DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(«Avanti!» del 17-9-1915)

 

Questo articolo per una parte ha valore descrittivo e mostra come nella prima guerra mondiale, dopo un anno, la situazione militare si fosse inver­tito: i franco-inglesi con l'appoggio dei nuovi alleati italiani minacciavano la Germania e l’Austria; queste invadevano la Russia. La vittoria che nel 1914 sembrava marciare verso Occidente, sembrava nel 1915 volgere le ali ad Oriente.

I socialisti non ne traevano le conseguenze che ne trarrebbero i «tifosi» dell’uno e dell’altro gruppo di eserciti, perché non consideravano il futuro dell’umanità condizionato dalla vittoria dell’uno e dell’altro.

Ma l’articolo trae occasione dalla rovesciata realtà per riconfermare le valutazioni teoriche e critiche della Sinistra rivoluzionaria sugli abusati pro­blemi di democrazia e militarismo, di offensiva e difensiva, di concordia nazionale e difesa nazionale, e si avvale di ammissioni dell’avversario per ribadire che capitalismo, militarismo e democrazia sono mali sociali che crescono di pari passo.

 

 

 

La situazione militare si presenta oggi quasi perfettamente rovesciata rispetto a quella di un anno fa. Allora gli eserciti germanici, attraversato come una valanga il Belgio ed invasa la Francia, minacciavano da presso Parigi, mentre le speranze degli alleati erano rivolte più che ad un succes­se sul fronte occidentale, al diversivo della pressione russa, che sembrava attraverso la Prussia orientale tendere al cuore della Germania. Oggi la marcia tedesca verso occidente é stata definitivamente fermata dagli eserciti alleati, mentre, tra le stupore universale, le truppe russe vittoriosamente incalzate dagli austro-tedeschi si ritirano verso oriente. Un anno fa la repubblica francese trasportava la capitale a Bordeaux, oggi non é improba­bile che il governo dello zar si veda costretto a prendere un'analoga mi­sura. Le ali della vittoria hanno invertito il senso del loro volo.

Richiamiamo questi fatti notissimi, non certo per addentrarci in disser­tazioni di indole strategica, ma per annotare, seppur ci sarà dato, qualche importante elemento della questione intorno a cui é sempre aperto il di­battito, nonostante che ci si sia ormai imposta la sordina.

È un anno fa, sotto la suggestione della minaccia teutonica contro Pa­rigi, che si iniziò dappertutto e specie nell’Italia allora neutrale, la propa­ganda di quello speciale modo di considerare e di interpretare il conflitto europeo che riunì tante simpatie intorno alla causa degli alleati.

I nuovi dati di fatto ai quali abbiamo accennato ci consentono di scri­vere un'altra pagina polemica in difesa della tesi opposta, se anche ciò possa spiacere ai farisei che sostengono non essere questo tempo di discussione, invocando il sacrificio del quale non sono partecipi.

Si dipingevano allora le nazioni più democratiche e pacifiche come ag­gredite all’insaputa dalla Germania autocratica e militaristica, da lunga mano preparata alla guerra, racchiudendo così il vasto scenario della im­mane tragedia entro il quadro ristretto di una banale antitesi tra demo­crazia e militarismo.

Si dichiarava superata la tesi classica del socialismo internazionale, secondo cui il militarismo era un male comune a tutti gli Stati borghesi, per­ché conseguenza del regime capitalistico e della sfrenata concorrenza indu­striale e commerciale.

Vennero fuori i pretesi revisionisti nazionali del socialismo (ricordere­mo per tutti il Labriola ed il Barboni) a sostenere che le cause del mili­tarismo non sono economiche, cioè comuni a tutte le borghesie in genere, ma politiche, ossia limitate ad alcuni Stati nei quali sopravvivano forme sociali preborghesi, come l'influenza delle dinastie, delle caste feudali e militari, ecc.

Non é certo cosa breve né facile discutere sulle cause generiche di un fenomeno cosi vasto e complesso come il militarismo moderno, ma si può essere insieme più modesti e più esatti, portando l'indagine su quelle che ne sono invece le condizioni, per poi assodare al lume dei fatti in quali forme sociali ed in quali gradi di evoluzione storica quelle condizioni possano meglio realizzarsi. Le condizioni del militarismo, quale esso é oggi sotto tutti i suoi aspetti, tecnici, economici, politici e morali, sono in rapida sintesi le seguenti: sviluppo intenso e razionale della grande industria moderna; grande potenzia­lità finanziaria della macchina statale; organizzazione amministrativa che per­metta di sfruttare tutte le risorse della nazione (coscrizione obbligatoria, siste­ma tributario moderno); possibilità di ottenere la concordia ed il consenso della quasi totalità dei cittadini, ciò che presuppone un regime politico li­berale e l’attuazione di riforme sociali.

Ci sembra che tutto ciò sia incontrovertibile, come é anche di limpida evidenza che quello Stato nel quale meglio si riuniscono le condizioni suac­cennate meglio sarà preparato alla guerra e più facilmente potrà divenirne l’iniziatore; ciò almeno fin quando i sostenitori della pretesa morale degli Stati non ci avranno fatto vedere in quale angolo dell’Empireo segga il tri­bunale supremo che dovrà giudicare sulle buone o cattive intenzioni dei governanti.

Ordunque, dato che il militarismo oggi é quello che è, e nulla ha a che fare con sopravvivenze del militarismo barbarico o feudale, risulta che esso alligna più felicemente nei paesi più modernamente industriali, più capita­listicamente ricchi, più politicamente democratici.

Ecco perché riteniamo che la grande preparazione militare della Ger­mania vada messa in relazione a quanto in quel paese vi é di più moderno e di più democratico, e non già ai famosi avanzi del passato che sarebbero costituiti dall’autorità personale del Kaiser, dal feudalesimo agrario, dalla illiberale costituzione prussiana, ecc. Questi aspetti esteriori e non caratteri­stici non valgono a provar nulla; più che non valga invocare, nel campo op­posto, l’esistenza nel Belgio del voto plurimo e di un governo clericale, in Inghilterra di una aristocrazia agraria che ha nelle proprie mani una Camera ereditaria, o della Chiesa di Stato; in Francia magari della pena di morte, facendo, s'intende, grazia della Russia.

Rammenteremo ancora a questo proposito che anziché citare la Russia per distruggere la tesi della... democrazia schierata contro il militarismo tedesco, facemmo più volte notare come il militarismo russo fosse lontano dalla sua piena efficienza appunto per il deficiente sviluppo economico-sociale dell’impero moscovita. La preparazione militare della Russia ebbe bisogno dei miliardi prestati dai democratici banchieri francesi per mettersi in parte al livello dei tempi.

Oggi - e non crediamo che si possa in buona fede disconoscerlo - noi riprendiamo la nostra tesi con un poderoso argomento di più.

La Russia si é rivelata militarmente inadatta ad assolvere il compito che le assegnavano i fautori della «democrazia», che pur barcamenandosi tra i sofismi, si consolavano entro sé pensando che la «barbarie» delle orde teu­toniche sarebbe stata sopraffatta dalla valanga di uomini che da un paese ancora più barbaro provvidamente scendevano alla riscossa. È avvenuto in­vece il contrario, poiché la moderna tecnica militare tedesca ha avuto ragione sulla forza bruta del numero, la strategia scientifica dei marescialli germanici ha paralizzato l’urto travolgente delle cavallerie cosacche; in una parola, il più moderno dei due avversari ha conseguito il successo.

La Russia, non certo schiacciata, cerca ora la sua salvezza in una intensi­ficazione dello sviluppo industriale e in una democratizzazione del suo arre­trato organismo politico, per poter ridiscendere in agone più moderna, più democratica, e più adatta alla guerra.

Tutto ciò potrà sembrare paradossale a coloro che da un anno ripetono con sicumera ineffabile gli stessi seccantissimi ritornelli, e che si indignano quando vedono discutere sulla base dei fatti quei socialisti da loro irrevocabile sentenza già condannati al confino nel limbi della innocua utopia. Ma noi non abbiamo già ceduto le nostre armi per il successo apparente e locale della corrente avversaria, e non rinunziamo al diritto di pensare.

Ritornando al soggetto, citeremo l’opinione d’un avversario: Hervé: «i nostri amici ed alleati pagano in questo momento crudelmente non solo la loro insufficienza di sviluppo economico che paralizza il rifornimento dei loro materiali e dei loro depositi di munizioni, ma pagano anche la mancanza alla testa del loro paese di un controllo parlamentare».

Dunque, anche secondo Gustavo Hervé, per fare bene la guerra occor­rono, oltre a larghe risorse finanziarie, anche istituti generosamente demo­cratici, senza i quali il paese resta moralmente impreparato, la guerra diventa un affare personale dei dirigenti, e i granduchi russi restano liberi di spen­dere con le proprie amanti i miliardi empruntés per altri scopi - pacifici, s’intende - alla Banca di Francia.

Un paese democratico può coordinare meglio la sua attività militare anche perché l'istruzione ed il reclutamento degli uomini gli é reso più facile, non solo dalle maggiori risorse economiche dello Stato, ma da un complesso con­gegno amministrativo che si sviluppa parallelamente all’introduzione delle forme più democratiche di Governo (censimenti, anagrafe, stato civile, egua­glianza dei cittadini dinanzi alla legge).

La storia recentissima ci mostra anche una evidente concomitanza tra l’adozione di riforme democratiche e l’intensificazione dei preparativi mi­litari: basterà citare la legge francese sulla ferma triennale che seguì immediatamente la grande riforma laica, l’organizzazione militare giapponese contemporanea alla concessione di una costituzione di tipo europeo, la guerra coloniale italiana fatta dallo stesso Ministero che allargò il suffragio, ecc.

È dunque sempre più evidente che un regime democratico favorisce la preparazione ed il successo della guerra; e quando si riconosce questo, come fa Hervé, per i propri alleati, perché sostenere poi l’inverso per i paesi nemici?

Tralasciando pure la questione della responsabilità della guerra, che in fondo é una questione di lana caprina, bisogna riconoscere che il successo della Germania é dovuto in massima parte alla perfetta coesione ugualitaria e democratica delle varie classi realizzata prima e durante la guerra, agli stessi fattori, cioè, grazie ai quali le resiste la Francia.

È vero che Hervé intuisce la contraddizione ed aggiunge: «i tedeschi, i quali godono di un Governo personale, sanno dove esso li ha condotti, mal­grado le loro momentanee vittorie». Ma Hervé dovrà riconoscere che dal popolo tedesco non poteva aspettarsi un maggior rendimento militare di quel­lo cui assistiamo, qualunque sia lo scioglimento del conflitto.

Quando noi accomuniamo democrazia e militarismo tedesco non inten­diamo (sarà sempre bene notarlo) di metterlo in qualsiasi modo in una luce migliore, anzi ribadiamo la nostra avversione ad esso come ai suoi consimili che si atteggiano ad esserne tanto diversi.

E nello stesso tempo riconfermiamo in aperto dissidio tra il socialismo bene inteso e gli allettamenti democratici, dissidio troppo dimenticato dai socialisti, in Germania e altrove. I filosofissimi che sorrideranno della nostra insistente argomentazione hanno probabilmente dimenticata la storia, e igno­rano che la coscrizione militare fu introdotta per la prima volta in Francia dalla Convenzione repubblicana. Ad ogni nodo citeremo per essi li parere di un altro nostro avversario: Guglielmo Ferrero («Giornale d'Italia» del 4 corr.).» Oggi, invece, gli Stati avendo applicato integralmente il prin­cipio democratico del servizio obbligatorio ed universale e disponendo di immensi mezzi per l’accresciuta ricchezza, il limite per la resistenza militare coincide con il limite della resistenza morale, finanziaria e fisica di tutta la popolazione».

Le conclusioni, per ragioni facili a comprendere, le lasceremo trarre ad altri.

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