DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Questo articolo torna sul tema dell’artificioso contrapposizione tra la teoria e l’azione, e risponde anche al commento fatto dal giornale all’ar­ticolo del 13-10. Esso è diretto contro il pericolo che si voglie dare al partito una Direzione tratta da tutte le tendenze, e che questa si esaurisca nell’on­deggiare tra decisioni ispirate e indirizzi contrastanti. Questo scritto con­ferma sempre come fosse avvertito dalla Sinistra il contrasto insolubile tra la politica rivoluzionaria e la deteriore prassi riformista.

 

 

 

É veramente strana l’insistenza con la quale da alcune parti si ripete di voler limitare i dibattiti nostri; per la solita preoccupazione dell’unità del partito. Tanto valeva, allora, non discutere affatto. Ma la discussione è inevitabile perché è in tutti la coscienza che c’è nelle file del partito un dissenso pratico riflettente l’azione da svolgersi in un avvenire prossimo, dissenso di cui la soluzione si impone a tutti.

É una illusione il credere che il problema possa essere risolto coi dati contingenti della situazione odierna trovando una via d’uscita compatibile con le circostanze di fatto presenti, senza affrontare la questione generica che conduce all’urto di direttive opposte in una discussione «teorica».

Il metodo che consiste nel prendere le ragioni e gli argomenti della condotta del Partito nella opportunità di una data situazione di cose, anziché nelle finalità e nelle vedute generali del socialismo, è in ultima analisi la essenza del riformismo, e noi la oppugniamo sempre ed ovunque in nome del nostro modo di intendere i rapporti fra i principi e l’azione del socia­lismo, che può bene essere definito «massimalismo» (e la parola, amico Trozzi, non è un neologismo venuto di Russia, ché già dai rivoluzionari se ne fece largo eco nelle polemiche anteriori al congresso di Reggio).

Ma se tale metodo può essere tollerato in una deliberazione transitoria, ad esempio in un voto della Direzione del Partito riflettente un certo mo­mento politico e destinato ad avere un limitato periodo di applicazione, esso è fuori di luogo quando si tratta di un Congresso, che non si può riunire di nuovo dopo quindici giorni o due mesi quando un nuovo «fatto» - oggi imprevedibile - potrà aver mutato le possibilità di azione aprendo nuove vie alle energie del Partito.

Un Congresso deve dare delle direttive di massima, nel senso che esso deve stabilire se il Partito ammette certe forme di azione, o le ripudia, indi­pendentemente dalla loro attuabilità immediata.

Girare la questione dicendo: è inutile discutere se è o meno teorica-mente ammissibile un metodo tattico a cui oggi per ragioni pratiche -ammettiamolo pure in via di ipotesi - non conviene ricorrere; sembra un ragionamento sensato, ma è in realtà un mezzuccio polemico i cui moventi intimi sono poco simpatici. Anzi è proprio qui il nocciolo delle critiche che possono muoversi all’azione degli organi del Partito in tre anni e più di guerra, ed è proprio qui la causa di quella sensazione d’incertezza, dovuta forse più alle cose che agli uomini, che è in tutti noi e che il Congresso deve far cessare.

Nominare una Direzione unitaria perché si regoli secondo le circostanze, ecco una proposta davvero adatta a peggiorare l’andazzo attuale! Si rinun­cerebbe così alla prerogativa di dettare l'indirizzo del partito per il tempo che trascorre, fino all’altro Congresso, senza neanche poter rendersi conto del modo con cui la Direzione si servirà dei suoi illimitati poteri dato l’indefinibile colore che essa assumerebbe. Allora coloro che hanno provocato la discussione potrebbero ben dire si stava meglio quando si stava peggio. La frazione massimalista provvederà ad ogni modo a separare le sue responsabilità affermandosi nettamente sul suo ordine di idee e si vedrà se predomina e meno nel seno del nostro Partito.

Ma anche senza arrivare ad aberrazioni di tale specie, è molto probabile che si proponga di orientare la discussione intorno alla situazione attuale, tirando i cordoni di una pregiudiziale attorno alle questioni di tendenze. «l’Avanti!», nel suo commento all’articolo «Per una discussione esau­riente», conviene nella impossibilità di risolvere per questa via la posizione in cui la Direzione del Partito si trova oggi: noi a dimostrazione della nostra avversione generica a quel modo di intendere e di esplicare la funzione del Partito, vogliamo aggiungere qualche argomento esemplificativo e quindi più efficace.

All’inizio della guerra europea,...

 

[7 righe censurate]

 

Un articolo dell’«Avanti!» - 1° agosto del 1914 - firmato da uno che fu poi un sincero guerrafondaio, spiegava che si doveva essere contro la guerra come socialisti, come democratici, come italiani, ricorrendo alla rivo­luzione per impedirla.

Gli estremisti - ce n'erano anche allora - potevano essere contenti: eppure molte sezioni del partito, molti gruppi giovanili, prospettarono la tesi della opposizione «contro tutte le guerre» sollevando anche la questione della «difesa nazionale». Ometto le citazioni per brevità... e in piccola parte per modestia. I pratici gridarono naturalmente all’utopia, al teorici­smo, alla temeraria escursione «fuori dalla realtà». Ma pochi mesi dopo la situazione si invertì nettamente, gli argomenti pratici e contingenti cui avevamo fatto appello a sussidio del nostro atteggiamento antibellico si rivol­sero contro di noi. Non nego che quegli argomenti fossero i più accessibili ed i più efficaci - per quanto in quel caso ci scombussolarono non poco. Il partito socialista, per aver fatto affidamento su energie che non erano quelle della classe proletaria, accettando implicitamente un’alleanza coi partiti bor­ghesi, quando rimase solo, su un terreno nettamente di classe, fu costretto a rinculare fino all’atteggiamento: «non aderire non sabotare». Questa linea di condotta può anche avere dalla pratica situazione di questi anni trascorsi una sanatoria fino ad oggi. Ma deve essere dichiarato altamente che essa non costituisce una direttiva per l’azione ulteriore.

La questione esce dalle semplici contingenze e noi non ve la lasceremo imbottigliare. I fautori dell’attuale indirizzo devono specificare quali sono le condizioni a cui ne ricollegano l’adozione. Sono queste condizioni conte­nute nel concetto della simultaneità internazionale dell’azione proletaria, o della iniziativa dei socialisti dello stato «aggressore»; o sono esse condizioni universali? Perché allora esse non esistevano nell’agosto del 1914? È tutto il problema della interpretazione socialista della guerra e della tattica inter­nazionale proletaria che si delinea e si impone.

Ai massimalisti toccherà allora prospettare come quelle condizioni limi­tative si riferiscano alla valutazione d'interessi non proletari, a motivazioni analoghe nel fondo a quella della tesi interventista, a sopravvivenze insomma di pregiudizi e di scrupoli borghesi che intralciano l’azione del socialismo, e da cui questo si deve liberare. I fautori del socialismo empirico, gli ido­latri del fatto - questo nuovissimo mito - sono insomma quelli che non sanno vedere al di là di un orizzonte i cui limiti sono troppo angusti per un congresso che dovrà, oltre al resto, parlare al mondo proletario internazionale.

Essi fanno professione di opportunità, di abilita, e per questo errano più spesso degli altri. È che i fatti, in cui per costoro vi é tutta la quintessenza del vero, non coincidono con le notizie che noi ne abbiamo, specie in tempo di guerra, né possono essere intesi senza l’aiuto di un sistema critico non basato esclusivamente sulla realtà, ma su una visione integrale e superiore della realtà che varchi i limiti e sfidi le insidie del canard, del sottovoce e del pettegolezzo, altrimenti ci si espone ad essere sballottati a destra e a sinistra dagli ondeggiamenti tumultuosi dell’oceano della menzogna, anziché tenere la rotta diritta, inflessibile, che, infrangendo l’ira avversa dei marosi, conduce a mete agognate.

La necessità di una più vasta comprensione degli eventi si ricollega dun­que alle esigenze reali dell'azione del P.S.I. intimamente intrecciate colle sue direttive di principio. Non ci muove - come pare a T. Alba - il gusto di porre aprioristicamente sul tappeto questioni astratte o temi arbitrari indi­cendo un bel torneo oratorio sull’argomento patria, come al tempo dei retori ateniesi. Noi pensiamo all’avvenire ed al compito reale del nostro partito; di Kant e di Hegel non sappiamo che farci, ritenendo col nostro Engels che, nel sistema socialista, della filosofia non hanno ragione di sopravvivere che le parti le quali riguardano la struttura dei pensiero, la logica e la dialet­tica - di cui é implicita la nozione e l’esercizio anche agli umili.

Quando T. Alba conclude compiacendosi che la mozione della direzione risolva elegantemente il punto con la critica delle false ideologie patriottiche, io lo vedo ricadere in quel tal metodo insidioso degli apprezzamenti contingenti.

Noi abbiamo bisogno di sapere che farà T. Alba o meglio che farà il partito quando sarà di fronte al vero patriottismo, ciò che oggi non é ma rientra nel campo delle possibilità di domani.

Quel tale articolo del 1° agosto, che invocava contro il nazionalismo patriottardo e tedescofilo i fulmini dell’insurrezione...

 

[Censura].

 

Tutto questo vuol dire perdersi riformisticamente nelle secondarie an­titesi del mondo presente, per aver dimenticata la fondamentale e formi­dabile antitesi fra gli interessi delle classi diseredate ed il dominio de] capitalismo, la grande recondita verità celata sotto il cumulo di mille men­zogne che invano il militarismo avrà sognato di coronare con una pietra sepolcrale.

 

 

 

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