DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Introduzione

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un esplodere di manifestazioni di massa in più parti del mondo. Il lavoro di cui presentiamo qui una prima parte si propone di analizzare le basi materiali dei movimenti di massa degli ultimi anni, la loro composizione di classe, i loro metodi e obiettivi, con lo scopo finale di offrire un quadro complessivo e, da queste esplosioni sociali nel loro particolare, arrivare a mostrarne gli aspetti comuni. Cercheremo, nell’analisi e nelle conclusioni, di rispondere alle seguenti domande: Quali classi sono state messe in movimento negli ultimi anni? Con quali obiettivi? Quali sono le prospettive generali?

Esistono diversi data base di raccolta di episodi violenti, proteste e rivolte nel mondo. Tra questi, l'“Armed Conflict Location & Event Data Project” (ACLED) raccoglie in tempo reale dati su luoghi, date, attori, vittime di tutte le proteste segnalate e relative violenze politiche: ne abbiamo tratto un grafico che copre il periodo dal 2005 al 2020, in cui sull’asse verticale sono riportati il numero di eventi sociali, manifestazioni, scioperi, proteste.

Già a una prima lettura del grafico, è evidente il massimo della tensione nel mondo tra il 2018 e il 2019 e ciò è confermato dal proseguo di questo lavoro in cui analizziamo le esplosioni di tensioni sociali in più nazioni. La stessa crisi economica precedente alla pandemia e collegata alla serie di crisi esplose a partire dal ’75 e più in particolare alla crisi precedente, quella del 2008 (da cui non si è mai usciti), ha accumulato contraddizioni e peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro in tutto il mondo, creando incessanti tensioni sociali.

La crisi sanitaria, con lo stato di emergenza, la paura e il richiamo a un “interesse superiore e vitale”, ha poi funzionato da ammortizzatore sociale e silenziatore delle proteste: come non abbiamo mai cessato di rilevare, in tutto il mondo si ha un'intensificazione delle leggi repressive, con militarizzazione e stato di polizia, fino all’azione squadrista vera e propria contro il proletariato. Così, in seguito al diffondersi della pandemia, le proteste in un primo tempo si sono assopite, silenziate e apparentemente spente. Ma la fiamma che le alimenta non si è mai spenta: anzi, è stata rinvigorita dagli sviluppi recenti. Molti ricorderanno le foto delle migliaia di persone che in India, a inizio marzo 2021, affollavano le stazioni di autobus e treni per poter tornare nei propri paesi di origine; altri saranno stati duramente colpiti dalle foto scattate in Ecuador, dove centinaia di cadaveri, infilati in sacchi della spazzatura, sono stati abbandonati per strada e bruciati. Pensare a misure di contenimento del virus o a forme di distanziamento sociale nella periferia del capitalismo è impossibile sul piano materiale. Per esempio, il 60% dei lavoratori africani è occupato nel cosiddetto settore informale: lavoro nero, senza garanzie, fatto di impieghi a giornata e piccoli commerci. Per tutti loro, il lockdown è l’equivalente di una condanna a morte per povertà. Nel Sud America, in media il lavoro nero occupa tra il 30 e il 50% della forza lavoro, con picchi in paesi come il Perù (tra l’altro, secondo paese nel Sud America per numero di contagi), dove l’80% dei lavoratori è nel settore informale e il 43% non sta percependo alcuna fonte di reddito, o in Messico, dove il 57% dei lavoratori è in questo settore e si prevede che 15 milioni di persone perderanno il proprio salario.

Negli ultimi mesi, abbiamo dunque assistito a risveglio delle piazze: si è tornati in strada, sfidando anche i divieti. Il virus avrà anche influenzato la nostra quotidianità e il modo di manifestare, ma non è riuscito a fermare la protesta. In alcuni casi, i manifestanti hanno indossato mascherine e rispettato il distanziamento sociale; in altri paesi, le tensioni sono talmente esasperate che le proteste ignorano ogni raccomandazione sanitaria. In molti casi, poi, le manifestazioni sono riprese dallo stesso punto in cui si erano interrotte, a dispetto delle norme anti-contagio: questo perché il tracollo economico è più letale della pandemia – lo era già prima e adesso è diventato insostenibile. Anche perché si prospetta una crisi sociale post-pandemia, annunciata già oggi dalla crisi economica e occupazionale: e per molti paesi già in difficoltà sarà un ulteriore fattore di instabilità.

Le contraddizioni emergono non solo nella periferia del capitalismo (ma esiste davvero, ormai, una “periferia” del capitalismo?). Nelle banlieues francesi, gli scontri tra polizia e cittadini sono proseguiti anche durante la pandemia, e così pure negli Stati Uniti, come abbiamo più volte documentato. Non è difficile immaginare che, anche su questo terreno, la guerra fra imperialismi che si è riaffacciata all’Europa in queste ultime settimane avrà le sue acute conseguenze sociali: staremo a vedere.

In questo primo, lungo testo, ci occuperemo dell'America Latina. Seguiranno poi, con il tempo, analoghe analisi relative ad altre aree del mondo.

 

Il continente latinoamericano è una polveriera.

E, nonostante le polveri bagnate dall’interclassismo, mostra la forza potenziale del proletariato

1. Il risveglio delle piazze

Ben prima che la crisi economica già in atto prendesse la forma di crisi sanitaria (e, nella spiegazione data da media ed “esperti” borghesi, solo allora economica e sociale), le masse erano in fermento in tutto il mondo. Ci siamo già occupati su queste pagine delle cosiddette primavere arabe del 2011[1], delle proteste in Francia[2] e USA[3] e delle rivolte più recenti in Tunisia[4] e in Libano[5]. Le rivolte nel mondo hanno avuto un’accelerazione a partire dal 2018, specialmente in Medio Oriente, Asia orientale, Africa e soprattutto America Latina. Nel solo 2019, rivolte di massa prolungate e violente sono esplose in 15 Paesi, sparsi tra vari continenti; le misure di emergenza, giustificate con la pandemia, sono quindi arrivate proprio al momento giusto: hanno avuto un effetto di controllo sociale (vedi il nostro articolo “L’uso sociale dell’epidemia[6]). Ma poi le rivolte sono riprese, seppure in misura minore, già nel 2020, per le stesse cause e con le stesse modalità. Anzi, dialetticamente, la chiusura forzata ha esasperato le condizioni di miseria delle masse di senza riserve, che sono alla base delle proteste, preparando crisi sociali maggiori e più profonde.

E’ nostra intenzione continuare ad analizzare tutti questi movimenti di protesta e seguirne gli sviluppi sulla nostra stampa, e in particolare in questo articolo ci dedicheremo all’America Latina – che ci appare in questo periodo come il “continente dimenticato”, visto che sulla stampa del resto del mondo trapelavano pochissime notizie relative alle piazze in fiamme. La nostra attenzione e interesse verso questi movimenti di massa, invece, è sempre stata e continuerà a essere molto forte. La tattica del partito comunista, orientata verso la conquista del potere politico, passa infatti per le organizzazioni economiche immediate della classe (organizzazioni spontanee per la difesa delle condizioni materiali di vita e di lavoro), che è compito dei comunisti influenzare e arrivare a dirigere. Siamo ben coscienti di essere, oggi, ben lontani dalla realizzazione di questi compiti: non per nostra volontà, ma per la condizione oggettiva di basso livello della tensione sociale e della lotta di classe. Questa constatazione di un dato di fatto materiale non ci pone nella condizione di passivi spettatori, e nonostante le nostre forze esigue, dialetticamente determinate dalla condizione oggettiva stessa, assolviamo il compito di tenere in vita il programma rivoluzionario.

E’ il movimento reale stesso a darci continue conferme della tendenza determinista verso il riaccendersi inevitabile della lotta di classe. Ciò che le proteste esplose in tutto il mondo ci mostrano è una conferma della nostra teoria e del nostro programma di azione. Dalla miseria crescente scaturisce il ritorno delle masse in piazza: questa è una conferma del marxismo rivoluzionario che nessun limite e debolezza attuale del movimento proletario e comunista potrà offuscare. Nostro compito è, nella misura data dalle nostre forze e possibilità, comprendere il movimento storico in cui ci troviamo, analizzare i limiti delle azioni del proletariato e i rapporti di forza tra le classi, come lavoro necessario nella ricerca del contatto con la classe. Dobbiamo sempre essere preparati e pronti a scendere al fianco del proletariato combattivo ogni volta che se ne presentano le possibilità. La vita del partito si integra ovunque e sempre e senza eccezioni in uno sforzo incessante di inserirsi nella vita delle masse – anche nelle sue manifestazioni influenzate da direttive contrastanti con le nostre[7].

In America Latina, manifestazioni di piazza violente si sono avute in particolare negli ultimi anni, con un contagio in tutto il subcontinente che evidenzia elementi comuni della protesta: in Venezuela (30 morti e milioni di rifugiati), situazione che si trascina ormai da anni; in Nicaragua, da aprile 2018 (400 morti); Haiti, da luglio 2018 (37 morti); Cile, da ottobre 2019 (27 morti, più di 3.600 feriti di cui 400 con perdita di un occhio o cecità, più di 22.000 arrestati); Ecuador, da ottobre 2019 (10 morti, 1300 feriti); Bolivia, da ottobre 2019 (27 morti, 550 feriti e decine di arresti); Colombia, da novembre 2019 (centinaia di morti, migliaia di casi di detenzioni arbitrarie, 83 vittime di lesioni agli occhi e/o cecità, 1.468 casi di altra violenza fisica e 28 vittime di violenza sessuale); Costa Rica, da settembre 2020 (centinaia di feriti e arresti); Guatemala, da ottobre 2020 (incendio del Palazzo del Congresso)…

Anche la stampa borghese ha utilizzato titoli importanti nel periodo tra il 2017 e il 2019: “America Latina in fiamme”, “L’autunno caldo dell’America Latina”, “Le piazze sono tornate”, “Perché i popoli del mondo si stanno ribellando”, “Perché l’America latina è una polveriera”, “Bomba sociale”; e poi, dopo la stretta giustificata con la pandemia: “Le rivolte di piazza che covano sotto la pandemia”, “Nel mondo è tornato il tempo delle proteste”, “Il covid riaccende le proteste per fame”, oltre a dossier e libri sull’argomento (ad esempio, “Un continente in rivolta”)[8].

Un prestigioso analista borghese ha notato che si sta avviando un preoccupante (per loro!) processo di polarizzazione sociale, ed in effetti il termine polarizzazione è sempre più diffuso nella stampa e mass media in genere: "Tutti questi Paesi sembrano soffrire di una sorta di ‘malattia politica autoimmune’, dove una parte della società muove guerra contro il resto del corpo sociale. La causa di fondo è la polarizzazione della società e, per estensione, della sua vita politica. È evidente anche che la malattia si sta diffondendo, ed è molto contagiosa. Non significa che prima la polarizzazione non esistesse, ma semplicemente che sta diventando più acuta e potrebbe rivelarsi mortale, come evidenziato da tutti questi esempi estremi di disfunzionalità. [...] L'incremento della disuguaglianza, la crescente incertezza economica e un senso di ingiustizia sociale sono indubbiamente fra le cause della polarizzazione politica. Anche la popolarità dei social network e la crisi del giornalismo e dei media tradizionali contribuiscono a incoraggiarla." [9]

Naturalmente, nonostante i titoli eclatanti (a fatto compiuto!), la borghesia è rimasta colta di sorpresa dalla esasperazione delle masse. L’America Latina in particolare sembrava attraversare un momento felice di crescita economica e industrializzazione. Più in generale, per decenni, la stampa borghese aveva annunciato la fine definitiva delle rivolte di piazza e la scomparsa del proletariato, ritenute tutte categorie e fenomeni del passato, superati per sempre dalle modernissime conquiste democratiche, dalle innovazioni tecnologiche, da recentissimi e presunti nuovi rapporti sociali introdotti nella civiltà del Capitale. Cerchiamo quindi di spiegare le ragioni della situazione attuale, prima di analizzare le rivolte Sato per Stato, per poi arrivare a conclusioni valide per l’intero sub-continente.

 

2. Inquadramento storico. Le cause dell’arretratezza dell’America Latina.

Attingiamo dunque al nostro patrimonio di partito. Scrivevamo già nel 1959: “Per determinare il peso effettivo degli avvenimenti latino-americani, la loro natura e sbocco sociale, occorre sapere definire le grandi linee della evoluzione storica del sub-continente. Fedeli al determinismo sappiamo che nulla accade nel presente che non sia condizionato da avvenimenti non di rado situati nel remoto passato. La generazione spontanea, dimostrata falsa in biologia, è del tutto assente anche nella evoluzione storica. Tale verità balza agli occhi specialmente nello studio dei paesi che sono rimasti indietro nel cammino del progresso. In essi le strutture della società restano cristallizzate, e mutano con esasperante lentezza, perché le influenze dei rivolgimenti del passato perdurano ostinatamente e il ‘nuovo’ non può rigenerarsi per puro atto di volontà collettiva. Nella società latino-americana troneggia un ostacolo che sembra inamovibile ed eterno come le gigantesche rovine degli antichi monumenti pre-colombiani: la grande proprietà terriera. […] la storia della indipendenza delle venti repubbliche del sub-continente può riassumersi, senza paura di cadere nel semplicismo, in una frase: la lotta ostinata contro le oligarchie terriere, detentrici del monopolio della ricchezza e del potere politico” (“Le cause dell’arretratezza dell’America Latina”, Il programma comunista, n. 14 e 15 del 1959).

In quello studio, mostravamo la dipendenza economica dell’intero sub-continente dalle materie prime, e quindi il freno all’industrializzazione, anche dopo la conclusione del colonialismo spagnolo e portoghese. Questo perché anche i grandi proprietari terrieri parteciparono alla guerra contro gli Stati colonizzatori e si avvantaggiarono della vittoria, bloccando lo sviluppo industriale, in alleanza con il capitale finanziario estero e in particolare con l’imperialismo USA. Quel nostro lavoro non ci fornisce solo la base materiale su cui poggiare la comprensione delle contraddizioni in cui si dibatte oggi il sub-continente, ma ci mostra anche la chiave di lettura per comprendere il processo attraverso cui l’industrializzazione si fa strada in America Latina, nel rapporto di forze tra le fazioni della borghesia (industriale e redditiera) all’interno dello scontro tra imperialismi per il controllo delle materie prime. Leggiamo ancora: “Perché qualcosa di nuovo maturasse nella struttura sociale latino-americana, occorreva che si determinasse almeno una interruzione del meccanismo tradizionale dello sfruttamento del sub-continente. E ciò è accaduto durante la seconda guerra mondiale. Già all’epoca della prima guerra mondiale, le morse della tenaglia imperialistica si erano allentate alquanto, ma con l’effetto sicuro di permettere al giganteggiante imperialismo nord-americano di strappare importanti posizioni finanziarie ai capitalisti rivali di Europa. La seconda guerra mondiale, invece, veniva a spezzare bruscamente le relazioni commerciali tra l’America Latina e gli empori dell’Europa occidentale. Mentre l’Inghilterra doveva lottare ferocemente per salvare la propria esistenza ed era costretta a trascurare i propri vassalli finanziari sud-americani, gli Stati Uniti, anch’essi impegnati nell’immane conflitto dei continenti, potevano approfittare solo in parte della situazione. Infatti la grande offensiva finanziaria di Zio Sam ebbe luogo negli anni del dopoguerra e non si può dire certamente esaurita al momento presente [1959, ndr]. Approfittando delle condizioni di isolamento, provocate dalla guerra, e maneggiando lo stesso capitale nord-americano, le forze di punta dello schieramento anti-oligarchico gettavano in alcune repubbliche, specialmente nelle più importanti quali il Brasile e l’Argentina, le basi della industria nazionale. Nasceva così l’industria siderurgica, fatto assolutamente nuovo nel regno assoluto delle haciendas e delle estancias. E, con l’ingresso della grande industria, prendevano corpo nuove ideologie politiche e nuovi tipi di regimi politici, quali il ‘giustizialismo’ di Peron, che spostava le basi tradizionali delle alleanze anti-oligarchiche. Dalla fine del secolo scorso [1800, ndr], il movimento operaio che sorgeva in quei tempi aveva appoggiato vigorosamente tutte le battaglie politiche delle classi medie contro l’oligarchia terriera e il militarismo che politicamente ne rappresentava gli interessi. Il peronismo, espressione degli interessi della nascente borghesia imprenditoriale che si vede ostacolata dall’ottuso conservatorismo della aristocrazia terriera, intese procacciarsi l’appoggio della classe operaia, e non si può negare che ci riuscì[10].

Quindi, non solo analisi materialistica dell’economia, ma capacità anche di derivarne lo sviluppo dei rapporti di forza tra classi: “Oggi [sempre 1959, ndr] l’America Latina è in pieno fermento. Le dittature militariste sono crollate dovunque, tranne che nel Paraguay e a San Domingo. E ciò significa che la secolare dominazione dell’oligarchia agraria dà segni palesi di cedimento. Ma la svolta serba un grave pericolo per il movimento operaio, appunto il pericolo giustizialista che, sotto la copertura ideologica della lotta alle oligarchie agrarie universalmente odiate, cerca contrabbandare l’interclassismo, arma dell’inquinamento riformista della classe lavoratrice” (ibidem).

Facciamo tesoro di questa analisi scientifica e di classe di circa settanta anni fa, e soprattutto della sua conclusione, oggi che l’interclassismo, come vedremo, è ancora l’ostacolo principale che si frappone tra la combattività delle masse in rivolta e un loro indirizzamento in senso rivoluzionario.

 

3. La crescita di inizio secolo.

Sempre in quell’articolo, scrivevamo che “alla vigilia della crisi del 1929 i prodotti grezzi costituiscono in tutti i paesi sudamericani almeno l’80%, generalmente il 90%, talvolta la quasi totalità delle esportazioni, mentre gli articoli manifatturati non entrano, nelle vendite all’estero, che per una percentuale quasi nulla. Ancora agli inizi degli anni ’60 il valore delle derrate e materie prime raggiunge il 90% delle complessive esportazioni verso gli altri paesi, da cui il carattere ancora meramente coloniale dell’economia latino americana”.

Ma già nel 2012, in altri due articoli specifici [11], mostravamo che nonostante questo ritardo alcuni Paesi erano riusciti a sviluppare una propria industria e a mettere in discussione i rapporti di forza con gli Stati Uniti, in virtù della penetrazione dell’imperialismo cinese (di nuovo: nulla nasce dal nulla!). Tra i paesi con un certo livello di industrializzazione citavamo: Brasile, Argentina, Cile e Messico. E mostravamo che, comunque, l’intero continente era ancora legato a un’economia di tipo “coloniale”, fortemente dipendente dalle materie prime. E questa base economica spiegava anche il brusco oscillare della situazione economica e sociale, in fasi decennali di crescita e recessione, determinate dalla variazione del prezzo delle materie prime. Basterebbe, scrivevamo nel 2012, un rallentamento dell’economia cinese a mettere in crisi l’economia dell’intera America Latina. Ricordiamoci di questa ipotesi!…

Il Venezuela è il quinto esportatore mondiale di petrolio, principale voce dell’export: i redditi provenienti dal greggio rappresentano il 30% del PIL e il 90% dei ricavi provenienti dall’esportazione. Il Brasile possiede i giacimenti più vasti dell’America Latina dopo quelli venezuelani e la sua produzione lo colloca al tredicesimo posto nella classifica dei principali paesi produttori. In Cile, la produzione e l’esportazione di rame costituiscono il 20% del PIL nazionale (nel 2007, la produzione era pari al 36,5 % di quella mondiale); insieme all’Argentina, il Cile è poi il principale paese fornitore del mercato mondiale di litio, metallo utilizzato per l’alimentazione di telefoni cellulari, computer e altri dispositivi elettronici. Anche per l’Argentina la risorsa mineraria più importante è il petrolio, ma notevoli sono anche il gas naturale, il carbone, il ferro, l’uranio, l’argento, l’oro, ecc.; inoltre, nel paese gioca un ruolo importante l’allevamento, bovino ed equino nella Pampa, ovino e caprino nella Patagonia. Evidentemente, la produzione ed esportazione crescente delle stesse materie prime, alimentata dalla forte domanda di nuovi, importanti paesi produttori come la Cina (che si è posta ormai da qualche tempo come la nuova maggiore fabbrica del mondo), senza vincoli protezionisti come quelli posti dall’area euroamericana, hanno dato uno slancio di rilievo a tutta l’economia della regione, anche e soprattutto attraverso l’accesso a finanziamenti e tecnologia da parte cinese. Mentre gli export della regione nei confronti di USA e UE sono in calo, il tasso di crescita dell’export e import cinesi 2008 e 2009 in America Latina sembra aumentato del doppio rispetto a tutte le altre aree. […] a questo ritmo la Cina potrebbe sostituire l’UE come secondo partner commerciale nel 2020 (il primo resta ancora gli USA). La preoccupazione degli Stati latino-americani sta anzi diventando sempre più la forte dipendenza dell’economia dall’export delle materie prime verso la Cina e dai grossi investimenti di capitali cinesi nella manifattura e tecnologia dell’area latino americana, che va determinando un deficit commerciale a favore della Cina. Gli Stati Uniti appaiono sempre più preoccupati dell’influenza cinese in America Latina, che potrebbe mettere in discussione la famosa ‘Dottrina Monroe’ (elaborata fin dal 1823 e riassunta nello slogan ‘l’America agli Americani’), secondo la quale qualsiasi ‘intromissione esterna’ nel continente americano potrebbe risultare dannosa per la pace e la sicurezza americana”[12].

In quei lavori del 2012, facevamo la facile previsione che, nonostante la tendenza allo sviluppo industriale e la riduzione del gap rispetto ai paesi dominanti, ossia la riduzione della relativa diseguaglianza tra Stati, sarebbe cresciuta la diseguaglianza tra le classi, interna ad ogni paese, con il risultato dell’inevitabile esplodere dello scontro sociale. Prevedevamo inoltre anche la crescita dell’influenza economica cinese sul continente. Abbiamo la palla di vetro? No: il comunismo è una scienza, e come una scienza va trattato.

 

4. Ieri e oggi.

I nostri detrattori e nemici di classe, sempre à la page e soliti a pascersi delle ultimissime scoperte prodotte dagli esperti, si chiederanno che senso abbia ricollegarsi a studi di decenni fa… “Roba vecchia”, diranno “Ormai superata”. Dati alla mano, vediamo quindi chi ha avuto ragione: i rivoluzionari catastrofisti o gli apologeti del “migliore dei mondi possibili”? Miseria crescente o diffusione del benessere?

Per ciò che riguarda le materie prime, dopo la crescita dei prezzi, dall’inizio di questo secolo fino a circa il 2014-2015, è seguito un crollo, conseguenza del rallentamento della locomotiva cinese, passata da tassi di crescita a doppia cifra a saggi di profitto da capitalismo più maturo (ricordate l’ipotesi avanzata nel nostro articolo del 2012? Basterebbe un rallentamento dell’economia cinese…). L’invecchiamento dei tassi di profitto si dimostra più rapido nei paesi che arrivano tardi al capitalismo. Il crollo dei prezzi, a sua volta, ha alimentato con più esasperazione la forbice tra le classi sociali. La diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra le classi, la miseria delle masse proletarie e contadine, la proletarizzazione della piccola borghesia, sono stati gli elementi comuni (base materiale) di tutte le lotte di piazza che hanno scosso l’America Latina negli ultimi anni e questo nonostante la crescita economica di ogni singolo Stato: caso esemplare, il Cile. Confermando quindi le nostre vecchie previsioni scientifiche, ricchezza a un polo significa miseria al polo opposto.

Branco Milanovic, ex capo economista della banca mondiale e professore di economia alla NY University è noto per il suo studio mondiale sulle diseguaglianze, sintesi di una raccolta di dati a livello globale, durata anni. In pratica, i suoi studi confermano la legge della miseria crescente (senza però utilizzare tale “vecchia” terminologia di classe), arrivando anche, dal punto di vista borghese, a mettere in guardia i governi nazionali su un riaccendersi della lotta di classe. E l’America Latina, il continente che maggiormente è stato scosso dalla rivolta, è proprio la zona del mondo dove maggiore è la differenza nella distribuzione della ricchezza tra classi: assume quindi il ruolo di specchio delle rivolte che hanno scosso l’intero pianeta e indica una tendenza per il futuro. “L’esaurimento ormai della spinta arrivata dal 2000 e in anni successivi dalle commodities – che inaridendo le risorse si traduce in stop alla crescita e impennate del debito pubblico – ha allungato ombre sempre più dense e gravide di conseguenze sul futuro, portando i nodi al pettine […] Tuttora oltre il 40% della popolazione vive in condizioni di povertà o estrema povertà, ai massimi da dieci anni” [13].

“L’1% della popolazione latinoamericana possiede più del 40% della ricchezza dell’intera regione. L’indice di Gini (misura della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza) è cresciuto negli ultimi anni di una quota tra l’1% e l’8%, a seconda della nazione. Secondo stime della Commissione Economica per l’America Latina (CEPAL), per il 2019, il 30,8% della popolazione, ovvero quasi 190 milioni di persone, sono costrette a sopravvivere con meno di 5,5 dollari al giorno. […] E il resto della popolazione appartiene alla classe medio-alta? Non esattamente. Sebbene la crescita economica degli ultimi decenni abbia trasformato l’America Latina in una regione di reddito medio, non l’ha resa una regione di classe media. È sufficiente spendere 5,5 dollari al giorno per godere del benessere normalmente associato alla classe media? La domanda è retorica. Per questo la Banca Mondiale ha coniato il concetto di ‘classe vulnerabile’, ovvero quelle persone che sono uscite dalla povertà ma non hanno ancora conquistato una stabilità che permetta di vivere nella sicurezza socio-economica della classe media. La classe vulnerabile è particolarmente suscettibile a piccole oscillazioni dell’economia o tagli del welfare e può rapidamente scivolare nuovamente nella povertà. Queste persone, che si mantengono con una spesa quotidiana che oscilla tra i 5,5 e 13 dollari al giorno, costituiscono il 37,6% della popolazione latinoamericana. Il 68,4% della popolazione della regione quindi vive tra povertà e vulnerabilità. […] più del 50% della terra produttiva dell’intera America Latina appartiene solo all’1% dei proprietari, titolari di conglomerati agroindustriali, multinazionali minerarie e petrolifere” [14].

La Banca Mondiale quindi parla, oggi, di ‘classe vulnerabile’, ossia suscettibile alle oscillazioni dell’economia. Nella scienza marxista, questa si chiama miseria crescente, ed è la condizione a cui il capitalismo costringe tutti i lavoratori, non importa se temporaneamente a salario alto o basso.

Altri dati recenti mostrano che, nonostante lo sviluppo industriale di alcuni paesi, l’economia dell’America Latina è ancora fortemente legata alla esportazione di materie prime (tra il 60% e l’80%), conservando quindi un rapporto di dipendenza coloniale: “Se guardiamo all’export, le grandi imprese latinoamericane originano circa l’80% delle esportazioni e si concentrano in settori quali agricoltura, pesca, miniere e alcuni comparti industriali che generano molto reddito ma poche filiere produttive e scarsa innovazione tecnologica. E di questo reddito beneficia solo una piccola porzione della società. Si pensi al Cile: il paese esporta oltre 200 milioni di dollari al giorno, di cui il 97,9% corrisponde alle grandi imprese” [15].

E ancora, da altra fonte:

“Il rapporto State of Commodity Dependence 2021, recentemente pubblicato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad) evidenzia l’aumento nell’ultimo decennio del numero dei paesi dipendenti dalle materie prime: da 93 paesi nel 2008-2009 a 101 nel 2018-2019. L’Unctad considera un paese dipendente dalle esportazioni di merci quando più del 60% del totale delle sue esportazioni è composto di materie prime e di prodotti agricoli. Più che una condizione, è una vera e propria ‘trappola’, che blocca la crescita di molte economie. Il valore nominale delle esportazioni mondiali di materie prime ha raggiunto 4.380 miliardi di dollari nel 2018-2019, con un aumento del 20% rispetto al 2008-2009. La dipendenza rende i paesi più vulnerabili agli shock economici con inevitabili impatti negativi sulle entrate fiscali, sull’indebitamento e sullo sviluppo economico. Tutti i 12 paesi del Sud America hanno un livello di dipendenza dalle materie prime superiore al 60% e per tre quarti di essi la quota supera l’80%. La ‘trappola’ delle materie prime, di fatto, è il proseguimento ‘moderno’ del vecchio rapporto colonialistico. Sembra di rileggere ‘La ricchezza delle nazioni’ di Adam Smith, scritta prima del 1776, che, di là delle teorie economiche, come la divisione del lavoro, invitava le colonie inglesi nel Nord America a limitarsi a produrre cotone perché le manifatture e lo sviluppo industriale erano riservati all’Inghilterra. Si ricordi che quell’imposizione coloniale fu una delle cause principali che portarono alla Rivoluzione americana e alla nascita e all’indipendenza degli Stati Uniti” [16].

In prospettiva, ossia considerando le materie prime al centro del mercato nel futuro prossimo: Argentina, Cile e Bolivia formano il “triangolo del litio”, che ospita quasi il 60% delle risorse mondiali di questo minerale (depositi di litio sono stati recentemente scoperti anche in Perù, sotto forma di roccia dura). A fronte di una domanda sempre crescente di batterie, la produzione di litio è destinata a crescere esponenzialmente negli anni a venire. E sempre sulla base dei recentissimi e aggiornati dati fornitici dagli analisti al servizio del Capitale, si conferma il legame maggiore con la Cina, a scapito degli USA, proprio come ipotizzavamo nei nostri articoli di 10 anni fa. La Cina è ormai il primo partner commerciale del Brasile, sostituendosi agli Stati Uniti – l'economia brasiliana è la più grande in America Latina, la nona al mondo per dimensioni del PIL nominale e la settima per potere d'acquisto. Il commercio bilaterale totale tra Cina e Brasile è passato da circa 3 miliardi di dollari nel 2001 a 44 miliardi nel 2010 e a circa 100 miliardi in 2019. Pechino è la destinazione di un terzo delle esportazioni brasiliane, quota destinata a crescere vista la ripresa economica relativamente rapida della Cina dalla pandemia (la Cina, per esempio, è il maggior consumatore mondiale di minerale di ferro e niobio, entrambi di vitale importanza per lo sviluppo urbano del Paese, e il Brasile è il primo produttore di niobio e la terza fonte di minerale di ferro). Allo stesso modo, la Cina ha bisogno della soia brasiliana e sudamericana in genere, per nutrire gli animali da carne e quindi la sua popolazione. In America Latina, tra Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Brasile – ad oggi il principale produttore – esiste addirittura una zona chiamata “La repubblica della soia”. Si tratta di un luogo che si estende per milioni di ettari dedicati unicamente alla coltivazione di questo legume. (Piccola digressione: le monocolture invasive impoveriscono il terreno, che diventa sempre più arido, contribuiscono alla scomparsa di altre piante e alla perdita di biodiversità. Inoltre, i piccoli contadini e gli agricoltori locali perdono il lavoro, spazzati via dai grandi latifondisti… Ma Marx è ormai roba dell’Ottocento!) Il commercio tra Cina e America Latina è aumentato nell’ultimo decennio con la percentuale del 30% annuo. Gli scambi commerciali sono fino ad ora concentrati tra il gigante asiatico e il Brasile, il Cile, il Perù e l’Argentina, risultando legati soprattutto al commercio di materie prime (rame, litio, soia, zucchero e piombo). La Cina è il principale mercato anche per Cile e Perù, mentre gli Stati Uniti sono la principale destinazione delle esportazioni di Colombia ed Ecuador. Va inoltre segnalato che Stati Uniti e Cina insieme costituiscono la destinazione di oltre il 50% delle esportazioni cilene e di oltre il 40% delle esportazioni brasiliane e peruviane. Di fatto, le esportazioni verso Stati Uniti e Cina superano il commercio tra nazioni del sub-continente.

Le esportazioni latinoamericane in Cina e negli Stati Uniti sono complessivamente poco diversificate e fortemente dipendenti dalle materie prime. Questa tendenza è ancora più marcata per quanto riguarda il commercio con la Cina. A livello globale, le esportazioni di metalli (40%), prodotti agroalimentari (35%) ed energia (18%) rappresentano il 93% delle vendite alla Cina di sei Paesi dell’America Latina (Brasile, Cile, Perù, Colombia, Ecuador, Argentina). Più in particolare, le esportazioni verso la Cina sono fortemente concentrate nell'agrobusiness per Argentina ed Ecuador, nei metalli per Cile e Perù (rame e litio) e nell'energia per la Colombia. Vi è inoltre una predominanza delle stesse tre categorie di materie prime per l'export verso gli Stati Uniti, anche se in misura minore (72%).

Ecco le radici materiali dei repentini cambiamenti e degli avvenimenti recenti nell’America Latina e che determineranno fortemente gli sviluppi futuri: America Latina e Caraibi (ALC) continueranno a essere una regione di crescente competizione economica tra gli Stati Uniti d’America e la Cina.

Ora, chiediamoci di nuovo: la miseria crescente, la lotta di classe, la guerra tra imperialismi, la necessità di un superamento dell’attuale modo di produzione, sono “roba vecchia”?

Ricordiamoci che gli esperti e analisti borghesi non hanno previsto l’esplodere delle rivolte in America Latina degli ultimi anni, poiché troppo impegnati a lodarne la crescita economica, così come oggi sperano che tutto si risolva con il rialzo dei prezzi delle materie prime. La ricerca del profitto li rende ciechi e smemorati. Così, si chiedono: come è possibile che una regione, che all’inizio del XXI secolo ha sperimentato un boom economico durato più di un decennio e continua a crescere ancor oggi, sebbene a ritmi più lenti, abbia quasi il 70% della popolazione che lotta per sopravvivere tra povertà e vulnerabilità? E, ovviamente, non trovano risposta!

La ricerca del profitto, la concorrenza tra capitali nazionali e tra imperialismi, legge ineluttabile che determina tutte le politiche, è il filo conduttore che spiega la storia apparentemente contraddittoria dell’America Latina, il suo connubio di ricchezza e miseria, e spiega le sue espressioni apparentemente opposte: l’ideologia della fazione “liberale” della borghesia e quella della fazione statalista, quella reazionaria della classe redditiera e quella moderna della classe industriale; solo cosi si comprende la politica dei tifosi dell’imperialismo cinese o di quello americano o del capitale nazionale, compresi i democratici, i socialdemocratici e gli pseudo rivoluzionari.

Le ragioni degli interventi militari, dei golpe, degli imbrogli elettorali vari, e, per converso, delle lotte e resistenze interne contro di essi, non sono da ricercare nelle varie fasulle ideologie sfornate: né in quelle a giustificazione delle imprese imperialiste né in quelle a giustificazione della ‘resistenza’ contro lo stesso imperialismo sul piano interno, come nelle varie ideologie ‘antimperialiste’ o ‘terzomondiste’, con le loro varianti peroniste, democratiche, guevariste, ecc. Non vanno ricercate soprattutto nella contrapposizione tra ‘sistemi economici diversi’: quello capitalistico, rappresentato dagli stati imperialisti, e quello presunto “socialista” che, nelle suddette ideologie, sarebbe rappresentato dalle misure stataliste o nazionalizzatrici, o comunque ‘antiliberiste’. Si tratta, invece, della lotta feroce, senza esclusione di colpiall’interno dello stesso sistema capitalistico, statalista o liberista che sia, per la divisione dei profitti e delle rendite, che ha visto e vede fortemente in contrasto gli imperialismi da un lato e le varie frazioni borghesi interne dall’altro – tutte con denominatore comune l’estorsione quanto più alta possibile del plusvalore ai proletari per l’accumulazione dei profitti capitalistici” [17].

Il proletariato impari a non farsi utilizzare dagli interessi dei vari imperialismi e delle varie fazioni nazionali borghesi e piccolo borghesi. Questa la lezione che il partito comunista deve portare all’interno delle masse in rivolta: “Proletari! Imparate a lottare per voi stessi!”.

 

5. Le rivolte in America Latina, Stato per Stato.

Venezuela. Una crisi che si trascina da anni.

Negli ultimi anni, ci siamo occupati spesso della crisi economica e sociale del Venezuela e della critica all’opportunismo nella sua forma di “socialismo sudamericano” [18]. Il Venezuela rappresenta il caso più eclatante di paese latino americano maledetto dalla propria ricchezza: adagiato su una delle maggiori riserve di petrolio del pianeta, tutte le sue disgrazie sono legate alla guerra tra imperialismi e capitale nazionale intorno a questa ricchezza, tanto che alcuni osservatori parlano di “maledizione dell’oro nero”.

Per spiegare la situazione attuale, prendiamo le mosse dalla presunta rivoluzione chavista. “Chavez fu il promotore di una politica che, a suo dire, avrebbe portato alla modernizzazione del Paese, estendendo la ‘distribuzione’ dei proventi del petrolio al ‘popolo’ e assicurando così la stabilità del potere e l’accumulazione del capitale, grazie alla straordinaria crescita della rendita petrolifera […] Nel 2002, il tentativo di colpo di Stato, organizzato dai settori imprenditoriali e dal parassitismo militare strettamente legato alle oligarchie e alle potenze straniere, e fallito – così almeno si dice – per la fedeltà dell’esercito e per la mobilitazione popolare nazionalista, ruotò intorno al rialzo vertiginoso del prezzo del petrolio che raggiunse i 140 dollari il barile. Consolidatisi gli sperperi e la corruzione a tutti i livelli, la crisi economica americana e mondiale del 2008-2010 si abbatté poi sul Paese. Prima le dure sanzioni economiche imposte dagli Usa […] quindi le enormi difficoltà nell’acquisto dei beni di prima necessità, lo sfruttamento della classe operaia e infine la disoccupazione cronica e l’altissima inflazione, diedero origine all’estremo contrasto tra la crescente miseria e la traboccante ricchezza. In pochi mesi, circa tre milioni di venezuelani (su una popolazione di 32 milioni) furono costretti a lasciare il paese trasferendosi in Colombia (cui bisogna aggiungere la massa di residenti, almeno 200mila, che affollano la Florida). Con la crescita del malcontento generale, una varietà di muffe d’ogni colore, prodotto specifico delle classi medie e della piccola borghesia, ha inquinato il terreno sociale, trascinando nel caos il proletariato[19].

In un altro articolo, di poco precedente, scrivevamo ancora:

“Dipendente in larga misura dal petrolio, il Venezuela si trova in gravi difficoltà nell’attuale crisi […] L’economia petrolifera, distribuita come rendita fondiaria, ha fame di capitali ed è per questo che le potenze imperialiste ‘povere di materie prime’ non sopportano che il Venezuela debba possedere tanta ricchezza. Le sue esportazioni, quei 2,5 milioni di barili di greggio al giorno di massima, tuttavia non bastano a sanare il debito estero del paese. E tutto ciò avviene in presenza di un sottosuolo che racchiude le riserve più ricche del mondo: 298,4 miliardi di barili di greggio, rispetto ai 268,3 miliardi dell’Arabia Saudita, ai 171 del Canada e ai soli 36,52 miliardi degli Usa. Il destino del Venezuela è strettamente legato, dunque, a quello del petrolio, che rappresenta all’incirca il 90-95% delle sue esportazioni: ed è per questo che il default è solo questione di tempo. Il crollo del prezzo del barile, gli scaffali dei negozi vuoti, i bassissimi salari e l’inflazione (la più alta del mondo) sono al centro della crisi. Altro che ‘socialismo’! Alla fine del 2007, prima dell’arrivo della grande crisi, il Venezuela aveva raggiunto la terza posizione tra i paesi dell’America Latina per prodotto interno lordo pro/capite; la disoccupazione era solo all’8%. Si stimava però (oh, gran virtù dei sondaggi!) che nel 2022, secondo i dati del Fmi, il Venezuela avrebbe perduto il 27% del Pil pro/capite con una disoccupazione che avrebbe superato il 35%, diventando uno tra i paesi più poveri del continente sudamericano. Ma non c’era bisogno d’aspettare tanto per vedere sprofondare il paese nella crisi. L’andamento del prezzo del petrolio ha rappresentato, comunque, ciclicamente la fortuna e la sfortuna dell’economia venezuelana. […] La lotta di classe si è espressa molto spesso in Venezuela, con manifestazioni e rivolte. Basti ricordare che quelle della fine degli anni ’80 furono il prodotto della diminuzione del prezzo del petrolio, del deterioramento dei conti esteri e delle riforme varate dal governo in accordo con il Fmi. “Caracazo” è il nome di una serie di forti proteste durante il governo di Carlos Andrés Pérez, iniziate il 27 febbraio 1989: la rivolta ebbe origine nella città di Guarenas, il massacro avvenne quando le forze di pubblica sicurezza della Polizia Metropolitana (PM), l'Esercito Nazionale del Venezuela e la Guardia Nacional (GN) attaccarono in strada i manifestanti. Nonostante le cifre ufficiali parlino di 300 morti e poco più di un migliaio di feriti, una stima non ufficiale indica in 3500 le vittime. La storia del Venezuela è intessuta, dunque, di scontri e di lotte in un territorio che affoga in un mare di petrolio. Dieci anni dopo, nel 1998, dopo la vittoria alle elezioni, uno dei provvedimenti di natura economica del presidente Chavez nel febbraio del 2002 fu di sostituire i dirigenti della compagnia petrolifera nazionale con persone affini al suo progetto politico che mirava a una riforma attraverso ‘piani sociali’ a favore della popolazione, contro chi voleva che si utilizzassero profitti e rendite per finanziare l'espansione aziendale dell'attività petrolifera. Il petrolio era, quindi, ancora al centro. La questione ruotava in realtà intorno a chi dovesse appropriarsi dei prodotti dello sfruttamento della forza lavoro e della natura, la Compagnia petrolifera nazionale tramite i suoi funzionari, gestori, manager per espandere l’azienda o i funzionari e dirigenti per estendere il baraccone statale? La ricchezza della terra e del lavoro non cade come i fichi in bocca ai lavoratori” [20].

In sintesi, negli ultimi anni la storia del Venezuela è stata punteggiata da un susseguirsi a intervalli di scontri, tutti con al centro la rendita petrolifera, la lotta per il suo controllo, sia a livello nazionale, con la lotta tra classi, sia sul piano internazionale, con la guerra tra imperialismi. Si registrano duri scontri anche nel 2017: più di recente questi scontri raggiungono l’apice ad inizio del 2019.

Ma diamo uno sguardo ulteriore alle basi economiche delle attuali tensioni sociali: il 91% della popolazione è sotto la cosiddetta soglia di povertà, il 65% in povertà estrema. L’inflazione è arrivata a cifre impronunciabili, 10 milioni per cento nel 2019. Lo stipendio medio mensile è sufficiente per comprare due cartoni di uova. L’80-90% della popolazione soffre per la carenza di medicinali e la metà degli ospedali non è operativa. 5 milioni di venezuelani sono emigrati, un vero e proprio esodo, con carovane di famiglie disperate [21]. Recentemente si è assistito al drammatico controesodo. La pandemia ha spostato i flussi migratori in America Latina. Numerosi venezuelani, che in tempo di quarantena si sono trovati senza alcuna protezione nei Paesi dove si erano rifugiati, attraversano ora a ritroso la frontiera, con quarantena in veri campi di concentramento. Dichiara a questo proposito il coordinatore dell’organizzazione Provea  (Programma di educazione e azione per i diritti umani), una ONG attiva nel campo della difesa dei diritti umani in Venezuela: “Riceviamo denunce molto preoccupanti sui luoghi di quarantena, gestiti da militari o milizie armate. Non abbiamo informazioni chiare, ma le segnalazioni parlano di sovraffollamento, assenza di personale medico, luoghi senza servizi igienici, acqua e corrente elettrica” [22].

A gennaio 2019, dal Venezuela arrivano immagini delle forze di polizia che sparano ai manifestanti, anche con armi di grosso calibro; in altri video, si vedono folle oceaniche di manifestanti a Maracaibo, Valencia, Valle de la Pascua (Guarico), Carora (Estado Lara), Mérida, Puerto Cabello. I corpi speciali di sicurezza reprimono i manifestanti a Valle de la Pascua, una città nel nord del Venezuela (Stato di Guárico): si parla di un morto. In totale, i morti ufficiali sono 16, ma fonti locali parlano di 26 vittime. Tra fine aprile e inizio maggio 2019 si ha una recrudescenza degli scontri, con un bilancio di 4 morti, di cui due adolescenti. Sul Venezuela, in conclusione, non possiamo che ribadire le parole di un nostro comunicato emesso allora: “Solidarietà al proletariato venezuelano contro ogni tentazione patriottica e nazionalista. Noi comunisti non siamo indifferenti a quanto sta succedendo in Venezuela, come non siamo indifferenti agli effetti sociali e politici della crisi strutturale dell'economia capitalistica che si trascina e approfondisce, scompaginando alleanze e schieramenti borghesi e peggiorando ovunque nel mondo le condizioni di vita e lavoro dei proletari. Ma, per l'appunto, il nostro riferimento è e rimane il proletariato internazionale, i suoi interessi immediati e futuri. Con forza, dunque, esprimiamo la nostra solidarietà militante ai proletari venezuelani attaccati da ogni parte: dall'imperialismo USA come dalla borghesia nazionale in tutte le sue vesti (‘di regime’ e ‘di opposizione’), dagli imperialismi europei come da quello russo, cinese, turco – altrettanti avvoltoi. Nessuna solidarietà deve andare a questa o quella fazione borghese. Solo rifiutando di far parte di quella fetente palude interclassista che si chiama ‘popolo’, solo recuperando la propria indipendenza politica e di lotta contro ogni fantasma patriottico, fuori da ogni prospettiva di alleanza con questo o quello Stato o con il ‘proprio’ Stato e contro le bastarde teorie del ‘chavismo bolivarista’ e del ‘socialismo del XXI secolo’, solo così il proletariato venezuelano, fianco a fianco con il proletariato di altri paesi, potrà imboccare la via della propria emancipazione e della società senza classi. A questo lavoriamo noi comunisti[23].

 

Primavera del 2018, in Nicaragua

Nella primavera del 2018, in Nicaragua, alcuni hanno avuto l’impressione di essere tornati indietro di quarant’anni, quando, nel febbraio del 1978, si ebbe la prima insurrezione popolare a sostegno della “rivoluzione” sandinista, che portò alla caduta di Anastasio Somoza: da allora, Daniel Ortega, con il suo partito personale, esercita il potere, in coppia con la moglie, presidente e vicepresidente. Dopo quattro decenni, però, il potere comincia a scricchiolare, e le proteste di piazza riportano a un clima di cambiamenti.  Le manifestazioni hanno come protagonista un movimento sociale di natura popolare, interclassista, che per mesi chiede la destituzione del governo, accusandolo di essere “autoritario” e “corrotto”. Ma, come vedremo, anche qui la proteste acquistano energia soprattutto dal sottosuolo economico.

Anche se gli analisti borghesi ci hanno descritto un’economia che ha continuato a crescere per 8 anni, grazie a un misto di sostegno internazionale e cooperazione interna con il settore privato, ciò non ha fermato la miseria crescente e non ha retto agli effetti dell’ultima crisi, che anche qui si è manifestata prima della pandemia, già nel 2018.

Ma, prima di analizzare i dati economici in dettaglio, occorre una precisazione: in termini di politiche economiche e più in generale sociali, e al di là delle maschere ideologiche e delle presunte distinzioni tra destra e sinistra, nella realtà le politiche sociali ed economiche messe in pratica dal governo Ortega non sono radicalmente diverse da quelle attuate da altri governi – di destra centro o sinistra borghese e piccolo borghese – in tutta l’America Latina. Può cambiare un po' il peso dell'assistenzialismo sociale, ma nella sostanza il governo Ortega ha garantito in questi anni gli interessi dell'imprenditoria nazionale e internazionale, competendo con gli altri paesi dell'area per attirare i capitali internazionali – come tutti gli altri. Gli investimenti di capitale estero sono al centro della politica e degli equilibri sociali in tutta l’America Latina: in veste liberista, statalista, repressiva, popolare, socialista e rivoluzionaria. E’ l’impatto economico della crisi, quindi, che ha spinto le masse in piazza, indipendentemente dall’ideologia diffusa.

In un piccolo paese come il Nicaragua – fra i tre paesi più poveri dell’America Latina e dei Caraibi, insieme a Honduras e Haiti – la caduta dei prezzi e la crisi globale hanno immediatamente peggiorato una struttura economica largamente dipendente dagli investimenti esteri e dalla cooperazione internazionale. L’incertezza sulle prospettive future del Paese ha determinato una drastica caduta del PIL anche nel 2019: 5%, secondo il Fondo Monetario Internazionale, a fronte della riduzione del 3,8% registrata nel 2018 dopo otto anni consecutivi di crescita. Secondo alcuni centri studi nicaraguensi (Copades), si è arrivati a una contrazione del 20% nel 2019, non lontano dal -25% che il FMI prevedeva per il Venezuela. Recentemente, la Banca Centrale del Nicaragua ha dato notizia di una riduzione del 17% dei contributi all’Istituto di previdenza sociale INSS tra febbraio 2018 e lo stesso mese del 2019, a causa della caduta dell’occupazione nei settori del commercio, delle costruzioni, dei servizi finanziari, dei trasporti, della logistica e delle comunicazioni. In valore assoluto, ciò ha significato una perdita di circa 160mila posti di lavoro, cui si aggiungono circa 300mila posti di lavoro persi nel settore informale (ossia, lavoro in nero), in parte “recuperati” sempre attraverso i cosiddetti lavori informali – lavoro sottopagato, precario, senza garanzie e assicurazione - ma di qualità sempre minore, ossia con condizioni di vita e di lavoro in continuo peggioramento.

Tutto questo in un paese di circa 6,3 milioni di abitanti e una popolazione economicamente attiva di 2,7 milioni di persone. La Banca Centrale del Nicaragua informa inoltre che l’andamento negativo dell’economia registrato nel 2018 è dovuto soprattutto al crollo degli investimenti diretti esteri (-63,2%) e del turismo (-41,1%).  In questo quadro, la popolazione all’interno della cosiddetta “fascia di povertà” è passata dal 20,7% del 2017 a oltre il 30% nel 2019 (dati della fondazione Funides: ma la tendenza è confermata anche da tutte le fonti governative e indipendenti). Bisogna inoltre tener conto dell’espansione dell’area che i sociologi borghesi chiamano della “popolazione vulnerabile”: con un reddito fra 4 e 10 dollari al giorno, essa costituisce un ulteriore 21% della popolazione e, sempre secondo i sociologi, sarebbe molto sensibile a mutamenti anche modesti nelle condizioni economiche generali, a causa dei quali potrebbe spostarsi con rapidità verso la “fascia di povertà”… Che profonde analisi ci regala la sociologia borghese! Per noi marxisti, si tratta molto semplicemente di una massa di proletari senza riserve, che oscilla tra la condizione di schiavi salariati ed esercito industriale di riserva. In un circolo vizioso, la crisi economica e poi quella sociale hanno fatto venir meno il flusso di aiuti esteri, gestiti al di fuori del bilancio statale, che permettevano la diffusione di programmi di sussidi e aiuti per famiglie appartenenti agli strati più deboli della popolazione.

La rivolta è cominciata all’inizio di aprile 2018: un mega-incendio e la riforma del welfare hanno scatenato le proteste. Circa 5mila ettari di una delle principali foreste tropicali del continente è andata a fuoco: la riserva di Indio Maiz, nel sud del Nicaragua. Un nutrito gruppo di studenti dell’università centroamericana di Managua (semi-privata e di ispirazione gesuita) ha deciso di scendere in piazza per protestare contro la “scarsa preparazione” del governo di fronte al disastro naturale e contro la scelta di non accettare l’aiuto internazionale offerto dalla Costa Rica.

Ma l’incendio, di per sé, viste le condizioni economiche analizzate sopra, è stato semplicemente il casus belli, la classica goccia in un vaso già colmo di disperazione. Qualche giorno dopo, l’approvazione di una riforma delle pensioni e dello stato sociale – che prevedeva un aumento dei contributi da versare allo Stato da parte dei lavoratori e degli imprenditori e una diminuzione del cinque per cento delle pensioni – ha spinto altri giovani, e non solo, a unirsi alla protesta. Ragazzi di altre università sono scesi in piazza e in breve il movimento si è esteso alla maggior parte degli atenei, contagiando il resto della società. Ne sono nati i primi scontri in strada con gruppi che invece difendevano Ortega. Quest’ultimo, vista l’ampiezza e la determinazione del movimento di protesta, ha dapprima deciso di ritirare la riforma, sperando che ciò potesse attenuare la rivolta. Quindi, ha organizzato degli incontri con i leader della rivolta, al fine di tentare una mediazione. Ma gli studenti hanno deciso di mantenere la richiesta di dimissioni, puntando il dito contro la corruzione, il verticismo del potere e il deteriorarsi delle condizioni di vita della popolazione.

A questo punto, lo scontro si radicalizza. Le rivendicazioni del movimento giovanile sono state definite “un tentativo di colpo di stato”, gli studenti dei “terroristi”: e gli Stati Uniti “una nazione che ha lavorato per fomentare la rivolta”. Quindi, alla polizia è stato dato l’ordine di attuare una durissima repressione.  Il risultato: arresti arbitrari, uso di armi letali, spari sulla folla, ricorso massiccio all’esercito, minacce alle famiglie dei manifestanti morti o imprigionati, esecuzioni sommarie. Nella piccola nazione da sei milioni di abitanti, tra aprile e ottobre del 2018, i morti tra gli studenti sono stati più di 400, i feriti migliaia, e alcuni dei leader della protesta vivono attualmente in condizioni di clandestinità.

A marzo del 2019, pressioni internazionali da parte dei paesi creditori hanno spinto il governo verso un tavolo di dialogo e confronto cui partecipano sei rappresentanti del governo e sei rappresentanti dell’Alleanza Civica per la Giustizia e la Democrazia, in cui confluiscono le principali forze sociali protagoniste delle proteste di piazza. L’Organizzazione degli Stati Americani e la Nunziatura Apostolica sono i “testimoni-garanti di questo secondo esperimento di concertazione, dopo il fallimento degli incontri dello scorso anno: il che la dice lunga sul carattere piccolo borghese della direzione del movimento.

 

Da luglio 2018, Haiti.

E’ ovvio che gli anelli più deboli si spezzino prima. Haiti è uno dei paesi più poveri al mondo e il più povero dell’America latina, con un reddito medio di 130 dollari al mese. Nel 2010, ha subito un terremoto che è costato la vita a più di 300mila persone, ferendone 550mila e lasciando 1,3 milioni di abitanti senza casa. Su una popolazione di poco più di 11 milioni di abitanti, la metà vive al di sotto della cosiddetta “soglia di povertà”: 2,4 dollari al giorno. La percentuale di haitiani che hanno accesso all’acqua potabile è scesa nel 2015 al 52%, rispetto al 62% del 1990. Circa 3,7 milioni di haitiani, un terzo della popolazione, devono fare i conti con l’insicurezza alimentare: secondo le previsioni, tale cifra arriverà quest’anno a 4,1 milioni, mentre la disoccupazione è al 70%. Date queste condizioni, di vera fame, la bomba sociale era pronta a esplodere. L’esasperazione e le manifestazioni spontanee e disorganizzate di pura rabbia sono cominciate nel luglio 2018, quando il governo, su suggerimento del Fondo Monetario Internazionale, ha messo fine ai sussidi per il carburante, con il conseguente aumento dei prezzi del 50%. Sono seguite proteste con decine di morti: il governo ha rapidamente ritirato la misura, ma le proteste sono presto ricominciate, in risposta a voci secondo le quali alcuni importanti politici, tra cui lo stesso presidente Moïse, avrebbero rubato milioni di dollari attraverso Petrocaribe, un programma di aiuti dal Venezuela (3,8 miliardi di dollari donati per finanziare infrastrutture e progetti sociali, ma mai effettivamente destinati a questo scopo). La protesta è partita dal web, con l’hashtag “#KotKobPetwoKaribea?” (“Dove sono i soldi del Petrocaribe?”) diventato subito virale; quindi la rabbia si è riversata nelle piazze “per chiedere semplicemente di vivere in condizioni migliori, nel rispetto della dignità umana”, come spiega l’attivista che ha lanciato l’hashtag, Gilbert Mirambeau. I manifestanti chiedono che il Presidente Jovenel Moise si dimetta e le proteste assumono un carattere sempre più violento. Le scuole, i negozi, gli uffici pubblici e persino la stragrande maggioranza degli ospedali sono restano per settimane; seguono barricate, assalti ai negozi e ai quartieri più ricchi e, per tutto il 2019, scontri violenti con la polizia, con un bilancio di 42  morti tra i manifestanti.

Il presidente attuale è stato eletto nel 2017, con una partecipazione al voto del 21%, e da allora si sono succeduti 4 primi ministri. Da marzo 2019, il governo agisce senza autorizzazione parlamentare: le elezioni legislative, previste per l’ottobre 2019, non si sono mai svolte. Per il secondo anno consecutivo, non è stato approvato alcun bilancio. I funzionari di Stato lavorano con il budget per il 2017-2018, che non è stato adeguato. La debolezza del gourde, la valuta di Haiti, ha fatto aumentare i prezzi del 30% negli ultimi due anni. Siamo di fronte a una vera e propria lotta per il pane, che ha avuto manifestazioni violente anche per tutto il 2020.

Inizialmente, gli Stati Uniti e l’Organizzazione degli Stati Americani hanno sostenuto il presidente. D’altronde, nell’isola, l’ingerenza statunitense sul fronte politico, economico e militare è una questione pressoché atavica. A dicembre 2020, il governo statunitense ha annunciato misure punitive e sanzioni contro alcuni dirigenti del governo Moise: il risultato di una inchiesta da cui sono emerse evidenti azioni repressive contro la popolazione. In particolare, il 13 novembre 2018 a La Saline, una baraccopoli della capitale Port-au-Prince, 71 persone sono state uccise a colpi di machete, ascia o arma da fuoco, undici donne hanno subìto uno stupro collettivo, decine di persone sono state ferite, alcuni corpi sono stati gettati in una discarica, altri sono stati bruciati o smembrati, 400 case sono state distrutte: la popolazione di La Saline era stata molto attiva nelle manifestazioni di protesta e il regime aveva deciso di punirla, ma davvero gli Stati Uniti hanno avuto bisogno di questo episodio per scoprire il carattere repressivo e violento del governo? Ormai abbandonato dagli USA, il presidente Moise viene assassinato nel luglio del 2021 da un commando costituito da militari stranieri che parlavano in spagnolo e inglese. E’ immaginabile un’azione di questo tipo senza il consenso, se non la partecipazione diretta, degli USA? 

Nell’agosto 2021, un altro terremoto, di magnitudo 7.2, devasta il Paese, coinvolgendo circa 650.000 persone: 2.247 morti, 12.763 feriti, quasi 53.000 case completamente distrutte e 83.000 gravemente danneggiate... Da allora e a oggi (gennaio 2022), la situazione è fuori controllo. Il paese continua a vivere in una situazione di caos, in preda a bande armate di criminali. Una tragedia dimenticata e ignorata.

Il proletariato e le masse diseredate sono anch’esse allo sbando e questa situazione ravviva in loro il miraggio della conquista di una situazione di normalità: il sogno di pace, pane, lavoro e democrazia – di nuovo la speranza di risolvere la crisi economica e sociale, anche nei contesti più gravi e drammatici, con vuoti appelli e parole d’ordine democratiche e lotta alla corruzione.

 

Da ottobre 2019, Cile.

Le piazze cilene si riempiono a inizio ottobre 2019, come un terremoto che accumula tensione negli anni, sotto l’apparente tranquillità superficiale, per poi scaricarla improvvisamente e violentemente: prima, migliaia di manifestanti, principalmente studenti, per mesi si scontrano nelle strade con le forze dello Stato; poi, la guerriglia si allarga e si arriva a centinaia di migliaia, la marea monta fino a milioni di manifestanti nelle strade. Ci chiediamo: ma i giornalisti credono veramente che la causa della protesta sia l’aumento del prezzo del biglietto degli autobus di 30 pesos? Questa la spiegazione che giunge da tutti i mezzi di informazione!

Anche in questo caso, ovviamente, le proteste nascono, più in generale e più in profondità, da un altissimo costo della vita e da condizioni di malessere oggettivo: tant’è vero che non si sono fermate quando la legge che prevedeva l’aumento del prezzo dei biglietti è stata ritirata. Violenti scontri si sono avuti soprattutto a Santiago, dove è stato dato fuoco al palazzo dell'Enel, sono stati saccheggiati i supermercati e attaccate con molotov una trentina di stazioni della metropolitana. I giovani protestano per il costo della vita: il valore delle case è alle stelle, i salari restano bassi, i servizi essenziali sono privatizzati. Era da vent'anni che nel paese non si assisteva a tali movimenti di piazza. La protesta è massiccia e decisa, i manifestanti si accaniscono sui simboli del malessere diffuso, fronteggiano le forze dello Stato e sfogano la rabbia di chi si sente sfruttato e oppresso. Si mette in discussione l’intero sistema: “No es por treinta pesos, es por treinta anos” (Non sono trenta pesos, sono trent’anni [di soprusi]). Un altro slogan recita ”Prima non era depressione: era capitalismo”.

I giornali ci hanno mostrato soprattutto vetrine infrante, auto date alle fiamme, negozi svuotati, centraline elettriche incendiate: non condanniamo moralisticamente queste forme di reazione alla propria schiavitù, ma dobbiamo incanalare il giusto e sano odio di classe in direzione rivoluzionaria, senza prendere le distanze dalla esasperazione del proletariato, bensì stando al suo fianco per indirizzarlo. E di fatto, la violenza dei manifestanti si è espressa soprattutto in risposta alla violenza della polizia, non in maniera gratuita e inspiegabile. Piuttosto è da parte dello Stato che arriva la violenza: omicidi, sequestri da parte di servizi segreti e corpi speciali di polizia in incognito, maltrattamenti, torture, violenze sessuali e detenzioni arbitrarie. Sono decine i video di telecamere di sicurezza che mostrano pestaggi violentissimi che hanno causato polmoni perforati, paralisi e morti. Il bilancio approssimativo, data la difficoltà di reperire i dati,  è di 40  morti e più di 70mila arrestati, pallottole di gomma sparate ad altezza del viso che hanno provocato più di 3.600 feriti, di cui 400 con perdita di un occhio o cecità.

Come spesso accade, il collasso sociale è avvenuto proprio quando molti indicatori economici sembravano indicare un forte aumento della ricchezza della nazione: ma la ricchezza di alcuni poggia sulla miseria di tanti. Il Cile era considerato uno dei paesi dell’America Latina con l’economia più prospera e con la situazione politica più stabile, tanto che si era parlato a lungo di una specie di “miracolo cileno”, “isola felice”: Paese modello dell’America Latina, con un PIL pro capite in ininterrotta crescita dai primi anni ’80. E si diceva che si stesse creando una potente classe media… fino all’esplodere della protesta! A ben guardare, i segnali delle tensioni attuali erano già evidenti: l’economia, infatti, è basata sull’estrazione di materie prime.

Il Cile è il principale esportatore del Sud America  e ne costituisce la principale base finanziaria. Ma il rame, una delle risorse fondamentali, è nelle mani del capitale internazionale, mentre lo Stato controlla poco meno del 30% del suo processo estrattivo. Questa base economica fa sì che il paese sia attraversato da profonde disuguaglianze – un paese la cui industria nazionale è praticamente assente, ed è costretto quindi a importare non solo prodotti tecnologici ma anche prodotti alimentari e tessili. Il Cile dipende dall’economia della Cina, degli Stati Uniti, dell’Europa e, in ultimo dagli scambi commerciali con i paesi della regione.

Il Cile, quindi, sebbene abbia stupito il mondo con un’esplosione di violenza durata mesi nel 2019 e riaccesasi a fiammate per due anni – una massiccia protesta che sembrava mettere tutto in discussione – ha confermato una legge nota, che ci conferma oggi che il tanto decantato aumento di ricchezza poggiava sul debito e sulla precarietà delle condizioni di vita della piccola borghesia e del proletariato. Per noi nessuna sorpresa. 

L’esplosione di rabbia ha fatto emergere tutte le fragilità: “Il 60% della classe media cilena è molto vulnerabile. Tutto ciò che accade rischia di avvicinarla alla povertà piuttosto che alla ricchezza come invece avveniva in passato. Ecco perché si vive psicologicamente con angoscia e paura. Le statistiche confermano che il divario tra i più ricchi e i più poveri continua a crescere nonostante 20 anni di boom economico consecutivo” (Alejandra Pizarro, intervistata per El Mundo) [24].

La protesta non nasce quindi solo nel proletariato, visto che anche le classi medie cilene hanno sofferto un forte aumento del costo della vita: “Una serie di problemi irrisolti accumulati, come i costi di sanità e istruzione, e aumenti di prezzo continui, solo quest’anno per quanto riguarda elettricità, acqua, trasporti, medicine, hanno sconvolto la vita quotidiana della gente” – ha spiegato al quotidiano spagnolo El Mundo il giornalista Federico Grünewald. “Circa il 74% delle famiglie è indebitato per pagare istruzione e sanità, il prezzo della luce aumenterà di nuovo a gennaio e si pagherà un biglietto del trasporto pubblico come se fossimo a Londra” [25]. A questo si aggiunge la privatizzazione del sistema pensionistico con pensioni che non superano i 120 dollari al mese e l’aumento delle tariffe per l’acqua. Una protesta già interclassista nelle sue basi economiche.

Inoltre, i salari non aumentano. Lo stipendio minimo mensile stabilito per legge è di 301mila pesos cileni (370 euro), ma secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica del Cile metà dei lavoratori cileni percepisce uno stipendio non superiore a 400mila pesos (490 euro). Pertanto, il disagio trabocca.

La società cilena – spiega ancora l’analista Alejandra Pizarro a El Mundo – è una società ancora molto classista e discriminatoria, un Paese in cui contano ancora molto il colore della pelle e il potere economico, un sistema economico che risente ancora delle forti disparità ereditate dal colonialismo, in particolare nel latifondismo che domina il settore agrario e nelle miniere. L’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza. Le differenze sono evidenti anche nella capitale, Santiago, dove vive circa un terzo dell’intera popolazione del paese. Il centro finanziario e commerciale della capitale è detto “Sanhattan” e i cileni amano confrontarlo con Manhattan. Sulle colline dove vivono le classi alte, in palazzi moderni o villette ottocentesche, la popolazione è essenzialmente “criolla”, bianca di origine europea, mentre nelle periferie degradate predominano i discendenti delle comunità indigene. Il 20% della popolazione versa in condizioni di povertà estrema, mentre nel 2005 in queste condizioni si trovava solo il 5%. Il tasso di disoccupazione è di circa il 13% e l’emorragia di posti di lavoro, in seguito alla crisi economica mondiale e al suo acuirsi per la diffusione della pandemia, continua inarrestabile: solo nel mese di marzo 2020 se ne sono persi circa 300.000. Altre misure hanno precarizzato il lavoro, colpendo soprattutto i giovani, che costituiscono la maggioranza degli 800.000 lavoratori, a cui il presidente Piñera ha sospeso l’erogazione del salario a causa della quarantena e che hanno ricevuto sussidi ridicoli.

Nella prima fase della protesta, è stato proclamato lo stato di emergenza e il presidente ha dichiarato: "Siamo in guerra contro un nemico potente e implacabile che non rispetta nulla e nessuno". Davanti alle ipocrite proteste che arrivavano dall’estero, dai governanti democratici, il presidente cileno ammoniva: “Ciò che sta succedendo da noi potrebbe presto capitare a voi”. Il pugno duro però, con 10 mila soldati schierati nelle strade, coprifuoco, carri armati e mitragliatrici a difesa dello Stato, ha radicalizzato la protesta. Tra le masse si sono organizzati spontaneamente dei gruppi di autodifesa militare che fronteggiavano le forze statali (i carabineros), con scudi improvvisati, molotov, bastoni, lancio di pietre, fionde e luci laser. La maggior parte dei manifestanti indossava occhialoni protettivi e maschere antigas. Queste bande, chiamate “Primera Linea”, erano costituite soprattutto da giovanissimi, anche minorenni, senza riserve, diseredati e combattivi. Molti di loro provenivano da istituti minorili, noti per maltrattamenti e abusi, e avevano quindi già sperimentato la violenza e la natura di classe dello Stato. Sapevano di rischiare la vita, ma d’altronde nell’ultimo decennio sono morti oltre 1.300 tra bambini e ragazzi affidati dai tribunali alle strutture del Servizio nazionale per i minori (Sename). Molti fra gli adolescenti di “Primera linea” sono minorenni passati dai Sename, “fuggitivi” che non hanno più nulla da perdere e si ribellano contro una società che ha voltato loro le spalle, stigmatizzandoli e abbandonandoli: sembra di rileggere i racconti della prima rivoluzione industriale. Formano barricate con sacchi ricolmi di pezzi di cemento, bloccano le strade con cassonetti e cartelli abbattuti, per respingere gli attacchi frontali dei carabineros. Centinaia di uomini e donne si posizionano nei punti strategici per impedire che i gas lacrimogeni, gli spari e i getti d’acqua mista a sostanze chimiche colpiscano il resto della mobilitazione pacifica. Gridano: “Acqua con bicarbonato! Acqua con bicarbonato!”. E le persone si avvicinano per farsi spruzzare il viso, per ricevere un respiro di sollievo, per essere soccorsi.

Ma la lotta ha prodotto anche altre organizzazioni spontanee, come la «Brigada dignidad», volontari che soccorrono i manifestanti feriti: con scudi di lamiera fregiati di croci azzurre, formano una barriera intorno al ferito e, al passaggio del loro carretto, i manifestanti si fermano e applaudono. Nelle manifestazioni, c’è anche un servizio spontaneo che fornisce pasti gratuiti, distribuiti su carrelli recuperati dai supermercati: lenticchie e patate non mancano mai. A volte arrivano contingenti di ciclisti con aiuti, altre volte sono loro che ne hanno bisogno.

Tutte le organizzazioni spontanee si coordinano tramite i social e messaggi via cellulare, non c’è una direzione centrale ma solo un coordinamento orizzontale, senza capi. C’è un chiaro rifiuto dei partiti e dei sindacati.

La cosiddetta «Zona Zero» attorno a Plaza Italia, al centro di Santiago, dove si sono concentrate le proteste, è un’area fantasma. Non c’è uno spazio bianco sui muri degli edifici, ogni centimetro è coperto di graffiti e murales di protesta. A terra non ci sono più marciapiedi e si cammina sul terriccio, poiché i manifestanti hanno usato le pietre come arma di difesa. La chiesa al centro della Zona Zero è stata data alle fiamme, come la maggior parte degli edifici circostanti. Il governo ha proclamato il coprifuoco e leggi eccezionali, ma i manifestanti sono comunque scesi in piazza in massa, con cortei di oltre un milione di persone che hanno sfidato le forze dello Stato e le sue leggi.

Tutta la classe politica, di destra e di sinistra, si è dimostrata completamente scollegata dalla realtà, in un paese dove vota appena il 48% degli aventi diritto. I governi di centro-sinistra, avendo governato il paese dal 1990 al 2018 con una sola interruzione di quattro anni (2010-14), sono ritenuti responsabili: ad esempio, i deputati dell’opposizione hanno votato con il governo l’aumento delle tariffe della metropolitana che hanno scatenato le proteste. Gli stessi partiti di opposizione hanno appoggiato le misure di repressione del governo attraverso il cosiddetto “Accordo per la pace e la nuova costituzione”, votando l’inasprimento delle leggi sulla sicurezza, la cosiddetta “legge anti-barricate”, che punisce gli scioperi con condanne fino a 5 anni di carcere. La legge è stata approvata anche grazie all’astensione della maggioranza del Partido Comunista.

Alcuni dei partiti della coalizione esercitano un vasto controllo sui sindacati nazionali, ma i lavoratori, dopo iniziali tentennamenti, a seguito del freno imposto da burocrati sindacali di vecchia data, hanno poi contribuito in maniera sostanziale alle proteste, come nel caso dei portuali e dei lavoratori delle miniere di Escondida, la più grande fabbrica di rame del mondo. Il comunicato ufficiale dei minatori chiede al governo e al Congresso di “farsi carico dei bisogni di gran parte della nazione e di conciliare un dialogo tra sindacati e organizzazioni sociali al fine di concordare un ‘giusto patto sociale’. […] unico modo per superare la crisi attuale” (sic!).

Ma il carattere interclassista del movimento emerge soprattutto dalla costituzione a livello nazionale del «Tavolo di Unità Sociale», una iniziativa che ha cercato di incanalare la protesta e i disordini sociali  e che riunisce organizzazioni come la Central Unitaria de Trabajadores (CUT, il principale sindacato del Paese), il Coordinamento Basta AFP (Amministratori Fondi Pensione, sistema previdenziale privato legato ai grandi gruppi finanziari), l’Associazione Nazionale dei Dipendenti Pubblici, la Confederazione Coordinatrice dei Sindacati e dei Servizi Finanziari, il Collegio dei Professori e altre federazioni di lavoratori, e a cui aderiscono organizzazioni studentesche, oltre ad avere il sostegno di alcuni rappresentanti e parlamentari del Frente Amplio – una coalizione di centro-sinistra con partiti di matrice liberale, ecologista e social-democratica – e alcuni rappresentanti del Partito Comunista del Cile. Il “tavolo sociale” ha convocato uno “sciopero generale” e ha presentato le seguenti richieste: la fine dello stato di emergenza, un nuovo sistema pensionistico che garantisce piena dignità, salari dignitosi che superino la soglia di povertà, 40 ore di lavoro settimanali, una nuova costituzione politica, ottenuta attraverso un’assemblea costituente, il congelamento delle leggi che favoriscono solo i più ricchi, niente più TAG (pedaggi), educazione dignitosa, dimissioni di Piñera. Il «Tavolo di Unità Sociale» ha proclamato il carattere civico delle sue proposte e invita a prendere parte a manifestazioni pacifiche, a non cedere ai tentativi del governo di porre fine alle mobilitazioni, a coordinare la protesta su scala nazionale e ad allargare le mobilitazioni. Il CUT, come i principali sindacati del resto dell’America Latina, è un classico sindacato di regime, con una prassi collaborazionista e “responsabile”, a tutela del capitale nazionale. Già nel 2014, per portare solo un esempio recente, aveva tradito la protesta dei portuali, firmando un accordo con il governo e interrompendo così uno sciopero di 22 giorni che pure aveva visto i lavoratori resistere a un assedio dell’esercito.

Ma la combattività non manca nel proletariato: nel giugno 2018, i lavoratori della miniera di rame di Chuquicamata (la seconda più grande del mondo), hanno scioperato per due settimane per ottenere aumenti salariali. Nel pieno delle proteste del 2019, fra i protagonisti dello sciopero ci furono proprio i portuali di Antofagasta, da cui transitano le esportazioni di rame (la principale risorsa del Cile, che da solo estrae il 28% della produzione mondiale). La CUT, quindi, coerentemente alla sua tradizione di controllore delle lotte, è stata trascinata nello sciopero dalla base e solo nei settori in cui la spinta spontanea era più forte, guardandosi però bene dal coinvolgere tutti i lavoratori iscritti e mai fungendo da organizzatore della lotta, piuttosto subendola. In quella che era una situazione esplosiva, la direzione del movimento operaio e dei partiti della sinistra hanno agito come retroguardia cercando in ogni modo di frenare il movimento. Ha limitato lo sciopero al proposito di “fermare le politiche liberiste del governo”, e s’è ben guardata dall’estendere la lotta e di protrarla nel tempo. La protesta diretta dai sindacati si è manifestata più con sfilate, più o meno pacifiche, oltre che con barricate e scontri: ma fondamentalmente s’è trattato di episodi spontanei e scollegati, senza un vero sciopero generale organizzato, senza una massiccia adesione nazionale con astensione dal lavoro per riuscire a costringere il governo ad accettare le condizioni.

L’emergenza sanitaria ha poi aggravato la condizione economica, ma non ha fermato del tutto le proteste: ad esempio, a maggio 2020, gli abitanti di El Bosque, un quartiere povero di Santiago alle prese (già prima del Covid-19) con gravi problemi di disoccupazione, sono scesi in piazza per protestare contro "la fame e la miseria", alzando barricate e lanciando oggetti contro la polizia, che ha usato cannoni ad acqua e lacrimogeni per disperderli. A un anno dall’inizio della protesta, poi, le piazze si sono di nuovo riempite di centinaia di migliaia di manifestanti, ma anche qui la predominanza piccolo-borghese del movimento, costituto soprattutto da studenti, ha rinchiuso le rivendicazioni entro limiti democratici, ossia la richiesta del referendum per la modifica della Costituzione e per “la realizzazione di una grande Costituente popolare in grado di porre al centro della discussione e del nuovo disegno istituzionale la costruzione di una società fondata su relazioni economiche e sociali solidali”.

Così, nonostante l’enorme sacrifico, la generosità e la combattività dimostrati dal proletariato, questo è stato l’epilogo interclassista dei due anni di protesta in Cile: un’Assemblea costituente votata dal popolo, una nuova Costituzione che supera quella scritta da Pinochet, un nuovo presidente, giovane e telegenico, che proviene dal movimento studentesco, con un programma socialdemocratico, che vince contro un candidato di destra e il suo programma “neoliberista”. Ci sono tutti gli elementi tipici dell’inganno socialdemocratico con cui la borghesia e le mezze classi cercano, come ultima risorsa, di gettare acqua sul fuoco dell’esasperazione proletaria, incantandola con promesse illusorie e incanalandola nell’alveo riformista e pacifico. Per questo hanno dato la vita i proletari caduti in piazza?

Anche questa esperienza dovrà essere percorsa fino in fondo e le promesse dovranno scontrarsi con la dura realtà di fame e sfruttamento, perché il proletariato possa aprire gli occhi, e solo allora, per esperienza, capirà di aver appoggiato un nemico di classe, altrettanto pericoloso del precedente. Noi abbiamo l’ingrato compito di dirlo chiaramente ai proletari, già da ora!

 

Da ottobre 2019, Ecuador

Quella di ottobre 2019 è stata un vera e propria rivolta popolare, durata oltre dieci giorni nella sua forma di violenza di strada, ma che non ha ancora trovato una soluzione nelle sue basi economiche (scriviamo a gennaio 2022). E’ stata innescata dall’emanazione da parte del governo del presidente Lenin Moreno del decreto 883 (il “Paquetazo”), che prevedeva la rimozione dei sussidi sui carburanti (i cui prezzi sarebbero aumentati di una media del 123%), il licenziamento di 10mila dipendenti del pubblico impiego, il drastico taglio dei giorni di ferie, la destinazione di un mese di stipendio al risanamento del debito e misure di agevolazione per importazioni di macchinari per l’industria e il settore agricolo. Queste erano d’altronde le condizioni poste dall’FMI per la concessione di un prestito necessario a ripianare i debiti del paese, in seguito a un accordo del febbraio 2019.

L’anno precedente il governo aveva assicurato l’esenzione fiscale per le banche e per le 50 più grandi imprese del paese, che rappresentano l’80% delle entrate per le casse dello stato. L’evasione fiscale aveva raggiunto i 4600 milioni di dollari e il debito estero ad aprile 2018 i 59 miliardi di dollari. Il pacchetto di riforme concordato con l’FMI prevede anche la privatizzazione di imprese pubbliche. La crisi che scuote l’Ecuador è un déjà-vu. L’esito no, è stato diverso dal solito per l’Ecuador… La piazza questa volta ha reagito. In un comunicato congiunto del presidente Lenin Moreno e dei leader della protesta, il governo si impegnava a ritirare il decreto che eliminava i sussidi al carburante, e, in cambio, i manifestanti dovevano lasciare le piazze.

In Ecuador, ai tempi delle vacche grasse (alti prezzi delle materie prime), emerse un governo populista: spendeva e spandeva, prometteva… indebitandosi, elargiva assistenza e protezione. Viva la “giustizia sociale”, gridava tra gli applausi del pueblo! “Abbasso l’impero, morte al capitalismo!”. Forte di tanti successi, tronfio di superiorità morale, proclamava addirittura la revolución. Tra luci e ombre, successi elettorali e proteste soffocate, nel decennio di Rafael Correa, tecnocrate cristiano, il dissenso la pagò cara. Tutto era basato sull’economia estrattiva: esportazione di petrolio e oro; e poi banane, gamberetti, altri prodotti agricoli primari. Quando poi le vacche sono smagrite (fondamentalmente con la crisi dovuta ai bassi prezzi del petrolio), i creditori esigenti hanno bussato alle porte. Le casse piangono, e il “popolo” sbuffa e protesta: perfino i gruppi indigeni, sulle cui ali Correa aveva dapprima poggiato il consenso, si sono stancati dei suoi soprusi.

Così fu dal 2013, quando l’economia si entrò in affanno, che s’inceppò l’ingranaggio del consenso. Come distribuire, se non si  produce? Ci si accorse che lo Stato spendeva molto più di quanto incassava. I sondaggi minacciavano grandine, e Correa corse ai ripari: meglio non profittare della riforma costituzionale ad hoc ottenuta, della rielezione illimitata; meglio cedere per un po’ lo scettro.

Chi meglio del vice per tenergli caldo il posto e rimettere la casa e le casse in ordine? Fu così che Lenin Moreno diventò presidente. A stento: 51% contro 49% al ballottaggio. Lui era la “sinistra”, di là la “destra”: un paese spaccato in due, tra fazioni borghesi in lotta tra loro; il tipico paesaggio dei cicloni populisti, delle mezze classi in agitazione di fronte alla proletarizzazione. Con Moreno al potere, piazzato su un vulcano sul punto di esplodere, il copione non cambia: corruzione, deficit ingestibile, debito da rinegoziare, ceti medi infuriati che reclamano democrazia e benessere; stampa e media sul piede di guerra dopo anni di persecuzioni; movimenti sociali e gruppi indigeni ansiosi di recuperare l’autonomia minacciata...

Intanto, tutt’intorno il mondo cambiava e premeva: travolto dalla crisi del petrolio, il fronte chavista crollava, i suoi aiuti sparivano, i venezuelani in fuga bussavano ai confini. Così, in un primo tempo, Moreno è stato costretto a fare dietrofront: via la museruola ai media, via le proibizioni agli scioperi, via le inchieste prima bloccate, via chavisti, cubani e compagnia. Quando il referendum indetto per riformare la Costituzione stravinse, sembrò avere il vento in poppa. Ma rimaneva il nodo economico: deficit, spesa pubblica, sovvenzioni, prezzi distorti – bombe a orologeria sotto il letto. Come disattivarle?

Prima si è cercata la solita soluzione: i prestiti del FMI e le sue condizioni; per scoprire presto che così si dava l’innesco a un’altra bomba, quella sociale. E allora il dietrofront. Le giornate di rivolta a Quito come le altre proteste recenti nel resto dell’America Latina si sono caratterizzate per la violenza della repressione (10 morti, 1300 feriti), ma anche per la rabbia e determinazione di chi è sceso in piazza. Hanno svelato anche un lato oscuro che si pensava fosse stato rimosso, quello del razzismo verso gli indigeni, considerati dalle classi urbane più agiate (la borghesia), e anche da settori della sinistra sudamericana (le mezze classi), come incapaci, immaturi, facilmente manipolabili a scopi politici, o indegni di sfilare nelle strade delle città – come dichiarò Jaime Nebot alla vigilia della marcia a Guayaquil: «Restatevene nel páramo [l’altopiano andino], se verrete qua sarà la guerra”. La stampa nazionale non è stata da meno, oscurando le proteste e trattandole come un cancro da estirpare, gli indigeni come dei parassiti, un’infezione da combattere ed espellere. Dall’altra parte, invece, la grande solidarietà degli esclusi di tutto il paese, di oggi come di ieri, che hanno visto nella mobilitazione indigena la propria mobilitazione. L’Ecuador di oggi è tutto questo, un paese in bilico.

I sindacati, invitati a un tavolo di negoziato, hanno prima indetto una grande mobilitazione per il 30 ottobre. Ma, una volta incassato l’accordo iniziale con gli indigeni, Moreno ha pensato bene di non presentarsi all’appuntamento con i rappresentanti dei lavoratori – che hanno revocato la mobilitazione annunciata… Come al solito.

La luna di miele tra Moreno e indigeni è durata poco: i leader indigeni della protesta sono tutti a rischio di condanna per sedizione e sequestro di persona. Alla dichiarazione dello stato di emergenza e con imposizione del coprifuoco, gli indigeni avevano risposto con il proprio stato di emergenza e il “trattenimento” di decine di agenti di polizia. Gli scontri hanno causato la morte di 8 manifestanti, il ferimento di un migliaio e l’arresto di altrettanti. Gravissime le violenze da parte delle forze di polizia.

L’ostinazione del governo Moreno nel perseguire penalmente i leader della rivolta, insieme all’inesistente volontà di rimettere in discussione i fondamenti dell’accordo con l’FMI, potrebbero riportare gli indigeni nelle piazze. Del resto, il levantamento, la rivolta, è solo sospeso. Un movimento indigeno contadino, che come in Brasile riesce a portare al cuore della metropoli le proprie rivendicazioni, esce rafforzato, fortemente connesso e in empatia con la gran maggioranza della popolazione più povera del paese, il proletariato urbano.

Nelle elezioni presidenziali del 2021, un banchiere è risultato presidente: la destra sembra rafforzarsi, ma cresce il fronte popolare, indigeno e contadino; nessuno degli osservatori scorge il proletariato mettersi in movimento, eppure nessun risultato elettorale potrà arrestarne il ritorno, prima o poi, alla lotta aperta.

Anche se, allo stato attuale, solo due politiche sono sulla scena – quella cosiddetta neoliberista e quella del “socialismo del XXI Secolo”, o dell’estrattivismo progressista – , ambedue però si scontrano, alla radice, con un fronte interclassista che si è riversato per le strade e le piazze del paese: contadini, mezze classi, proletari, indigeni e no.

 

Da ottobre 2019, Bolivia.

Le proteste prendono l’avvio dopo le elezioni del 20 ottobre 2019, e si sono poi intensificate in novembre, con un significativo aumento delle tensioni, come il sequestro e la violenza da parte di gruppi paramilitari dell’opposizione contro Patricia Arce Guzmán, sindaca di Vinto, appartenente al MAS (Movimento Al Socialismo, il partito di governo). Dopo tali fatti, il presidente Evo Morales ha lanciato un appello chiamando la popolazione alla resistenza, convocando la mobilitazione pacifica in difesa della democrazia e della pace e denunciando un golpe in corso in Bolivia.

Gli scontri via via aumentano, tra sostenitori del presidente e gruppi legati all’estrema destra (i Comitati Civici di Santa Cruz), che prendono il sopravvento nella leadership delle proteste e del tentativo di golpe, chiamando al proprio fianco l’esercito. Le forze armate dichiarano che non interverranno, in attesa di una soluzione politica. Questa confusione è il segno della polarizzazione estrema, presentata come scontro per la democrazia e contro la corruzione: sindacati, movimenti e organizzazioni legate al MAS presidiano le città di La Paz e di El Alto e diverse aree del territorio nazionale – una polarizzazione che riporta alla mente eventi vissuti in Bolivia nel decennio passato. Diversi settori, minatori, funzionari e comunità indigene hanno manifestato a sostegno del governo, mentre l’opposizione ha mantenuto e continuato le manifestazioni contrarie.

Il 12 novembre 2019, in un periodo già segnato da numerosi capovolgimenti di fronte, Jeanine Anez, rappresentante del partito di destra Movimiento Democrata Social, diviene il 76° presidente della Bolivia. Di fatto, la sessione dell’Assemblea legislativa si era aperta senza la presenza dei deputati del Movimento Al Socialismo, partito dell’ex presidente Evo Morales. La giornata era cominciata con la morte del Tenente Colonnello della Polizia dell’Unità Tattica per le Operazioni Speciali (Utop) Heybert Yamil Antelo, investito da un veicolo in fuga durante uno scontro a fuoco nella città di El Alto. La morte del Colonnello è solo l’apice di una escalation di violenza che si protrae per giorni, lasciando morti e numerosi feriti per strada.

Il rigurgito di violenza ha avuto il suo picco a novembre 2019, a seguito dell’atto di rinuncia alla presidenza di Morales, ed è culminata nelle zone popolari di La Paz (Calle Eloy Salmon e Mercato di Calatayud), con saccheggi e l’incendio di 64 autobus nel deposito Pumakatari e della residenza dell’attuale rettore dell’Universidad Mayor de San Andrés: atti di violenza che la destra ha imputato alle frange violente del popolo di El Alto, presumibilmente simpatizzante del MAS, che rifiuta la nomina della Anez e non intende scendere a compromessi col nuovo governo. Da allora, nel paese si moltiplicano gli scontri fra sostenitori di Morales, oppositori, polizia ed esercito, con decine di vittime, assalti alle sede di partiti e istituzioni, distruzione di beni pubblici e privati, assedio alle abitazioni di dirigenti ed esponenti politici, sino ai massacri di Senkata e Sacaba (22 morti e 198 feriti). Dopo un anno di scontri e crisi economica, sanitaria e sociale, il MAS torna al potere con le elezioni di ottobre 2020.

Le forti tensioni sociali sono state alla base del ritiro della fiducia a Morales da parte delle Forze Armate e della polizia, così come della partenza di Morales e dell’insediamento di un governo transitorio, dominato dalle forze più radicali dell’opposizione di destra. E dopo un anno difficilissimo, tra polarizzazione politica e sociale, crisi economica, irruzione della pandemia con conseguente incapacità del governo transitorio di gestire la situazione, il MAS di Morales è tornato al governo del paese: ma senza Morales (ancora in esilio in Argentina).

I paesi del blocco politico-economico dell’ALBA (Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America - Trattato Commerciale dei Popoli), in primo luogo Cuba e Venezuela, cui si aggiungono il Nicaragua e una serie di piccoli Stati caraibici, hanno ovviamente salutato la vittoria del MAS come espressione del “rifiuto popolare del golpe contro Morales”. Tuttavia, le forze politiche che governano i paesi dell’ALBA, e la Bolivia stessa, hanno visto messa in discussione la propria forza, credibilità e autorevolezza. Anche la religione viene utilizzata come strumento di consenso elettorale, secondo una pratica molto diffusa in America Latina e indipendentemente dal colore politico del partito al potere: basti guardare a Bolsonaro in Brasile o a Ortega e Murillo in Nicaragua. Ma la polarizzazione politica può essere letta, in realtà, solo come espressione della contraddizione degli interessi di classe e tra città e campagna. La frattura sociale ed etnica contrappone il ceto medio e la borghesia che si riconoscono come “bianchi” all’altra grande parte del paese costituita dalle popolazioni indigene, dalle masse contadine, dai coltivatori di coca. Il proletariato, di qualsiasi nazionalità o religione, viene ancora utilizzato per scontri che non lo riguardano, ancora illuso dalle briciole concesse dalla rendita petrolifera. Certo, ci può essere un legame tra lotte dei contadini contro il capitale nazionale e internazionale e prospettiva della rivoluzione proletaria, ma ciò può avvenire solo sotto la guida del proletariato, mentre ora i rapporti di forza sono invertiti: sono i contadini ad animare le proteste, e i proletari al limite aderiscono. Le prospettive economiche mostrano però la necessità del proletariato di tornare a lottare per i suoi interessi, per difendere le sue condizioni di vita e di lavoro.

Il presidente in carica, Arce, ha guidato il Ministero dell’Economia dal 2004, con risultati considerati molto positivi dagli addetti ai lavori sia sul piano economico sia per la ricaduta sociale della nazionalizzazione dei settori-chiave degli idrocarburi e delle telecomunicazioni: l’aumento annuo del PIL di circa il 4,9% si diceva fosse accompagnato da un netto miglioramento di tutti gli indicatori sociali relativi a povertà, speranza di vita alla nascita, scolarizzazione, salute. Fino a quando, alla fine del 2019, sono esplose le proteste, cui è seguito un anno di scontri.

Oggi, la Bolivia si trova di fronte ad alcune criticità di enormi dimensioni. In primo luogo, si tratta di invertire la crisi economica dell’ultimo anno, che ha aggravato le condizioni di vita in un paese in cui il 70% dei lavoratori opera nel cosiddetto settore informale, lavoro nero, e ciò spiega l’effetto destabilizzante della pandemia. La crisi ha colpito anche le attività di settori trainanti come l’industria estrattiva, mentre si stanno esaurendo le riserve petrolifere. Il problema è quindi non solo di uscire dalla crisi del Covid-19, ma anche del vicolo cieco di un modello economico basato ancora una volta sulle materie prime, al punto da provocare conflitti già dai tempi del governo Morales con le popolazioni rurali e indigene – base storica del MAS – a causa di progetti di sfruttamento delle risorse naturali ad alto impatto ambientale (disboscamento e incendi in Amazzonia, piani di intervento nell’area di Uyuni per l’estrazione del litio).

Nel breve periodo, come rispondere agli enormi problemi legati all’impatto sociale della pandemia? I sussidi familiari e la sospensione del pagamento dei servizi domestici decretati dal governo Añez non hanno impedito che il commercio in nero e il lavoro in nero proseguissero nelle strade e nelle piazze del paese, come unica forma di sopravvivenza per molte famiglie mono-genitoriali (circa il 15% delle famiglie boliviane è guidato dalla sola madre, percentuale che aumenta nelle fasce a basso reddito). Il forte deficit fiscale e la questione della moneta nazionale, che molti analisti ritengono sopravvalutata del 40%, costituiscono l’innesco di un’altra bomba pronta ad esplodere. Riuscirà il governo (qualunque governo, di qualsiasi colore) a diversificare la base produttiva in modo che il paese non continui a dipendere esclusivamente dalle risorse naturali in rapida diminuzione? Riuscirà a farlo senza produrre altre fratture sociali, in un contesto già esplosivo? Finora, nessun governo del continente sudamericano c’è riuscito.

 

Da novembre 2019, Colombia.

Possiamo considerare la Colombia come paradigma delle contraddizioni dell’America Latina, per due motivi: 1) è ancora oggi dipendente dalle materie prime e quindi si trova sotto il tallone della classe redditiera e dell’imperialismo; 2) la crisi pandemica ha in un primo tempo arrestato le rivolte, ma poi le ha esacerbate. Come tutti gli altri paesi latinoamericani, la Colombia è un paese potenzialmente ricco di risorse, ma imprigionato in una realtà economica e sociale estremamente povera, determinata dai rapporti di produzione capitalistici. Possiede, infatti, molte, abbondanti risorse minerarie e forestali e l'agricoltura, favorita dalla varietà dei terreni e dalle condizioni climatiche, consente una ben diversificata gamma di prodotti. Una spaccatura netta separa una ristretta borghesia creola, giunta ormai a un altissimo livello di benessere d'impronta nettamente nordamericana, e la vasta massa dei contadini e del sottoproletariato urbano (anche “bianco”), quotidianamente impegnata nella lotta per la sopravvivenza. L'alternanza al potere tra fazioni borghesi di varia tendenza non ha inciso sul quadro generale. Il Paese è incatenato al “neocolonialismo” delle multinazionali e alla pesantissima dipendenza dagli Stati Uniti, da cui provengono gran parte delle importazioni e soprattutto la maggior parte dei capitali investiti in un Paese costretto a reggersi sugli interventi stranieri data la scarsità dei propri mezzi finanziari. Circa l’1% della popolazione detiene il 40% della ricchezza, mentre il “coefficiente di Gini” – che misura la disuguaglianza sui redditi – segna lo 0,55 (il massimo è 1), tra i più alti del mondo. E non è tutto: quando la misurazione avviene dopo aver pagato le tasse, l’indice schizza a 0,6 e oltre. Il che significa che il sistema impositivo aumenta le disuguaglianze invece di ridurle.

La povertà diffusa ha creato un ambiente sociale ancora più infiammabile con l’arrivo di milioni di profughi venezuelani abbandonati nelle periferie. Il governo stava cercando di varare nuove politiche di sicurezza, ossia leggi di maggiore controllo sociale, in chiave preventiva, oltre a misure legislative per rendere più flessibile il mercato del lavoro, indebolire i fondi pensione pubblici e aumentare l’età per la pensione. Su queste basi, le masse sono state facilmente sensibili al contagio proveniente dalle proteste in atto in tutti i paesi vicini, riversandosi nelle strade a centinaia di migliaia. Seppure le prime manifestazioni, di novembre 2019, siano iniziate in modo pacifico, il governo, sempre con azione preventiva, ha mostrato subito i muscoli, con enorme dispiegamento di forze, provocando la reazione della piazza. Le autorità hanno dichiarato che i soldati sono stati dispiegati nella capitale e in altre città per “proteggere infrastrutture strategiche”: il risultato è stato di tre morti e il ferimento di altre 273 persone, tra cui 151 agenti della forza pubblica. Gli incidenti si sono verificati in particolare nel centro di Bogotà, dove i dimostranti hanno lanciato pietre e oggetti, e la polizia ha risposto con lacrimogeni. Gli agenti hanno anche sparato granate stordenti contro le migliaia di studenti che hanno marciato verso l’aeroporto internazionale. A Buenaventura, la polizia è intervenuta per frenare il saccheggio di un supermercato e due manifestanti sono stati uccisi. Un’altra persona ha perso la vita nel municipio di Candelaria. Gli studenti chiedevano più fondi per l’istruzione, mentre le comunità indigene rivendicavano più protezione per le aree remote, dove 134 attivisti sono stati assassinati da quando Duque è arrivato al potere nell’agosto 2018. A scendere in strada è stato anche qui un fronte interclassista di sindacati, studenti, partiti d’opposizione e organizzazioni indigene. Le proteste si sono svolte anche a Cali e Medellin. Il Comitato per lo sciopero nazionale ha chiesto un incontro immediato con Duque, per discutere le rivendicazioni dei manifestanti: “Chiediamo ai cittadini di restare pronti ad agire di nuovo nelle strade, se il governo continuerà a respingere le nostre domande”.

Per cercare di riportare l’ordine le autorità di Bogotà hanno dichiarato il coprifuoco: la capitale è sembrata quindi tornare alla normalità, ma numerosi manifestanti hanno sfidato il provvedimento e le proteste, accompagnate dallo sciopero nazionale, sono proseguite un mese. Più che per la durata, il significato più profondo è consistito nel fatto che, per la prima volta da decenni, si è avuta una mobilitazione di massa spontanea: per anni, le proteste erano state monopolizzate e controllate da gruppi di guerriglia armati specializzati, come le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia - Esercito Popolare) e l’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale). Lo sciopero ha invece rappresentato il ritorno di un vero scontro di piazza con protagonisti soprattutto il proletariato e le masse di senza riserve: solo la pandemia ha riportato la “normalità”, con il coprifuoco per motivi “sanitari”.

Intanto, il riformismo armato delle FARC ha portato avanti il suo processo di istituzionalizzazione, stipulando accordi con il governo. Durante l'emergenza sanitaria, i gruppi armati hanno preso il controllo di intere regioni, imponendo le regole per il contenimento del Coronavirus e facendolo rispettare a suon di coprifuoco, violenze e omicidi. Ma non ci sono solo le FARC: i principali gruppi armati illegali che controllano i territori colombiani sono l’ELN (l’ultima grande guerriglia pseudo-comunista presente in Colombia), alcune dissidenze delle FARC che non sono entrate nel processo di pace, e il Clan del Golfo, un cartello del narcotraffico internazionale che opera spesso congiuntamente con vari gruppi paramilitari come le Autodefensas Gaitanistas de Colombia, a volte operanti sotto il generico nome di Aquile Nere, che rivendicano un’ideologia di estrema destra – una confusione di nomi e ideologie, che dopo la firma degli accordi di pace ha creato una situazione caotica e disordinata, con vari gruppi che agiscono autonomamente senza alcun tipo di comprovato comando centrale nazionale.

Ma questa “normalità”, ottenuta con una cappa di piombo e terrore, non è durata molto: le masse si sono di nuovo riversate in piazza, prima a settembre 2020 e poi tra la primavera e l’estate del 2021. Nel settembre, le esplosioni di rabbia sono state semplicemente il naturale evolversi di un conflitto sociale di lunga data, ma la pandemia ha reso più evidente la situazione già in atto in termini di povertà, esclusioni, immense periferie piene di sfollati, il conflitto armato in atto tra bande, la guerra ai poveri, la guerra contro i contadini da parte dei paramilitari nelle campagne, e quindi ondate di migrazioni di poveri bloccati nelle periferie... I proletari e sottoproletari che di solito cercavano di sopravvivere grazie all’economia sommersa per mesi sono stati criminalizzati solo per essere usciti di casa a comprare del cibo: così, le masse di senza riserve stavano letteralmente morendo di fame. La brutalità e la repressione – le prigioni sono piene di proletari e sottoproletariato – hanno poi esasperato gli animi (nel carcere di La Modelo, lo Stato ha massacrato 23 prigionieri rei di avere protestato contro le condizioni miserabili e la mancanza di precauzioni contro la pandemia). Vanno comunque segnalate le azioni di solidarietà dei contadini nei confronti del proletariato urbano, con il rifornimento di cibo a interi quartieri abbandonati dallo Stato.

Ma la misura era ormai colma. La scintilla che ha riacceso l’incendio assomiglia a tanti altri episodi simili di repressione borghese: all’alba del 9 settembre 2020, nel quartiere di Engativà, a Bogotà, due agenti della Polizia Nazionale fermano per strada Javier Ordóñez, avvocato di 44 anni, padre di due bambini. Davanti a diversi testimoni che hanno filmato i fatti, i poliziotti lo colpiscono ben undici volte con il Taser, mentre si trova schiacciato a terra dal peso dei loro corpi che gli impedivano di respirare. Nonostante l’avvocato abbia più volte implorato gli agenti di fermarsi e abbia chiesto ripetutamente aiuto e i testimoni stessi gridassero “Fermatevi! Basta, fermatevi!”, mentre riprendevano la scena, i poliziotti hanno continuato a picchiarlo per poi portarlo in un Centro di Attenzione Immediata (CAI), distaccamento territoriale delle caserme della polizia presente in tutti i quartieri della capitale colombiana: di lì, è stato trasportato in ospedale, dove è arrivato già morto a causa delle violenze subite. Si è fatto (giustamente!) molto clamore intorno all’analogo caso di George Floyd negli Stati Uniti, ma del caso di Javier Ordóñez si è saputo poco o nulla.

Poche ore dopo i fatti, sono scese in piazza spontaneamente prima centinaia e poi migliaia di persone, principalmente nella capitale Bogotá, ma anche a Cali e Medellin e in diverse altre regioni del paese: giovani e giovanissimi che sin dal pomeriggio si sono autoconvocati per manifestare la propria rabbia ed indignazione davanti ai CAI, in ogni quartiere, con oltre ventisei mobilitazioni nella sola capitale, attaccate violentemente dalla polizia. La rabbia esplode così per le strade e trasforma le mobilitazioni in una rivolta di massa. Nei quartieri popolari della località di Suba, nel nord della capitale, fino a Soacha nel profondo sud, decine di caserme vengono assaltate e incendiate. Gli scontri continuano fino a tarda notte. I combattenti di strada hanno preso di mira soprattutto stazioni di Polizia (con la distruzione di 56 CAI) e le banche: l’odio di classe si rivolge istintivamente verso i pilastri del dominio borghese e sfoga la rabbia accumulata verso gli organi di repressione dello Stato. E’ seguito un vero e proprio massacro, con colpi di arma da fuoco sparati in modo indiscriminato sui manifestanti e, così come avvenuto a novembre 2019, una vera e propria caccia all’uomo nei quartieri. In almeno due zone diverse di Bogotá, sono state denunciate interruzioni alle forniture di elettricità, con interi quartieri lasciati al buio per favorire la repressione e poliziotti in moto che sparano contro chiunque si trovi per strada. Il giorno dopo, il Ministero della Difesa ha annunciato l’invio di 300 soldati a presidiare le strade della capitale, oltre a 750 nuovi effettivi e 850 poliziotti trasferiti a Bogotá da altre caserme del paese. Ma nonostante la militarizzazione, il 10 settembre altre manifestazioni scoppiano spontanee in tutto il paese. La polizia attacca le manifestazioni con gas lacrimogeni e colpi di pistola sparati anche da agenti in borghese, cariche e camionette militari sono lanciate contro i manifestanti inseguiti nelle vie, si spara anche contro le finestre delle case, si sfondano porte e finestre per inseguire i manifestanti: centinaia di feriti, 138 arrestati, tra cui diversi minori... Ma le barricate compaiono nelle strade delle città colombiane anche il giorno seguente. Il bilancio finale delle vittime sarà di 11 morti, tutti giovanissimi, tra i 17 e i 27 anni. Secondo i dati diffusi dalle organizzazioni per i diritti umani, sono stati oltre 66 i feriti da armi da fuoco, e 379 i feriti complessivi.

La protesta si riaccende il 28 aprile del 2021, in risposta a un ennesimo attacco alle condizioni di vita del proletariato. Il presidente Duque annuncia una riforma del fisco, denominata “Legge di solidarietà sostenibile“, che avrebbe aumentato l’Iva al 19% anche a luce, acqua, gas, apparati elettronici e beni di prima necessità, e ampliato la base dei contribuenti, andando così a creare seri problemi al proletariato e anche alle classi medie a basso reddito, con l’introduzione della tassazione per chi prima era esentato. La riforma arrivava nel peggior momento possibile: la Colombia, così come molti altri Paesi dell’America Latina, si trovava impantanata in una disastrosa situazione economica e sociale, aggravata dal Covid, in piena terza ondata. Moltissime attività commerciali e industriali erano già fallite, la disoccupazione era in aumento (16,8% nel mese di marzo 2021): si pensi che l’economia del paese era in calo del 7% rispetto al già tragico anno precedente. Il divario tra ricchi e poveri nel Paese è sempre più ampio, con una classe media che tende a proletarizzarsi, una disoccupazione al 16% e il 42% dei colombiani che viveva al di sotto della soglia di povertà. In quella situazione, la rabbia è stata alimentata anche dalla notizia dell’aumento delle spese militari, con l’annuncio da parte del governo dell’acquisto di 24 aerei da guerra dalla nordamericana Lockheed Martin, per una spesa di circa 14 miliardi di dollari.

Nella città di Cali, dove sono iniziate le proteste, si è passati da un indice di povertà del 21,9% nel 2019 al 36,3% nel 2020. Su una popolazione di 2.2 milioni di abitanti, ben 934 mila vivono in condizioni di povertà e con un “indice di povertà estrema” passato dal 5% del 2019 al 13% del 2020. In seguito alle proteste, il governo ha annunciato il ritiro della riforma. Le proteste sono però proseguite. Nella città di Cali sono stati gli studenti i primi a scendere in strada per manifestare contro la nuova riforma fiscale e in pochissimo tempo la protesta si è allargata al resto della popolazione e in tutte le grandi città colombiane: Bogotà, Medellin, Cartagena, Barranquilla, Bucaramanga. Il governo ha scatenato contro i manifestanti esercito e polizia in assetto anti-sommossa, che hanno sparato ad altezza d’uomo, inseguendo e massacrando i dimostranti scesi in strada. Difficile fornire numeri precisi, ma si parla di almeno una ventina di dimostranti uccisi, circa 800 feriti, 87 “desaparecidos” e quasi 500 arresti. I social sono serviti a mobilitare la piazza e documentare gli abusi della polizia, in particolare di quella in moto che aggredisce i manifestanti: immagini che non hanno nulla da invidiare a quelle dei colectivos in moto del regime venezuelano di Maduro. Tutti gli Stati nazionali, che siano pro o contro l’imperialismo americano, si assomigliano comunque nella loro azione antiproletaria!

La rabbia covata in anni di malessere è esplosa incontrollata: 47 stazioni del trasporto pubblico sono state distrutte o date alle fiamme da manifestanti provenienti dai quartieri più poveri, i cosiddetti “barrios”. Numerosi anche i supermercati, i bar e i ristoranti presi d’assalto e saccheggiati. Nel centro della città, molti commercianti hanno tentato di difendere le proprie attività con bastoni e armi da fuoco. Le proteste e gli scontri violenti tra manifestanti e forze dello Stato sono proseguiti fino metà giugno. Lo stato ha schierato 7000 militari, centinaia di infiltrati in borghese che sparano ad altezza d’uomo e la creazione di veri e propri centri di tortura. Il bilancio finale della primavera di sangue in Colombia sarà di 28 vittime di stupro, 80 morti, 83 persone che hanno perso un occhio a causa dei proiettili di gomma, centinaia di persone scomparse, di cui i familiari non hanno più notizie, 1.468 casi di violenza fisica.

 

Da settembre 2020, Costa Rica.

La relativa calma del Costa Rica, comunemente identificata come un’oasi di stabilità, pace e giustizia sociale (un’eccezione tra i paesi del Centro America!) è stata spezzata dall’inesorabile incedere della crisi economica. L’economia del Costa Rica si trova in uno dei momenti peggiori degli ultimi 40 anni: il deficit fiscale per il 2020 ha raggiunto il 10% del PIL e la disoccupazione è aumentata dal 12% al 24% dopo l’arrivo del Coronavirus. La pandemia ha aggravato la crisi in un Paese in cui il turismo è uno delle principali fonti di reddito.

In questa polveriera, già saturatasi di gas infiammabile con l’avanzare della crisi economica, la scintilla è stata la proposta di aumento di tasse e il blocco degli stipendi dei dipendenti pubblici, in seguito ad un prestito richiesto dal governo al Fondo Monetario Internazionale. Da fine settembre 2020, si è assistito dunque a dure proteste, prolungatesi per un mese con un’evoluzione sempre più violenta, fino al verificarsi di qualcosa di insolito per il Costa Rica: l’incendio di veicoli e gli scontri con bastoni e gas lacrimogeni tra polizia e manifestanti.

La proposta di accordo del governo con il FMI prevedeva un prestito di 1,75 miliardi di dollari e la vendita di beni dello Stato, ma è stata temporaneamente ritirata dal governo dopo pochi giorni dall’inizio delle proteste, che però sono continuate con scontri sempre più aspri con la polizia. I manifestanti chiedevano infatti al governo un impegno a rinunciare anche per il futuro agli aiuti del FMI e il rilascio dei manifestanti arrestati. Davanti al rifiuto del governo le tensioni nelle strade si sono acuite ed allargate: secondo i dati ufficiali, 114 sono stati gli agenti di polizia feriti e 141 i manifestanti arrestati. Le proteste hanno bloccato le principali vie di comunicazione del paese e soprattutto il collegamento con Panama, fondamentale via di scambio delle merci internazionali. In questo modo, i manifestanti hanno dimostrato come e dove occorre attaccare la borghesia per riuscire a sconfiggerla. L’escalation violenta ha portato i rappresentanti più moderati a prendere le distanze dal movimento. Da parte loro, i manifestanti replicano di essersi solo difesi e di aver solo reagito in seguito alle violenze e provocazioni della polizia, che ha infiltrato il movimento con agenti provocatori e s’è accanita contro donne e anziani in piazza. In alcuni casi, comunque, nonostante la forza di repressione poliziesca, si è assistito a vere e proprie lapidazioni contro schieramenti di polizia, impotenti di fronte alla violenza e decisione della massa. Perché la violenza è un altro elemento comune di tutte le proteste a cui abbiamo assistito nel mondo, ed indica anche in prospettiva la polarizzazione e il dividersi del movimento in merito al suo utilizzo – polarizzazione che avviene come riflesso della composizione sociale del movimento e degli interessi divergenti delle classi che lo compongono.

 

Da novembre 2020, Guatemala.

Le manifestazioni del 21 novembre 2020, le più partecipate degli ultimi anni, sono state organizzate per protestare contro l'approvazione della legge di bilancio per il 2021 varata dal governo della destra borghese di Alejandro Giammattei. La legge contestata prevedeva fra l’altro tagli alla sanità e all’istruzione, proprio mentre il Paese era alle prese con la pandemia, e favoriva invece gli investimenti a sostegno dei grandi progetti infrastrutturali, andando dunque ad avvantaggiare le grandi imprese, ossia il grande capitale. Tutto ciò ha scatenato una reazione che si è spinta fino a incendiare il Parlamento.

Anche qui, i motivi reali della rabbia dei guatemaltechi nei confronti del governo sono ben più profondi della recente legge di bilancio. In un paese dove il 59,3% della popolazione di quasi 17 milioni di abitanti vive in povertà e la malnutrizione infantile colpisce quasi la metà dei bambini sotto i cinque anni, le misure di austerità della manovra finanziaria hanno scatenato la rabbia popolare, seppure ancora istintiva e senza una fisionomia definita. Un tale livello di violenza urbana non era mai stato raggiunto negli ultimi anni. Ai feriti del 21 novembre – più di trenta, dei quali due hanno perso un occhio – si aggiungono un numero indefinito di persone che hanno subito violenze o lesioni nella giornata di sabato 28 novembre e due manifestanti arrestati. La mobilitazione ha confermato di non essere solo la reazione all'approvazione della Legge Finanziaria 2021 – che nei giorni immediatamente successivi alla manifestazione del 21 novembre era stata bloccata –bensì il risultato di una generalizzata esasperazione. Le proteste si sono protratte fino a tutto dicembre, con il governo che ha infiltrato le manifestazioni per poter giustificare una reazione ancora più dura e la militarizzazione del Paese. Ma le proteste si sono riaccese anche nell’estate del 2021.

Inoltre, attraverso il Guatemala, è passata una grande ondata migratoria partita dall’Honduras: spinte da povertà, disoccupazione e dalla perdita dei beni e della casa, anche a causa dei due uragani Eta e Iota abbattutisi in Honduras a dicembre, molte migliaia di persone – si stima fra le 6.000 e le 9.000 – hanno deciso di mettersi in cammino a piedi e con mezzi di fortuna verso gli USA. La polizia del Guatemala ha cercato di bloccarli, fonti USA hanno fatto trapelare la notizia di accordi con il governo guatemalteco per rinchiuderli in campi profughi in cambio di milioni di dollari: ma naturalmente il governo ha negato. Decine di migliaia di migranti hanno comunque raggiunto la frontiera con gli USA e continuano a costituire come altri esempi recenti, un forte elemento di instabilità alle porte dell’imperialismo dominante [26]. Avanti, barbari!

 

Gli elementi comuni delle rivolte in America Latina. Gli sviluppi futuri.

Spontaneità iniziale della lotta.

Come abbiamo già accennato nella Premessa generale, la maggioranza degli osservatori sono caduti vittime della loro stessa superficialità. Non si aspettavano uno scoppio di rabbia delle masse e ogni volta, hanno visto solo le motivazioni contingenti, superficiali, confondendo la scintilla particolare con le vere cause che avevano reso l’ambiente sociale esplosivo: l’aumento del costo del biglietto dei trasporti, il rincaro della benzina, la manovra finanziaria, uno scandalo legato alla corruzione... solo epifenomeni con radici più profonde. Solo pochi osservatori si sono chiesti quali fossero le cause scatenanti comuni di rivolte avvenute quasi contemporaneamente e spontaneamente in tutto il sub-continente: i più “intelligenti” arrivano a parlare di “diseguaglianze”, alla base di questo esplodere spontaneo e diffuso, salvo poi essere incapaci di spiegare e inquadrare storicamente questa diseguaglianza e le sue determinanti dentro un modo di produzione, dentro uno scontro tra classi. Al limite, arrivano a parlare di... crisi di crescita, in paesi che devono ancora conquistare la piena maturità capitalistica, che devono ancora diventare “vere democrazie”. Come se il percorso naturale degli Stati borghesi fosse la tendenza a una condizione di benessere diffuso e di pace sociale, che gradualmente tutti gli Stati raggiungeranno!

Al contrario, la spontaneità di tutte le rivolte in ogni Stato (liberale, statalista, pseudo-socialista) mostra proprio il percorso continuamente accidentato di uno sviluppo capitalistico che procede certamente spedito nell’accumulazione allargata, ma, dialetticamente e allo stesso tempo, produce miseria e contraddizioni sempre maggiori. La storia, nel suo movimento continuo, si ripete, ma a un livello più alto delle contraddizioni – un livello direttamente proporzionale, e con indice di proporzionalità esponenziale, al livello dell’accumulazione allargata del capitale. L’estrema polarizzazione della ricchezza come causa della sempre più esasperata polarizzazione sociale è ora, nei suoi primi segni di reazione delle masse proletarie, solo spontanea, non organizzata.

 

Inizialmente, rifiuto della politica e di tutte le organizzazioni istituzionali.

In tutta l’America Latina, abbiamo visto lotte che nascono dal forte malessere sociale e da condizioni di vita insopportabili, come reazione spontanea generale al sistema dominante: inizialmente, non con rivendicazioni particolari, ma con una propensione al rifiuto totale dell’esistente, esasperazione e odio istintivo verso lo Stato e i simboli del potere.

Di riflesso, in tutti gli Stati, ecco il rifiuto iniziale di tutti i partiti, sia di quelli al governo che di quelli all’opposizione, e dei sindacati: esattamente come nelle primavere arabe e in altre rivolte scoppiate recentemente nel resto del mondo. Ovunque c’è stata un’ulteriore dimostrazione del tradimento dei sindacati e dell’opportunismo politico, tutti con la funzione di pompieri della lotta spontanea. Ma nonostante le rivendicazioni democratiche piccolo-borghesi illudano ancora le masse con richiesta di Costituzioni popolari ed elezioni, in paesi come il Cile dove è più forte la polarizzazione, l’astensionismo è molto forte: meno del 50% degli elettori.

 

La composizione sociale della piazza

La composizione sociale della piazza non può che riflettere la storia che abbiamo cercato di tratteggiare per il continente, ossia la sua base economica: fin dalla nascita nel sub-continente, la classe lavoratrice è stata al fianco della piccola-borghesia e della borghesia industriale nella lotta alla classe dei proprietari fondiari. Il proletariato industriale è cresciuto, concentrato nelle metropoli e nei centri legati all’estrazione di materie prime e alla loro distribuzione. Il proletariato rurale, i braccianti, è più disperso: ma anch’esso è nella parte più combattiva in tutte le piazze e ha solidarizzato con le lotte del proletariato urbano. Ma è presente anche una gran parte di piccola borghesia in fase di proletarizzazione e di masse diseredate e di contadini. Tutti questi fattori alimentano l’interclassismo. La composizione generazionale all’interno delle classi accomuna anch’essa tutte le rivolte: i più combattivi sono soprattutto giovani e giovanissimi – ovunque senza organizzazione, o con organizzazioni orizzontali, di coordinamento di più gruppi di lotta locali, immediati, spontanei, senza capacità di direzione unica, senza un programma. Nonostante la rabbia metta in discussione tutto il sistema di oppressione e sfruttamento, non c’è un programma e quindi non ci sono organizzazioni a rappresentarlo. La convocazione della piazza avviene spesso con l’utilizzo dei social media, come strumenti di coordinamento o di informazione.

 

Ricorso alla violenza

L’esplodere della violenza è l’altro elemento comune e relativamente nuovo, dopo decenni di pace sociale, di esaltazione del pacifismo e di rassegnazione passiva delle masse: e ciò va sottolineato, poiché smentisce la visione ottusamente pacifista, alimentata dall’opportunismo. Sono da tenere a mente soprattutto l’esempio cileno della organizzazione militare spontanea di autodifesa ‘Primera linea’ e la nascita di altre organizzazioni spontanee di appoggio alla lotta. Si tratta di un’altra vittoria e altra conferma del comunismo: è certezza scientifica la tendenza del proletariato alla organizzazione, prima di tutto per difendersi! Finalmente vediamo dei primi segnali, dopo decenni, in controtendenza alla concorrenza interna alla classe e allo strapotere incontrastato della borghesia e del suo Stato borghese, di qualsiasi colore ideologico, “neoliberista” o statalista, filo-imperialista o nazionalista, democratico o pseudo-socialista. Che naturalmente ha reagito con forte repressione e leggi eccezionali.

 

La socialdemocrazia, ultimo baluardo a difesa del capitalismo.

Come nelle primavere arabe e in altre rivolte recenti, anche in America Latina, dopo una prima fase di combattività proletaria, e soprattutto come reazione a questa, emerge poi l’influenza della piccola borghesia, che incanala le lotte nell’interclassismo democratico, nella lotta contro la corruzione e contro la classe dei proprietari. Come abbiamo notato più sopra, la stessa struttura economica dell’America Latina, con la presenza di una forte classe di proprietari e di rentiers, favorisce l’interclassismo, l’unione delle diverse classi verso un nemico comune, e ostacola invece l’azione indipendente del proletariato. I leaders, inizialmente assenti, emergono da questo processo di soffocamento della rabbia, al fine di incanalare e disperdere le energie proletarie verso la preparazione elettorale, con leaders e programmi che perdono ogni collegamento con le esigenze delle masse alla base delle rivolte e con dirigenti selezionati in base alla capacità e disponibilità a essere funzionali alla politica istituzionale e costituzionale.

 

Contro tutte le fazioni della borghesia.

Le lotte sono esplose sia in paesi in cui la borghesia governa tramite le sue fazioni di destra, conservatrici e cosiddette neo-liberali sia nei paesi governati da fazioni socialdemocratiche della borghesia e piccola borghesia, a ulteriore dimostrazione che sono gli interessi immediati a spingere le masse, al di la della ideologia utilizzata per cercare di influenzarle. Se vogliamo comprendere gli sviluppi futuri di queste lotte, è principalmente alla base economica che dobbiamo guardare, piuttosto che all’ideologia utilizzata dalla classe dominante, al suo colore, alle apparenze con cui ogni borghesia nazionale copre la difesa del capitale nazionale o dell’imperialismo di riferimento.

 

L’interclassismo soffoca la rabbia proletaria.

Non è un processo solamente ideologico: l’aspetto ideologico è derivato, ma non fondamentale. Dobbiamo cioè spiegarlo con le basi materiali, e su tali basi lo avevamo già previsto nei nostri studi degli anni ’50 del secolo scorso: in tutta l’America Latina, con leggere differenze, la struttura economica è ancora oggi da colonia fornitrice di materie prime. La più recente e incompleta industrializzazione crea una piccola borghesia che influenza un proletariato ancora immaturo – senza esperienze di organizzazione indipendente: un proletariato sensibile alle sirene della lotta contro la classe dei proprietari fondiari, ritenuti la causa di tutti i mali. Le rivolte sono scoppiate per ragioni economiche, per le contraddizioni accumulatesi nella guerra, per ora solo commerciale, tra imperialismo USA e imperialismo cinese, per il controllo delle materie prime. La borghesia industriale e la piccola borghesia hanno interesse a dirigere la rabbia delle masse contro la classe dei proprietari fondiari: “Sconfitta la classe dei proprietari fondiari, potrà sorgere la vera democrazia e si porrà fine alle diseguaglianze, con la distribuzione della ricchezza”, questo il sogno spacciato in maniera ricorrente tra i proletari. Ma questa falsificazione si scontra di continuo con la realtà, e dal piano economico si passa alla crisi sociale.

 

Il proletariato ha una grande forza potenziale.

Il proletariato ha dalla sua parte la grande forza data dal numero: le masse in piazza lo hanno fatto intravedere di nuovo, ma solo per un momento, perché il numero non è nulla, non ha peso storico, senza organizzazione. Le forze dello Stato, fino a ieri temute e ritenute invincibili, e in grado di paralizzare il proletariato con il terrore, hanno vacillato sotto l’assalto della marea montante, il contagio ha superato le frontiere, ha infiammato un intero continente. Non si tratta solo di nuovi mezzi di comunicazione. La tecnologia rende solo più evidente una vecchia verità: il proletariato non ha patria, ovunque subisce le stesse contraddizioni e sofferenze. Le masse hanno mostrato, per un attimo, episodicamente, la propria forza potenziale.

La borghesia ora ha ripreso il controllo, e utilizza di nuovo le sirene socialdemocratiche, ultima risorsa disponibile per cercare di salvarsi. Ma altre nubi si addensano. L’utilizzo sociale della pandemia per spegnere le rivolte non smentisce la solita legge: la condanna a morte della borghesia. Lo stato di emergenza sanitaria, infatti, se in un primo tempo ha funzionato da freno alle rivolte, poi dialetticamente ha accelerato la miseria, sempre più diffusa e acuta, accumulando tensioni che prima o poi dovranno esplodere. Il capitalismo supera le crisi in un solo modo: preparandone di più estese e profonde.

Avevamo citato, nella prima parte di questo articolo, la preoccupazione degli analisti borghesi per la polarizzazione sociale in corso, di cui vediamo oggi solo i primi segnali. Citiamo sempre dalle analisi dei nostri nemici: “La polarizzazione politica non è un problema che si risolverà tanto presto. Molte delle sue cause sono potenti e inarrestabili. E ormai si è globalizzata.
La speranza è che la polarizzazione, così come genera paralisi nei governi o contesti politici tossici, possa produrre anche cambiamenti e rotture in Paesi con sistemi politici corrotti, mediocri e inefficienti. Come il colesterolo, che può essere buono, ci sono casi in cui la polarizzazione politica può avere effetti positivi
[27].

Per noi, invece, la polarizzazione sociale è sempre e sicuramente un segnale positivo, in quanto premessa oggettiva e necessaria del processo rivoluzionario e della morte del modo di produzione borghese, e di tutti i suoi Stati. Ma, per quanto necessaria, non è sufficiente. Serve un fattore soggettivo: per pesare sul piano storico, l‘enorme forza del proletariato, il suo numero, ha bisogno di organizzazione, della influenza e della guida di un partito, del suo partito, il partito comunista internazionale.

Il proletariato dovrà passare attraverso la lezione del fallimento delle promesse socialdemocratiche. Nostro compito è stare al suo fianco, con un ruolo di organizzazione e preparazione rivoluzionaria, sulla base del patrimonio storico, secolare, della esperienza della lotta di classe, rendendo vive quelle gloriose esperienze di lotta, in quanto bussola nelle lotte di oggi, per aiutare il proletariato a non ripetere sempre gli stessi errori. Per indirizzarlo nelle lotte per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro a cui la borghesia nazionale stessa e lo scontro tra imperialismi lo costringeranno domani; per rendere reale la sua enorme forza potenziale; per passare dalle lotte immediate alla lotta politica indipendente del proletariato, e quindi alla questione del potere; per superare finalmente un sistema malato, foriero di miseria crescente, guerre, distruzione dell’ambiente e pandemie.    

Le contraddizioni economiche e materiali, prima fra tutte la polarizzazione economica fra ricchezza e miseria, creano la polarizzazione sociale, ossia le condizioni oggettive della rivoluzione, ma occorrono fattori soggettivi, come continuità programmatica ed organizzativa, aderenza ai principi, rigore nell'applicazione della teoria all'analisi delle situazioni, per riuscire a polarizzare intorno al partito, nel vivo dell'azione, una cerchia sempre meno ristretta di lavoratori [28].

La grande forza che deve guidare il partito nell'assolvere il suo compito di propulsore delle energie rivoluzionarie è la dimostrazione di una continuità di pensiero e di azione, verso una meta precisa che un giorno apparirà urgente e necessaria agli occhi delle masse, determinando la loro polarizzazione verso il partito di avanguardia, e con ciò le migliori probabilità di vittoria nella rivoluzione [29]

Scrivevamo ancora settant’anni fa e poco più: “Per poche che possano essere in un dato frangente le forze indipendenti del proletariato, sono esse ad allacciare il filo coi tempi delle grandi riprese, in cui forze imponenti si affasciano in una direzione comune e sicura”[30].

All’orizzonte, forze imponenti si polarizzano: manteniamo la rotta verso una meta precisa!

 

[1] “A proposito dei recenti avvenimenti nel mondo arabo”, Il programma comunista, n. 06/2012; “ La crisi si abbatte sulla sponda sud del Mediterraneo”, Il programma comunista, n. 02/2011;Algeria, Tunisia, Egitto, Libia… E poi? Sempre più instabile il modo di produzione capitalistico”, ibidem; Tunisia: riesplode la rivolta!”, Il programma comunista, n. 01/2018.

[2] I ‘gilet gialli’: il fiato corto di una rivolta popolare, l’onda lunga di un’illusione popolare”, Il programma comunista n. 01/2019; “Il movimento dei gilets jaunes, ovvero lucciole scambiate per lanterne”, Il programma comunista, n. 02/2019; “Il movimento dei ‘Gilet gialli’ in Francia: Rivolta popolare e illusioni democratiche”, conferenza pubblica del 3/2/ 2019,  https://internationalcommunistparty.org/index.php/it/165-flash/2301-il-movimento-dei-gilet-gialli-in-francia-rivolta-popolare-e-illusioni-democratiche.

[3] “USA: Razzismo, lotte di classe e necessità del partito rivoluzionario”, il programma comunista, n. 05-06/2020; “La collera ‘negra’ ha fatto tremare i fradici pilastri della ‘civiltà’ borghese e democratica”, Il programma comunista, n. 04/2020.

[4] Tunisia in fiamme”, Il programma comunista, n. 01/2021. 

[5] Libano. Davanti al baratro di un’ennesima guerra, il proletariato è costretto a reagire agli attacchi dei lupi imperialisti e dei loro sciacalli locali”, Il programma comunista, n. 02/2021.

[6] In Il programma comunista, n. 2/3, marzo-giugno 2020. 

[7] “Tesi sul compito storico, l'azione e la struttura del partito comunista mondiale”, Il programma comunista, n. 14/1965, ora anche nel volume In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni il programma comunista.

[8] Lucia Capuzzi, Un continente in rivolta. L'America Latina tra protesta e speranza, Vita e Pensiero - Avvenire, 2020

[9] Moisés Naím, "Tutto il mondo è polarizzato", La Repubblica, 3 febbraio 2019.

[10] Le cause dell’arretratezza dell’America Latina”, Il programma comunista”, n. 14 e 15 del 1959

[11] America Latina ad un bivio”, Il programma comunista n. 2/2012; e America Latina: Regge ancora l’imperialismo USA, Il programma comunista n. 3/2012.

[12] America Latina ad un bivio”, Il programma comunista, n. 2/2012

[13] “Non solo Cile, Perché il Sud America è una polveriera, Il sole 24 Ore,  21 Ottobre 2019.

[14] “Disuguaglianze Economiche e Sociali. La Grande Sfida per la democrazia in America Latina, Cespi, Centro Studi di politiche internazionali, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/america-latina-que-pasa/disuguaglianze-economiche-sociali-la-grande-sfida

[15] “La struttura produttiva latinoamericana: causa e soluzione del problema della crescita, Cespi, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/america-latina-que-pasa/la-struttura-produttiva-latinoamericana-causa

[16] La ‘trappola’ della dipendenza dalle materie prime, Notizie Geopolitiche, 14 Ottobre 2021 https://www.notiziegeopolitiche.net/la-trappola-della-dipendenza-dalle-materie-prime/

[17] America Latina: Regge ancora l’imperialismo USA”, Il programma comunista n. 3/2012

[18] Note sulla crisi petrolifera: Venezuela, India, Russia”, Il programma comunista,  n. 6/2014; “Venezuela: il ‘socialismo del XXI secolo’, o dei banconi vuoti”, Il programma comunista,  n. 4/2017; Miseria e cripto-valute: il Venezuela nel caos delle crisi, Il programma comunista, n. 5-6/2018; “Solidarietà al proletariato venezuelano contro ogni tentazione patriottica e nazionalista”, comunicato del Partito comunista internazionale (il programma comunista) del 5 /2/2019, https://internationalcommunistparty.org/index.php/it/archivio/raccolte-tematiche-99650/305-il-programma-comunista-2019/n-02-marzo-aprile-2019/2331-solidarieta-al-proletariato-venezuelano-contro-ogni-tentazione-patriottica-e-nazionalista;Venezuela: Tra democratico-borghesi e avventurieri militari”, Il programma comunista, n. 02/2019.

[19] “Venezuela: tra democratico-borghesi e avventurieri militari”, Il programma comunista, n. 02/2019

[20] Miseria e cripto-valute: il Venezuela nel caos delle crisi”, Il programma comunista, n. 5-6, ottobre-dicembre 2018. 

[21] La ‘carovana dei migranti davanti al muro democratico USA”, Il programma comunista, n. 02/ 2019.

[22] https://www.agensir.it/mondo/2020/04/28/il-drammatico-controesodo-dei-migranti-venezuelani-tra-stigmatizzazione-e-quarantena-in-campi-di-concentramento/

[23] “Solidarietà al proletariato venezuelano contro ogni tentazione patriottica (comunicato diffuso in rete), Il programma comunista, n. 2/2019.

[24] Intervista riportata dal sito Sicurezza Internazionale https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2019/10/22/cile-le-ragioni-della-rivolta/

[25] “Cile: le ragioni della rivolta”, in Sicurezza Internazionale, 22 ottobre 2019. https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2019/10/22/cile-le-ragioni-della-rivolta/

[26] La  ‘carovana dei migranti’  davanti al muro democratico USA”, Il programma comunista, n.02/2019

[27] "Tutto il mondo è polarizzato", di Moisés Naím, La Repubblica, 3 febbraio 2019.

[28] Per approfondire: Storia della Sinistra Comunista (Vol III, Cap. VI , “La scissione in Italia e il movimento comunista internazionale”, paragrafo 5: “Il PCd'I e le questioni tattiche connesse alle vicende del movimento comunista internazionale nel primo semestre 1921),  https://www.internationalcommunistparty.org/index.php/it/25-pubblicazioni/testi-di-partito/839-storia-della-sinistra-comunista-vol-iii-cap-vi

[29]  Per approfondire:  “Partito e azione di classe”, in Rassegna Comunista, anno I, n°4 del 31 maggio 1921. https://www.internationalcommunistparty.org/index.php/it/?option=com_content&view=article&catid=25%3Atesti-di-partito&id=119%3Apartito-e-azione-di-classe&Itemid=90

[30] “Bussole impazzite”, Battaglia Comunista, n°20, 1951.

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