezza della opinione espressa dalla maggioranza comincia là dove comincia la omogeneità di programma e di finalità; non lo accettiamo nella società divisa in classi; non nel seno del proletariato dominato necessariamente dalle suggestioni borghesi; non nel seno di un partito che comprenda troppi elementi piccolo borghesi ed oscilli storicamente tra la vecchia e la nuova Internazionale, e non sia quindi nella sua coscienza e nella sua pratica il partito di classe di Marx.

Ed allora dobbiamo prospettarci fin da ora tutte le eventuali situazioni all'indomani di un voto, che non dovrà e non potrà interrompere lo sviluppo continuo della nostra azione verso quel fondamentale obiettivo. Premettiamo una considerazione, nella quale è appunto il risultato importantissimo del convegno di Imola. I Comunisti voteranno la loro mozione nel testo già deliberato dal Convegno, senza accettare di introdurvi modifiche ed attenuazioni sia pur minime. Se vi saranno elementi oscillanti fra noi e gli unitari, noi non faremo alcuna concessione per accaparrarci i loro voti. Non resta, dunque, che esaminare le due ipotesi che sulla nostra mozione si raccolga la maggioranza oppure la minoranza dei voti.

Sia nell'uno che nell'altro caso, noi dobbiamo farci guidare dalle medesime direttive. Il bivio al quale si trova il movimento proletario italiano non è fra la politica di Reggio Emilia e la politica del Comunismo: il bivio si presenta fra il nostro programma di azione e quello degli unitari socialcomunisti. Benché questi ripetano di divergere da noi solo per secondarie valutazioni, ma di essere sullo stesso tronco programmatico, la verità è che la destra fa la sua politica con le loro mani: un riformismo puro se si delineasse sarebbe tosto livragato, mentre lo sforzo dei riformisti sì esercita secondo le leggi della minima resistenza, cioè mirando alla permeazione del loro metodo nel grosso del nostro pletorico partito sotto l'etichetta di tendenze intermedie.

Non esiste tra unitari e riformisti un taglio netto. Tutta la loro argomentazione in questo vivacissimo fervore di dibattiti è quasi comune. Gli unitari difendono ovunque tutta la politica della frazione di destra e soprattutto quella della Confederazione Generale del Lavoro. Essi sottolineano che la loro epurazione del partito da qualche destrissimo è sullo stesso piano della epurazione dai sinistrissimi.

Un'altra prova: un argomento favorito degli unitari è quello di battere contro l'opera ed il contegno da Bologna ad oggi dell'attuale direzione del Partito, per imputare ad essa gli insuccessi rivoluzionari dell'azione del proletariato italiano, scagionandone i riformisti, quasi che politicamente, storicamente - a parte la posizione presa oggi personalmente dai vari membri di essa - la Direzione attuale non fosse la esecutrice della maggioranza massimalista e unitaria di Bologna capitanata da Serrati. Gli unitari non vedono che la direzione non ha potuto fare una politica schiettamente massimalista appunto perché non si poteva farla sulla equivoca base unitaria. Essi non si accorgono di recare cosi argomenti contro le loro tesi e contro il loro passato politico, e non se ne accorgono perché, in realtà, vanno facendo proprie tutte le posizioni polemiche del riformismo contro il massimalismo in genere, come è anche provato dal fatto che tutto il problema delle condizioni e possibilità rivoluzionarie essi lo pongono cosi come i destri. Una parte della maggioranza massimalista va dunque oltre Bologna, e l'abisso si apre tra loro.

Tra unitari e comunisti il taglio è netto, aspro, la discussione talvolta violenta oltre misura. Questo preciso distacco non è per nulla attenuato da quelle sfumature diverse che possono esservi tra gli estremisti e che vanno utilmente integrandosi nell'elaborazione di una migliore coscienza in tutti del metodo da seguire uniti e compatti. Le discussioni locali mostrano, dunque, schierati in due campi opposti i comunisti e gli unitari, dietro i quali, mal differenziati, manovrano i destri. Non è strano che sia così. Come la borghesia delega la sua difesa, nei momenti critici, al riformismo, così il riformismo, quando perde terreno tra le masse, si sforza di delegare la sua funzione controrivoluzionaria a quel centrismo etichettato da comunismo di destra che vediamo all'opera in tutti i paesi. La sensazione che si ha oggi assistendo alle assemblee od ai congressi di partito è che sono proprio i comunisti e gli unitari quelli che si separeranno per sempre, quelli la cui convivenza è diventata impossibile.

La conclusione è questa: noi dobbiamo tendere a formare un Partito Comunista non influenzato da quella politica che oggi si afferma sulla tesi dell'unità del partito, non diretto in collaborazione con gli esponenti dei comunisti unitari di oggi. Lenin ci dice questo molto bene nel suo articolo e questo deve essere il nostro aperto obiettivo.

Io non auguro che tutti i comunisti unitari si stacchino da noi per fare con i riformisti il Partito socialdemocratico o indipendente. Penso che la nostra situazione è almeno tanto matura quanto quella tedesca. I comunisti unitari, gli indipendenti nostrani, devono nella loro massa essere sbloccati, mettendo a riposo i loro leaders.

Perciò, se noi saremo maggioranza, con la sicura applicazione della nostra mozione di Imola li sbloccheremo dando l'ostracismo ai destri e ai destreggianti, e assicurando tutti gli organi direttivi del Partito esclusivamente alla tendenza comunista estremista.

Ma se saremo minoranza? Noi non potremo subire né la situazione di un partito diretto da unitari, né quella di una direzione in comune tra noi ed essi. Il nostro compito di frazione è finito. Con l'attuale concentrazione dei gruppi estremisti del Partito sulla base delle delibere di Mosca, del nostro programma, della nostra mozione e con quest'ultima lotta interna nel partito col riformismo e con le sue indirette manifestazioni, si apre il compito nostro come Partito. Noi non resteremo, per riprendere il duro lavoro di persuasione, ad immobilizzare noi e il proletariato fino ad un altro Congresso. E nemmeno faremo il delittuoso sproposito di affidare il movimento del proletariato italiano alla direttiva mista ed imprecisa tra il comunismo ed il centrismo: questo sarebbe il trionfo della tesi unitaria, già condannata in Italia e nella Internazionale Comunista.

Ed allora balza evidente la soluzione logica, coraggiosa e tatticamente squisita della immediata uscita dal Partito e dal Congresso appena il voto ci avrà posto in minoranza. Ne seguirà sotto norme da noi segnate lo sbloccamento del centro: anzi io penso che questo nostro importante obiettivo potrà, in questo caso, essere meglio raggiunto.

Prepariamoci, dunque, a questa soluzione: oltre a tutto essa è l'unica che possa corrispondere alle direttive della Internazionale Comunista: ed è quindi fuori luogo supporre che questa non ci approverebbe, e rinviare per questo un atto che, ritardato, perderebbe tutti i suoi effetti benefici e positivi.

lo penso che i gruppi della frazione dovrebbero affrontare questo problema e dire qualche cosa in proposito ai loro delegati al Congresso. Su questa base, però, la nostra frazione che è il nocciolo di un partito vero e vitale non potrà e non dovrà in alcun caso dividersi, e si muoverà, a ragion veduta, tutta in un blocco, come un uomo solo. Sono sicuro che in questa attitudine ci troveremo concordi alla quasi unanimità.

Guardiamo dunque bene in faccia la situazione e sappiamo assumere tutte le responsabilità. Quella che conduciamo è una battaglia senza quartiere contro tutte le esitazioni e tutti gli equivoci".

Chi, all'infuori dei compagni della nostra Frazione, poteva allora formulare in modo cosi netto - tanto più netto, quanto più alieno da pregiudizi democratici - i problemi inerenti alla formazione del partito di classe, non soltanto in Italia? E come potremmo oggi esprimere meglio, con parole nostre, il contrasto di fondo e di metodo rispetto a Halle e a Tours?

 

NOTE

(1) Ci sarà anzi facile dimostrare che nell'intero biennio l'équipe dell'ex Ordine Nuovo - a parte A. Tasca - non solo si batté senza riserve per il programma della Sinistra, ma eccedette addirittura in intransigenza, tanto da giustificare, entro un certo limite, l'accusa moscovita di infantilismo.

(2) Si veda in R. Martinelli, Il Partito comunista d'Italia, 1921-1926. Politica e organizzazione, Editori Riuniti, 1977, pp. 35-47, uno specchietto delle "forze" della nostra Frazione, da cui si deduce che, lungi dall'essere localizzate prevalentemente nel Sud, esse erano distribuite un po' dovunque sul territorio nazionale, specialmente però nel Centro-nord, e più nell'Italia settentrionale che in quella centrale. Ciò, da un lato, smentisce le frottole sull'astensionismo come fenomeno "tipicamente meridionale" (e si vuol dire: da zona capitalisticamente arretrata!) quasi che proprio a Napoli, dal congresso di Ancona in poi, la battaglia della nostra corrente non fosse stata impostata in totale controsenso alla "situazione specifica" e, in particolare, allo specifico costume - interclassista, bloccardo, "pastettaro" - del Mezzogiorno, dall'altro si spiega col fatto (esattamente inverso a tali frottole, e invece conforme al senso del nostro astensionismo, non anarchico ma rigorosamente marxista) che le nostre tesi rappresentavano - nel loro insieme - il punto più alto al quale, sulla scia del bolscevismo, si era spinto il movimento operaio occidentale, ragione per cui trovavano il loro naturale terreno di acclimatazione nelle aree di massima concentrazione proletaria.

Quanto alla centralizzazione, essa non significava assenza di sfumature e perfino di dissensi su punti particolari della tattica; significava fermezza e rigore nel precisare e difendere le posizioni programmatiche comuni, nell'imporre una loro disciplinata osservanza e, in casi flagranti di indisciplina, nel non arretrare di fronte a provvedimenti "chirurgici". In realtà, il tratto distintivo della Frazione, di cui la centralizzazione è solo l'altra faccia, va cercato nel suo essere una milizia, di pensiero e di azione, comunista, non un semplice luogo di incontro e dibattito e un veicolo di idee genericamente rivoluzionarie, come era il gruppo dell'Ordine nuovo, composto da una rete elastica di "lettori", quindi priva di strutture organizzative e anche numericamente indefinita: nemmeno "scuola", ma tutt'al più "palestra", di pensiero.

(3) Si vedano i cap. VII e IX del II volume della Storia della Sinistra comunista con relative appendici.

(4) "La massa del partito, - nota il Soviet del 24 ottobre - è oggi molto più prigioniera della destra che alla fine della guerra". Lo sarà ancor più dopo il congresso di Livorno.

(5) Vedi a questo proposito, la nota 19.

(6) Treves, A Reggio Emilia! in Critica Sociale, nr. XIX, 1-15/X/1920.

(7) Come notava L. Tarsia nell'articolo I destri e l'unità del partito apparso ne Il Soviet del 18/XI, - e l'esperienza dell'occupazione delle fabbriche lo confermava - "il patto di alleanza obbliga più il partito che la confederazione, perché, in un conflitto fra i due, hanno più potere gli elementi direttivi della confederazione in rapporto diretto con le masse, che il partito che deve agire su di esse per il loro tramite e con il loro beneplacito, malgrado che i dirigenti confederali, in quanto iscritti al partito, dovrebbero sottostare ai voleri di esso e quindi dei suoi organi direttivi".

(8) Il convegno di Reggio Emilia, ne Il Soviet del 17/X/1920.

(9) Tale è il grado di questa identificazione, che in quanto segue possiamo risparmiarci di citare esponenti di primo piano del massimalismo, come Cesare Alessandri o Adelchi Baratono.

(10) Cfr. il volume II della Storia, pp. 656-657.

(11) G. M. Serrati, Il secondo Congresso della Terza Internazionale. Alcune osservazioni preliminari, in Comunismo, 15-30 settembre 1920. I corsivi sono nostri.

(12) Ivi, prima parte dell'articolo.

(13) G.M. Serrati, La mia risposta al compagno Bellone, in Comunismo, 1-15 gennaio 1921.

(14) Il secondo Congresso etc., art. cit.

(15) Cfr., sempre di Serrati, Di alcune nostre ragioni, in Comunismo, 15-31 dicembre. Ma, per avere un'idea del livore con cui un "comunista occidentale" poteva guardare ai compagni del retrogrado Oriente, si veda anche la Lettera aperta al comp. Levi di oltre un anno dopo (Comunismo, 1-15 genn. 1922).

(16) A. Bordiga, Da Mosca a Firenze, ne Il Soviet del 17/X/1920. Per le obiezioni di Serrati in sede di II° Congresso, si veda il vol. II della Storia della Sinistra Comunista, pp. 637-40 e 644-46.

(17) Cfr. anche per questo punto il vol. II, pp. 608-614, e il cap. I del presente volume, parte I.

(18) Polemichette, in Avanti! del 21/IX/1920.

(19) I rapporti, d'altronde labili e presto bruscamente interrotti, fra Mosca ed Enver Pascià, uno dei superstiti della rivoluzione dei "Giovani Turchi" del 1908, appartengono al novero delle iniziative fin troppo spregiudicate, e senza dubbio discutibili, della diplomazia russa, quando le tensioni con la Gran Bretagna ai confini meridionali della Repubblica erano più aspre. Parlare tuttavia di "alleanza" con lui, come facevano con disinvoltura i Serrati di mezza Europa, significava alterare scientemente la realtà. Anche la sua "presenza" al I congresso dei Popoli d'Oriente (Bakù, 1-8 sett.) era un falso, il tutto essendosi ridotto alla lettura da parte di altri di una sua dichiarazione di rammarico per "essere stato costretto a combattere a fianco dell'imperialismo tedesco". D'altronde, a Bakù, le tesi sulla questione nazionale e coloniale approvate al II congresso (cfr. il nostro II volume) erano state ancor più rafforzate nel senso del legame fra rivendicazioni nazionali e soluzioni rivoluzionarie proletarie, e l'opposizione ad esse da parte centrista aveva ancor meno fondamento, non parliamo poi delle speculazioni ordite sulla loro base. Si vedano le tesi sul Potere dei Soviet in Oriente e sulla Questione agraria in Le premier Congrés des Peuples de l'Orient, Bakou 1920, Pietrogrado 1921, pp. 176-197.

(20) Cosi Serrati: Di alcune nostre ragioni, in Comunismo, 15-31 dic. '20.

(21) Preparando il Congresso, ibid., 15-30/XI/1920. La sublime dialettica serratiana riesce a conciliare "la rivendicazione" di "una tattica intransigente rigidissima, accentratrice, nella terza Internazionale", come dire fuori casa, e la sua applicazione con "quella opportuna elasticità che dia ai socialisti italiani la possibilità di lottare in un paese come il nostro e ai Coreani o agli Svedesi nel loro"!

(22) Nel già citato Il II Congresso, etc.

(23) La necessità della rivoluzione, in Avanti!, 26/IX/1920. Un capitolo a parte meriterebbero i pochi accenni di Serrati appena tornato da Mosca e all'occupazione delle fabbriche e al "controllo sindacale". La prima è disinvoltamente liquidata come "una specie di sindacalismo", già dimostratosi rovinoso "nei primi mesi successivi della rivoluzione di ottobre" per il clima di "separatismo professionale" da esso creato nelle fabbriche (cfr. Questa specie di sindacalismo, in Avanti!, ed. romana, 20-X-1920); del secondo, egli si limita a dire, in sede di direzione del PSI (cfr. Avanti! del 9-XI), che i comunisti devono appoggiarlo "solo se può mutarsi in arma di sovvertimento", non - bella scoperta! - se diviene "strumento di collaborazione colla classe borghese". Tanto basta perché gli inarrivabili Lepre-Levrero (cit., p. 293) si sentano in diritto e dovere di scrivere che Serrati "sul piano politico ora converge in pieno con Bordiga"!

(24) Il dovere dell'ora presente, in Comunismo, 1-15 ott. 1920. In La portata del dissenso (Avanti!, 3 ott.), Serrati aveva già scritto che il disaccordo con Mosca verteva "soprattutto sulla ricerca del modo per cui l'opera di epurazione più giovi a noi e meno al nemico, non ci allontani dalla massa, la quale è per sua natura eclettica e obbedisce, sebbene inconsciamente, alla legge del massimo risultato col minimo sforzo". L'accollare "alla massa" il proprio eclettismo o la propria ignavia è tipico dell'opportunismo. è cosi che si temperano "le rigidezze della logica pura con le ferree leggi della politica", e... si affossa la rivoluzione!

(25) Una sintesi in 9 punti del metodo serratiano di un colpo al cerchio riformista ed uno alla botte "rivoluzionaria" si può leggere nel già cit. La necessità dalla rivoluzione: in sostanza, teniamoci i riformisti e facciamo noi stessi del riformismo, ma per il bene di una rivoluzione che comunque avverrà!

(26) Se ne veda il resoconto della seduta nell'Avanti! del 30 sett. e 1-2 ott. 1920. Può essere interessante ricordare la formula unitaria di Serrati nella sua forma più emblematica: "Si tratta soltanto di liberare il Partito con un'opera di energica epurazione di quegli elementi che, durante la guerra o dopo, hanno portato continuamente armi ai nostri nemici […] L'unità del nostro Partito - con tutti gli organismi ricostruttivi che è riuscito a creare per la rivoluzione di classe - deve restare, contro tutti gli attacchi di destra e di sinistra. Tutti coloro che possono essere con noi, a destra e a sinistra, dobbiamo tenerli, tanto più che gli avvenimenti, più forti degli uomini, conducono inevitabilmente tutti a sinistra verso l'azione rivoluzionaria".

(27) Si noti come anche qui tutto sia visto in funzione della contingenza invece di essere collegato a considerazioni di principio.

(28) La lettera della direzione apparve in Comunismo, 15 ott.-15 nov., insieme al testo del documento del CE dell'IC infine pubblicato in mancanza di ogni risposta da Mosca.

(29) In tutto questo periodo, l'Avanti!, con in testa il suo direttore, ha particolarmente cura di difendere l'operato dei dirigenti confederali durante e dopo il II Congresso, provocando una serie di rimesse a punto di Amadeo Bordiga ne Il Soviet (17/X/1920, La CGL e l'Internazionale sindacale; 24/X, Come i riformisti sindacali tengono il piede in due staffe; 25/XI, La situazione sindacale italiana e internazionale).

(30) I due scritti si leggono in Lettere e polemiche tra l'IC, il Partito Socialista, la Confederazione Generale del Lavoro, Milano, 1921, pp. 18-27.

(31) Riprodotta in D. Kunina, Lenin e il neocentrismo del PSI, in Critica Marxista, nov.-dic. 1970, p. 142.

(32) La lettera è riprodotta nell'organo della Frazione, Il Comunista, nr. 2 del 21/XI/1920, lo stesso numero che annunzia la convocazione del Convegno nazionale della Frazione comunista per il 28-29/XI ad Imola.

(33) I due testi si trovano nel volume XXXI delle Opere complete, pp. 359-375.

(34) In sede di Convegno, Baratono proclama: "In Italia il PSI non è quello che era il Partito socialista in Russia, senza conquiste. E anche lo stato borghese italiano non è lo stato borghese russo. Noi siamo già una potenza", e lo dice a proposito degli "strumenti che già abbiamo" e ai quali i comunisti vorrebbero che rinunciassimo: ora noi unitari, a parte quanto detto sopra, "non siamo come loro. Noi non abbiamo come essi [i russi] il culto della disciplina".

(35) Riprodotta nell'Avanti! del l0/X/1920.

(36) Risposta di un comunista unitario al compagno Lenin, in Avanti! del 16 dicembre.

(37) è caratteristico che, intervenendo in novembre nel dibattito in seno alla locale sezione del PSI, Togliatti rivendichi come contributo "torinese" alla discussione e ai deliberati del II Congresso non le tesi dell'Ordine Nuovo ma la relazione Per un rinnovamento del Partito socialista fatta pervenire a Mosca in aprile, che, come abbiamo dimostrato nel II volume della Storia della Sinistra Comunista (pp. 324 sgg.), non rifletteva nessuna delle posizioni tipiche dell'ordinovismo. Se quindi egli afferma che da allora "la sezione non si è mai staccata dalla linea di pensiero e di azione in essa tracciata", ci vuole tutta la disinvoltura dei Lepre-Levrero (La formazione del PCd'I., Editori Riuniti, 1970, p. 332) per concluderne: "Togliatti riafferma dunque la validità dell'intera pratica ordinovista", mentre in dicembre porrà sempre più il problema di "quadri di combattimento e di azione" come prima condizione soggettiva dello sviluppo rivoluzionario: insomma - bordighianamente - il problema del partito.

(38) Capacità politica, in Avanti!, ediz. piemontese, del 24/IX/1920.

(39) Se sono tipici di Serrati gli "scampoli" di una polemica a sfondo in gran parte personale, Gramsci non gli é, proprio nei suoi confronti, da meno: si vedano per esempio A proposito di Pulcinella e Il fenomeno Serrati nell'Avanti! piemontese del 30/X e del 15/XII/1920.

(40) Nel loro zelo ordinovista, i Lepre-Levrero si affannano a mettere in risalto come qui, a Gramsci, la rivoluzione appaia "sempre più un processo mondiale". Ma il fatto è che alla base di questa visione internazionale stanno premesse e motivazioni del tutto... nazionali e mercantili: "L'Italia è povera 'nazionalmente'; l'operaio italiano può salvarsi, il popolo italiano può salvarsi solo in quanto si realizzi l'Internazionale Comunista, cioè in quanto [...] sia attuata una organizzazione internazionale delle economie nazionali che ponga il produttore italiano su un piede di eguaglianza col produttore inglese, americano, russo, indiano, ecc.".

(41) Articoli apparsi nell'interludio fra la nascita dell'Ordine Nuovo come "quotidiano comunista" l'1/1/1921 dopo la soppressione dell'Avanti! ediz. piemontese, e la sua rinascita come "quotidiano del Partito comunista" il 22/I, subito dopo la scissione. Da allora, filosofemi del genere non appaiono più nel giornale pur diretto da Gramsci: non c'é più posto per elucubrazioni personali, per giunta divaganti dal marxismo, nel nuovo partito!

(42) Non a torto, i Lepre-Levrero esultano: "Gramsci, già in questo articolo, pone il problema dei compiti nazionali del proletariato italiano" (ma, per i precedenti di una tale posizione, cfr. il II volume di questa Storia, pp. 264-268).

(43) Umberto Terracini scriverà in Intervista sul comunismo difficile, Bari, 1978, p. 37: "Quando la storia d'un tratto presentò ai lavoratori il grande traguardo della conquista del potere, i dirigenti del partito [socialista] si ritrovarono concordi nel non avere strategie da proporre. Fu dinanzi a questo squallore ideologico e operativo che noi dell'Ordine Nuovo concludemmo che la classe lavoratrice italiana mancava di un partito adeguato ai tempi e ai compiti nuovi, e ritenemmo che per la sua costruzione bisognasse partire da una base operaia, alleandoci con la federazione giovanile e la frazione bordighiana. Su tutto si stendeva la grande suggestione dell'Ottobre. è in questo scenario grandioso che nasce il PCd'I.".

(44) L'ultimo articolo sul tema dell'astensionismo apparso nel 1920 si legge nel numero del 22/VIII: reca il titolo La III Internazionale e il parlamentarismo ed è firmato L. Tarsia. Per nulla stupito che al II Congresso le tesi della Frazione abbiano raccolto un numero così esiguo di voti, l'A. si sofferma su un problema rimasto fin allora in ombra: la tattica astensionista mira forse soltanto a "liberare" le grandi masse dall'impegno assorbente delle campagne elettorali per orientarle verso lo sbocco rivoluzionario? E, se così é, "a quale altra arma dovrà dar di piglio l'energia così rimasta momentaneamente libera - come formulava la questione Béla Kun - affinché le forze disponibili non si disperdano inutilmente?" La risposta è duplice: 1) gli astensionisti non contano "affatto su questa grande forza resa disponibile", perché sono "convinti che la grande massa non potrà essere distratta dalla funzione elettorale prima che si determini l'urto rivoluzionario", altrimenti non parlerebbero neppure della "necessità di un violento abbattimento degli organi dello Stato borghese, concetto che implica il riconoscimento di uno stato di vitalità materiale e morale degli organi da abbattere"; 2) l'astensionismo mira a diffondere il più largamente possibile la convinzione di questa necessità nell'atto di battersi per "costituire nel seno della massa lavoratrice un'avanguardia attiva e combattiva, che agisca sotto l'impulso e la direzione della massima forza motrice rivoluzionaria, costituita dal Partito comunista [...]. La forza nuova, sviluppata dal Partito comunista e da questa avanguardia proletaria, non sarà un prodotto della reazione nelle masse dell'astensionismo, che libera le energie che ora si impiegano nella lotta elettorale, ma si va formando ed enucleando nel seno della grande massa lavoratrice in virtù dei conflitti sociali, e l'astensionismo serve solo a non esaurirla in funzioni non sue". All'astensionismo in quanto tale non si attribuiscono dunque virtù miracolistiche; è uno strumento di supporto alla ben più decisiva opera della preparazione di "un'avanguardia attiva e combattiva" ai compiti politici della rivoluzione e della dittatura proletarie.

(45) A. Bordiga, Chiudendo la "questione italiana", in Rassegna comunista anno I, n. 15, del 15/XI/1921, pp. 606-607.

(46) Scindiamo qui, per comodità di esposizione, l'analisi dell'apporto della Frazione comunista astensionista alla preparazione di Livorno da quella della "Frazione di Imola" benché, come vedremo nel capitolo successivo, lo sviluppo di quest'ultima sia inseparabile dal contributo non solo teorico di Amadeo Bordiga.

(47) Una prevalenza che la sinistra non rivendicò mai e che, in seguito, (vedi, per esempio, ne Lo Stato Operaio del 26/VI/1924 l'articolo Contro le critiche al vecchio CE del PCd'I.) ebbe tutte le ragioni di negare di aver mai ricercato e posseduto. Ciò non toglie che sia stata essa a dare al PCd'I., nei suoi due primi anni di vita, una fisionomia inconfondibile, e vi sia riuscita senza contrasti. Quanto ai rapporti di consistenza numerica fra i diversi gruppi, alla vigilia di Livorno gli "effettivi" della Frazione astensionista non superavano probabilmente i 4-5 mila, cifra che, in termini puramente aritmetici, avrebbe condannato la Frazione ad essere sommersa non diciamo dall'etereo gruppo dell'Ordine nuovo, i cui militanti non riuscirono mai nemmeno a contarsi, ma dagli oltre 40.000 massimalisti di estrema sinistra confluiti nel nuovo Partito a Livorno, mentre quel che avvenne fu l'esatto opposto - la valanga si lasciò disciplinare, inquadrare, dirigere dall'esile ruscelletto astensionista, a conferma ulteriore del ruolo trainante delle minoranze rivoluzionarie negli svolti decisivi della storia.

(48) L'articolo poi non apparve.

(49) Che occorresse costituire subito "un Partito comunista astensionista" per rompere definitivamente con una tradizione incancrenita di compromessi e pastette di puro stampo elettorale, era stato proclamato in una riunione del gruppo, aderente alla Frazione, di Arezzo di cui informa lo stesso numero de Il Soviet.

(50) In altri termini, gli astensionisti torinesi avevano fatto proprie alcune posizioni a sfondo "consiglista" diffuse nell'ambiente torinese, e in base ad esse, almeno in parte, avevano operato in aprile e settembre.

(51) Al duplice, energico richiamo all'ordine fa pendant lo scioglimento della sezione astensionista milanese (e la sua ricostituzione su altre basi) per aver partecipato direttamente alla campagna elettorale locale del PSI. Per lo stesso motivo la sezione napoletana radiò Antonio Cecchi, non l'ultimo venuto nelle sue file.

(52) In Prendere la fabbrica o prendere il potere?, articolo già citato nel paragr. 2 del capitolo precedente.

(53) Formato, come vedremo, da Bombacci, Bordiga e Fortichiari, e poco dopo trasferito da Bologna ad Imola.

(54) Entro limiti ben precisi, è dunque possibile che formalmente la nostra critica del riformismo coincida con quella svolta dai massimalisti: che senso avrebbe infatti il centrismo, se non assumesse pose di intransigenza dottrinale? L'articolo è da noi dedicato a quegli "storici" che, dall'affinità di alcune argomentazioni di Serrati con le nostre, deducono gongolando che, tutto sommato, noi eravamo soltanto un po' più a sinistra dei nostri... gemelli (e perché non fanno altrettanto con Lenin a proposito di Serrati o di... Kautsky?). Bisogna aggiungere che, oltre all'organica incapacità di usare correttamente gli utensili della dottrina marxista, nelle riserve di Serrati sulle tesi nazionali e coloniali e su quelle agrarie affiorano, sebbene in minor grado che negli omologhi dissidenti del VKPD, sia l'arroganza eurocentrica di tanti socialisti tipo II Internazionale verso le grandi masse dei paesi arretrati, sia la sufficienza di certa aristocrazia operaia dell'industria nei confronti del semiproletariato agricolo, non diciamo poi il piccolo contadiname.

(55) La Confederazione del Lavoro italiana e l'Internazionale sindacale, ne Il Soviet del 17/X/1920.

(56) Il 18/X, con il pretesto di gravi incidenti verificatisi a Bologna, si era cominciato ad inscenare un "complotto anarchico" arrestando Errico Malatesta e, via via, un gran numero dei suoi compagni in tutta Italia.

(57) Si suoi dire che Il Soviet 1920 non parla dei "fatti del giorno" se non per trarne argomenti a favore della polemica antiriformista. Benché esagerata, l'osservazione contiene una punta di verità: la questione del partito dominava tutta la scena; ogni episodio della vita e della lotta di classe richiamava l'urgenza della sua soluzione. Il resto - disgraziatamente - era solo polvere.

(58) Si legga la Dichiarazione nel volume precedente di questa Storia, pp. 727-728.

(59) Come qui anticipato, la questione della parabola del PSI dall'ante al dopoguerra venne poi ampiamente riesaminata nei due articoli su Mosca e la questione italiana, apparsi nella Rassegna comunista, anno I (1921), nr. V del 30/VI e nr. XIII del l5/XI, largamente citati nel capitolo VI del presente volume.

(60) L'attività svolta dagli astensionisti su tutto il territorio nazionale in preparazione del congresso e della scissione è documentata nell'apposita rubrica ricorrente in tutti i numeri de Il Soviet.

(61) Riprodotte nel II volume di questa Storia, pp. 708-713. Come queste Tesi fossero mal digerite non solo dai massimalisti, ma anche da molti fra coloro che, da punti di partenza diversi, si andavano orientando verso la concezione comunista del ruolo del partito e, rispettivamente, degli organismi immediati nella rivoluzione proletaria, si vede dalla discussione avvenuta alla fine di ottobre in sede di direzione del PSI (cfr. Avanti! del 6 nov.) sul "problema del controllo". Non stupisce qui che Serrati si trinceri dietro considerazioni teoricamente giuste per concludere che "la Direzione deve interessarsi del controllo non in sé, ma solo se può mutarsi in arma di sommovimento", come se appunto agli organi dirigenti di un partito che si vuole rivoluzionario non spettasse di battersi contro la prima eventualità e adoperarsi per la seconda (altro che "interessarsi" o meno del fenomeno!). Stupisce che Terracini, autore della mozione infine approvata (anche dai riformisti, evidentemente), indichi il valore rivoluzionario del controllo nel fatto ch'esso "provoca la creazione di comitati di fabbrica e di industria attraverso i quali gli operai si abilitano alla direzione della produzione, e che dovranno essere gli organismi iniziali della economia dello Stato comunista". E dire che storici alla Lepre-Levrero non esitano a presentare questa miscela di riformismo e ordinovismo come la corretta traduzione in italiano delle Tesi del II Congresso e, viceversa, a identificare la posizione di Serrati con quella di Bordiga! Sul problema del controllo, cfr. anche l'articolo Riformismo sindacale, riprodotto in appendice al cap. VII.

(62) Le considerazioni de Il Soviet sul Convegno di Imola sono illustrate nel capitolo successivo.

 

 

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