DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Riprendendo la “questione cinese”

Di questo lungo studio, uscito originariamente sui nn. 23-24/1957 e 7-8/1958 de “Il programma comunista”, abbiamo pubblicato nel numero scorso (6/2006) i primi tre capitoli, intitolati “Continuità etnica dello Stato”, “Precocità del feudalesimo”, “Schizzo del trapasso dal “feudalismo aristocratico” al “feudalismo di stato””. Completiamo adesso la pubblicazione, che sarà seguita, nei prossimi numeri, da altri testi tratti dal nutrito lavoro di partito sulle “cose di Cina”, in previsione di una serie di articoli che intendiamo dedicare alla Cina d’oggi.

 

4. Alba dell’Europa moderna


Vogliamo dunque spiegarci perché la rivoluzione capitalistica, che fermentava in taluni grandi Stati d’Europa e d’Asia, esplose in alcuni d’essi e ripiegò profondamente negli altri. Vogliamo sapere, cioè, perché il capitalismo ha ritardato in Asia, e quindi in Cina.

L’Europa moderna è sorta da poco, se si considera il lungo cammino della specie umana. Fino alla metà del secolo XV, nulla lasciava presagire il vertiginoso sviluppo che di lì a poco avrebbero avuto i paesi affacciati sull’Oceano Atlantico. Unici centri di attività economica e intellettuale erano le gloriose repubbliche marinare e le signorie dell’Italia rinascimentale: Venezia, Genova, Firenze. Il resto del continente era ancora immerso nel caos feudale, mentre i turchi-ottomani demolivano quel che restava dell’Impero bizantino. Paesi come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda, che avrebbero tra breve soggiogato il mondo, non erano ancora diventati nazioni. La loro economia era decisamente medievale. Eppure, in questi paesi esploderà il capitalismo. Cerchiamo di descrivere, necessariamente in maniera assai sintetica, le condizioni di ognuno.

La Spagna, la futura grande potenza coloniale, soltanto nel 1492, l’anno stesso della scoperta dell’America, distrugge il superstite regno musulmano di Granata, portando così a termine la “riconquista” cristiana della penisola iberica, durata oltre otto secoli. La Spagna, che era stata cartaginese, romana, visigota e araba, soltanto adesso assume le caratteristiche nazionali che conosciamo. La monarchia si organizza subito nelle forme dell’assolutismo. Giovandosi della forza militare e del prestigio acquistato nella lunga lotta, essa si oppone validamente alle pretese dei signori feudali, limitandone drasticamente l’autorità. E’ di questi anni (1481) l’istituzione dell’Inquisizione, formidabile strumento di governo che, sotto la forma di un tribunale religioso, dovrà servire efficacemente gli interessi della monarchia, favorendone le mire accentratrici. E’ opportuno far rilevare come la monarchia assoluta, per quante ripugnanze possa ispirare la sua macchina di repressione agli spiriti libertari, si ponga come un fatto rivoluzionario di fronte al disordine e all’impotenza feudali. Va infatti a essa il merito dell’organizzazione della spedizione di Colombo: il potere locale dei feudatari non sarebbe mai stato capace di tanto.

Nello stesso periodo, si forma la monarchia francese. Le dinastie dei Capetingi e dei Valois ad essa succeduta hanno due nemici mortali da eliminare: l’Inghilterra che per diritto feudale occupa parte del territorio francese e la recalcitrante nobiltà indigena che ostinatamente lavora a menomare l’autorità regia. Per venirne a capo, la monarchia dovette attraversare la paurosa crisi che prese il nome di “Guerra dei cento anni”. Comè noto, non si trattò soltanto di una guerra tra Stati, ma di una profonda crisi sociale che sconvolse la Francia. La monarchia dovette destreggiarsi non soltanto nella guerra degli eserciti ma anche nella guerra delle classi, parteggiando per la nascente borghesia e ricevendo da questa prezioso appoggio finanziario. E’ l’epoca convulsa della logorante “guerra anglofrancese”, della “rivolta dei contadini” che i signori feudali chiamano sprezzantemente “Jacques Bonhommes” (Giacomi Buonidiavoli); della lotta fra le fazioni feudali dei Borgognoni e degli Armagnacchi, delle disfatte francesi di Crécy e di Azincourt, delle imprese di Giovanna d’Arco... La lunga crisi, scoppiata nel 1337, si conclude nel 1453. E’ a quest’epoca che l’unità territoriale francese è compiuta, eccezion fatta per Calais che resta agli inglesi. E, come già sperimentato con successo dalla Casa d’Aragona in Spagna, la dinastia dei Valois approfitta della potenza acquistata per saldare il conto con l’altro grande nemico della monarchia: la nobiltà feudale.

La monarchia assoluta francese viene fondata da Carlo VII, il re incoronato nel 1429 a Reims, liberata nello stesso anno dell’esercito di Giovanna D’Arco. Ma l’unificazione politica del paese, cioè la costituzione della Francia nelle forme moderne della nazione, avviene sotto il regno di Luigi XI, morto nel 1483. Spetta a questo sovrano, grande mente politica, il merito di avere gettato le basi dell’alleanza politica tra monarchia e grande borghesia in funzione antifeudale, che doveva assicurare lo sviluppo della Francia. Alla sua morte, i grandi feudatari di Borgogna, Provenza e Bretagna sono di fatto esautorati. E’ quindi soltanto alla fine del secolo XV - bisogna insistere sulle date per poter fare il raffronto Europa-Asia - che termina la grande crisi sociale francese. Il feudalesimo aristocratico è definitivamente battuto, l’assolutismo monarchico assicurato. La grande macchina statale è ormai montata: tra poco, la scoperta di nuovi mondi aperti all’intraprendenza e alla pirateria dei mercanti europei schiuderà a essa insospettati campi di applicazione.

Sempre alla fine del secolo XV, un’altra grande monarchia europea emerge dell’inferno di un’altra tremenda crisi sociale. Non si creda che si esageri nell\rquote aggettivazione.

Veramente tremenda è la guerra civile che strazia l’Inghilterra, uscita sconfitta dalla “Guerra dei cento anni”. E’ la “Guerra delle Due Rose”, che durerà trent’anni, dal 1455 al 1485. Una lotta ferocissima tra casate nobili che si disputano il trono, che, dopo eccidi in massa, terminerà con l’avvento al trono della casata dei Tudor. Anche in Inghilterra, la fondazione della monarchia assoluta coincide con il sorgere della borghesia. Ne fa fede il capitolo del Capitale da noi altre volte citato (Libro I, Sez.VIII, Cap. XXVIII), che Marx intitola “Legislazione sanguinaria contro gli espropriati a partire dalla fine del secolo XV”. Sono infatti descritte in esso le crudeli pene che la dinastia dei Tudor, continuata degnamente dagli Stuart, applica contro le famiglie contadine che i landlords (i grandi proprietari terrieri) scacciano dalle comunità agricole per impossessarsi delle terre e trasformarle in pascoli. Sappiamo tutti che la lana è il principale articolo commerciale con cui la borghesia britannica si presenta in quest’epoca sui mercati esteri: ciò significa appunto che il capitalismo britannico nasce sotto la monarchia assoluta, quasi insieme ad essa.

Tali erano le condizioni del continente alla vigilia della scoperta dell’America. Si può dire che in quest’epoca l’Europa è allo stato fluido. Una grande rivoluzione economica e sociale è in atto: nuove forze sociali, liberate dal crollo degli antichi rapporti produttivi, tendono a condensarsi attorno a un centro che non può essere altro che la monarchia. Il feudalismo entra nella crisi che lo condurrà a morte. E’ chiaro che la rivoluzione antifeudale non può essere circoscritta agli avvenimenti, sia pure determinanti, della rivoluzione cromwelliana in Inghilterra e della rivoluziona giacobina in Francia. Queste esplosioni di lotta di classe furono semmai il culmine di un processo rivoluzionario che si perpetuava da tempo nel sottosuolo sociale. In effetti, la lotta contro le forme feudali di produzione e di organizzazione sociale inizia molto tempo prima, cioè proprio in questo periodo, alla fine del secolo XV, e precisamente nell’epoca delle scoperte geografiche e della formazione del mercato mondiale. Orbene, questo gigantesco rivolgimento, questo incessante accumularsi della “quantità” capitalistica nelle viscere del feudalesimo, che poi trasformerà la stessa “qualità” del modo di produzione, non interessa soltanto una parte del mondo: l’Asia, come l’Europa, partecipa al grande movimento rinnovatore.

Mentre gli audaci navigatori dell’occidente esplorano gli oceani fino ad allora sconosciuti e temuti, e la Spagna ed il Portogallo conquistano immensi imperi coloniali in America, in duea vitali parti del continente - la Persia e l’India - sorgono potenti imperi. Assistiamo, cioè, allo svolgersi di un fenomeno di enorme portata che è già accaduto nella Cina. In pratica, accanto all’impero dei Ming vediamo formarsi la grande monarchia persiana dei Safavidi e l’impero indo-musulmano del Gran Mogol. Ecco schierarsi tre colossi statali che bene possono contendere all’Europa il primato storico. La storia scritta non registra certamente uno scontro tra l’Asia e l’Europa, ma se si riflette che ogni collisione tra potenze statali avviene sul terreno economico, prima che su quello politico e militare, si comprenderà che una colossale partita fu giocata tra i massimi Stati d’Europa e d’Asia. Risulteranno vincitori gli Stati che riusciranno a monopolizzare l’esercizio delle rotte oceaniche aperte al commercio mondiale, che saranno in grado di approntare potenti flotte da carico e da combattimento, con cui spazzare via i concorrenti. Il mare prende a dominare la terra, il commercio l’agricoltura. Perciò, i grandi imperi territoriali che già esistono da secoli in Asia, com’è il caso della Cina, o che adesso vanno sorgendo, com’è il caso della Persia e dell’India, dovranno soccombere pur potendo vantare gloriose e antiche tradizioni marinare.

 

5. La meravigliosa rinascita dell’Asia


In Persia, dal 1501, ha inizio un grandioso rivolgimento. Fin dall’antichità, l’immenso paese ha funzionato da ponte tra Occidente e Oriente. Non a caso, dunque, viene percorso adesso dalla grande ondata di rinnovamento che sta scuotendo il mondo civile. L’indipendenza persiana era stata distrutta, nel secolo VII, dalla conquista araba, alla quale erano succedute le dominazioni turca e mongola. Adesso, sale sul trono la grande dinastia dei Safavidi che unifica il paese e gli ridona l’indipendenza. Non si tratta di un puro cambiamento della facciata politica, ma di un rivolgimento sociale.
Il compito storico che la dinastia dei Safavidi svolge con successo è la limitazione del potere localistico e fazioso dell’aristocrazia terriera, e la messa sotto controllo della turbolenta classe dei Khan, i famosi Kizilbasci, cioè i nobili portatori di fez rossi. In una parola, il movimento persegue la trasformazione della monarchia feudale in monarchia assoluta, proprio come sta avvedendo nei massimi Stati dell’Europa occidentale, da poco fondati. I Khan perdono il diritto all’ereditarietà del feudo, e sono ridotti al rango di funzionari del potere regio; anzi, a essi viene contrapposta una burocrazia civile e militare di nomina regia. Lo Scià sottrae territori sempre più vasti alla giurisdizione dei signori feudali, creando le città regie, organizzando una classe di funzionari di Stato scelti non più tra gli altezzosi Kizilbasci, ma tra le classi inferiori della popolazione. In armonia con le finalità antifeudali del regime nuovo, viene soppressa la vecchia armata formata dagli uomini e dalle armi forniti dall’aristocrazia, e creato, sul modello europeo, l’esercito regio permanente.

La compressione delle forze conservatrici comporta di conseguenza uno sviluppo economico che coinvolge tutti i rami della produzione. Il commercio ne è stimolato e agevolato, l’industria artigiana e la manifattura ricevono un forte incremento. E, come fanno le monarchie assolute d’Europa, il governo dello Scià non vi assiste inerte, ma vi partecipa attivamente. Vediamo, infatti, lo Stato promuovere direttamente la colonizzazione di territori rimasti nell’abbandono, la canalizzazione delle acque a scopo di irrigazione, la costruzione di nuove città, la restaurazione di antiche strade cadute in disuso e l’apertura di nuove vie. Il potere pubblico favorisce in ogni modo l’attività degli armeni, degli ebrei, degli indiani, che monopolizzano nelle loro mani il commercio interno ed estero. Anticipando le moderne meraviglie del capitalismo di Stato, la monarchia safavida istituisce una polizia stradale avente il compito di proteggere le vie di comunicazione e i convogli commerciali che le percorrono, costruisce ai margini delle grandi arterie stradali caravanserragli, depositi, alberghi; cura direttamente il commercio della seta, acquistandola a prezzi remunerativi dai produttori locali, che lavorano in concorrenza con i cinesi, e rivendendola ai commercianti all’ingrosso - i nuovi borghesi di Persia - o addirittura ai commercianti stranieri, che importano la preziosa materia prima in Moscovia, in Germania, in Polonia, in Francia, in Spagna, nella Repubblica di Venezia.

La monarchia safavide ha talmente il senso del tempo, che si spinge fino a creare e gestire manifatture regie, dove si lavorano tappeti, pietre preziose, oro e argento, e si fabbricano broccati, velluti, armi, mobili. Lo Stato si mette alla testa della rivoluzione manifatturiera che sta percorrendo il paese. L’iniziativa statale sprona l’iniziativa privata, ad onta di quanto diranno in seguito, e dicono ancora, i paladini dell’individualismo economico. Sorgono le industrie tessili cotoniere, che importano la materia prima dalla vicina India e ne esportano i manufatti. Altri articoli di esportazione, assai richiesti all’estero, fabbricano poi le regie industrie del cuoio.

Lo sviluppo economico si accompagna con lo sviluppo sociale. Nascono le classi borghesi dei commercianti, dei banchieri, dei rentiers, di coloro che vivono di rendita. I viaggiatori che visitano a quell’epoca la Persia (come riferiscono varie fonti) trovano che essa non solo ha raggiunto il livello dell’Europa, ma se l’è lasciata notevolmente indietro. Grande slancio si nota nel campo intellettuale, rifioriscono le arti e le scienze. In seguito, la meravigliosa rinascita persiana appassirà e scomparirà, ma essa è un fatto così importante e colpirà in tal maniera l’immaginazione dei posteri che nel ’700, in pieno secolo illuminista, il grande Montesquieu affiderà, nelle sue Lettere persiane, a un personaggio immaginario di nazionalità persiana la critica della società occidentale.

Altra sede di grandiosi rivolgimenti è, nella stessa epoca, la grande penisola del Gange: la favolosa India. Questo immenso paese, per un complesso di circostanze storiche, massima tra le quali è l’invasione frequente di conquistatori stranieri che si sovrappongono all’elemento indù, è un caso limite del frammentarismo feudale. Quando, qualche [decennio] fa, cessò l’Impero britannico in India, i principati musulmani e indù vassalli della Corona britannica assommavano a 562. Sembrerebbe un numero eccessivo: pure, non è certamente il numero massimo, se si pensa che nel secolo XIV l’India era spezzettata in ben 1350 Stati. Né basta.

Alla fine del secolo successivo, il frazionamento doveva aumentare ulteriormente, essendosi il regno brahamanide del Deccan diviso in parecchi piccoli Stati provinciali.

A porre riparo al caos feudale e a instaurare l’unità politica, giunge l’Impero del Gran Mogol, di cui è fondatore un discendente di Tamerlano, Baber. L’Impero nasce dalla battaglia di Panipat combattuta il 20 agosto 1526 e vinta dall’esercito di costui, ma raggiunge l’apogeo sotto Akbar, che regna dal 1556 al 1605. Sotto di lui, l’Impero attinge i suoi limiti storici, comprendendo, oltre all’ex sultanato di Dehli sottomesso da Baber, il Gujerat, il Bengala e parte del Deccan: un impero immenso che tocca i 4 milioni di kmq ed è popolato da 100 milioni di uomini.

Akbar, che fu un grande statista oltre che un conquistatore, prese a modello, nella gigantesca opera di ricostruzione da lui intrapresa, la monarchia safavide, anche se i risultati conseguiti furono inferiori al paragone. Naturalmente, se l’India dei Gran Mogol risorge a nuova vita, ciò non è dovuto alle qualità personali, anche se eccezionali, di Baber e di Akbar. Al contrario, si assiste anche colà a uno sblocco degli antichi rapporti sociali. Anche Akbar, come gli Scià della Persia, come i monarchi cristiani dell’Europa, è espressione di un movimento sociale che tende a stroncare, o almeno a limitare sensibilmente, il potere della nobiltà feudale, che si era rafforzata a seguito della conquista musulmana e che pesa insopportabilmente sui villaggi. Anch’egli, all’anarchia del potere feudale locale, cerca di sovrapporre una burocrazia di Stato, responsabile soltanto di fronte al potere regio, e alla vecchia armata feudale sostituisce un esercito permanente. La dialettica della lotta sociale gli impone, come già si è verificato per le monarchie assolute di Europa, di appoggiare il contadiname, che da secoli patisce sotto il ferreo giogo dell’aristocrazia militare. Conseguentemente, egli persegue il grande obiettivo di una riforma agraria che reintegri lo Stato nelle sue proprietà e il villaggio nei suoi diritti, cancellando le usurpazioni perpetrate tradizionalmente dalla nobiltà e dai suoi aguzzini. Ma le grandi riforme di Akbar urtano contro la fanatica resistenza del clero musulmano che, come al solito, nasconde sotto l’intransigenza dogmatica la difesa degli inconfessabili interessi dell’aristocrazia, e non esita a predicare e suscitare l’odio di razza tra musulmani e indù.

Saranno proprio la divisione razziale - la penisola indiana, per le successive invasioni, è un caleidoscopio di razze e di lingue - e la tenace vitalità delle tradizioni feudali a limitarne i risultati. Tuttavia, al momento dello sbarco dei portoghesi nei porti della penisola, l’India non è quel paese crudamente povero e affamato in cui sarà ridotto dall’ imperialismo. L’industria è in pieno sviluppo, e più ancora il commercio. La penisola indiana è uno dei gangli del commercio mondiale. Navi di piccolo cabotaggio vi fanno scalo, provenendo da tutti gli angoli dell’Asia: dalla penisola arabica, dai porti della Persia, dalla Cina, dall’Insulindia. La marineria indiana stupisce per la sua dovizia i visitatori stranieri. Si sviluppa un’importante classe di mercanti, detti Banias, che, nel secolo XVII, sono operanti in tutte le regioni costiere indiane, a Goa, nel Coromandel, nel Bengala. Essi si occupano di traffici commerciali e di operazioni finanziarie, e i loro fondaci e uffici di cambio si incontrano anche fuori dell’India: nei porti persiani, in Arabia, in tutta l’Africa orientale, da Aden fino al Capo di Buona Speranza. Essi esportano le cotonate fabbricate nel Bengala e nel Coromandel; è grazie a essi che i prodotti dei filatori indiani arrivano fino alle isole della Sonda. La micidiale monocoltura, tipica delle dominazioni coloniali, vi è sconosciuta: agricoltura, artigianato, manifattura, commercio si equilibrano e si compensano reciprocamente. L’India non esporta soltanto tessuti ma anche prodotti industriali.

Insomma, è tutto l’opposto dell’India dolorante e depauperata che il feroce colonialismo occidentale ci ha abituati a immaginare. E’ un paese in fase di ascesa.

Tutti questi avvenimenti parlano chiaro: essi ci avvertono che la rivoluzione antifeudale non è un fatto esclusivamente europeo, ma travalica gli oceani e mette in moto i continenti. Anche l’Asia è in linea: e anche i popoli di colore, non accorgendosi neppure di avere quelle tendenze all’inerzia e alla contemplazione che i filosofi occidentali attribuiranno loro, operano attivamente. Poi, su tutto questo brulicare di attività calerà una mortifera paralisi. Ciò succederà allorché l’Asia, che da millenni è stata la matrice inesausta di popoli conquistatori calati sull’Europa, diventerà a sua volta l’oggetto dell’invasione e della conquista brutale. Ma gli spietati invasori non verranno, come nell’antichità, sui dorsi dei cavalli, ma al contrario sui ponti armati di navi oceaniche. E invano gli aggrediti cercheranno di sfuggire alla morsa, rinserrandosi in un geloso isolazionismo, come faranno la Cina ed il Giappone.

Il caso del Giappone è oltremodo eloquente, e bisogna accennarvi rapidamente. Le isole nipponiche partecipano anch’esse al rinnovamento mondiale. Attraverso lotte durissime, il potere imperiale, rappresentato dagli Shogun, una sorta di dinastie ereditarie di primi ministri, atterra il potere dell’aristocrazia feudale. Il Giappone è un paese arretratissimo: basti dire che soltanto adesso, nel sec. XVI, vi penetrano il ferro e l’acciaio, fino ad allora sconosciuti.

L’unificazione politica del paese comporta la rinascita dell’economia agricola che la dominazione dei signori feudali - i “dai mio” - tiene ad un livello bassissimo. Le riforme antifeudali avvengono sotto gli shogunati di Nobunaga (1534-1582), di Hideyoschi. (1536-1598), di Yeyasu (1542-1616). Sotto di loro, e specialmente sotto Yeyasu, si ha la trasformazione del potere imperiale, che assume la forma della monarchia assoluta e riduce la riottosa classe dei “dai mio” al rango di cortigiani.

La religione cattolica importata dai missionari si rivela un’insospettata arma ideologica nelle mani dei riformatori antifeudali, scesi in lotta contro il clero buddista che si ostina a difendere accanitamente l’ancien régime. Viene addirittura un momento in cui le numerose conversioni al cattolicesimo, favorite dagli shogun, pare debbano trasformare il Giappone in una nazione cristiana. Ma l’invadenza dei portoghesi, per i quali la predicazione missionaria serve unicamente a facilitare la conquista del paese, costringe il governo nipponico a mutare radicalmente politica. Nel 1638, i successori di Yeyasu chiudono il Giappone agli stranieri e bandiscono il cattolicesimo. Occorreranno, due secoli dopo, le cannonate delle navi da battaglia del commodoro americano Perry per porre fine al risentimento giapponese verso i pirateschi sistemi degli imperialisti europei. Ma non tutti gli Stati asiatici godono dei benefici che vengono al Giappone dalla sua insularità. All’invasione europea sono impotenti a opporsi non solo gli Stati di recente formazione, ma anche l’antico impero cinese.


6. Ripiegamento del capitalismo asiatico


Potrà sembrare che abbiamo dato eccessiva importanza all’esame degli avvenimenti che si verificano nel mondo, all’epoca che stiamo considerando, mentre il presente lavoro è dedicato allo studio delle particolarità del corso storico cinese. Ma è chiaro che non potevamo assolutamente usare un metodo diverso. Ogni accadimento storico, anche se si verifica in sedi lontane dai paesi in cui il ritmo di sviluppo delle forze sociali è più veloce, è condizionato dall’evoluzione della storia mondiale. Tanto più questo discorso vale per la Cina. Abbiamo visto, nelle scorse puntate, come l’origine della nazione cinese e il suo sviluppo furono strettamente determinati dalle condizioni del continente, dalla posizione geografica del territorio, dalla sua geologia. Sappiamo anche che esistono strette relazioni tra l’evoluzione storica della Cina e del resto del mondo civile. Infatti, la Cina antica ebbe una parte molto importante, sia pure non diretta, nelle invasioni barbariche che distrussero l’Europa romana, in quanto respinse e costrinse a deviare verso occidente le popolazioni mongole nomadi, che a loro volta premettero irresistibilmente sui barbari germanici.

Si pensi a quali conseguenze storiche portarono le invasioni degli unni nell’antichità e quella dei turchi nel basso Medioevo; si rifletta che a esse è legata rispettivamente tutta la storia del feudalismo europeo e dell’epoca di transizione al capitalismo; si tenga presente che questi popoli nomadi erano originari della Mongolia, da cui moltissime volte uscirono per avventarsi sul baluardo cinese e invariabilmente furono respinti e carambolati verso l’Occidente; si ponga mente a tutto ciò, e si comprenderà come non si possa fare un serio lavoro storico sull’argomento senza considerare globalmente gli avvenimenti mondiali e scoprirne le intime relazioni.

Così, non potremmo comprendere le ragioni dell’enorme ritardo riportato dalla rivoluzione borghese cinese, se non ci rendessimo contro del ristagno e della involuzione che si verificarono in Cina, nella stessa epoca in cui gli Stati atlantici dell’Europa si lanciavano nella via del capitalismo, uscendo definitivamente dal Medioevo. Dobbiamo capire perché accadde che la Cina, che pure aveva sopravanzato tutte le nazioni del mondo, anticipando di secoli il feudalismo e la monarchia assoluta, si lasciò poi superare piombando in una decadenza irrimediabile, dalla quale soltanto ora [1957 - NdR] si sta riscattando. E non potremmo farlo, come il lettore s’è accorto, se non avessimo dato uno sguardo alle condizioni, non della Cina soltanto e neppure dell’Asia, ma di tutto il mondo conosciuto all’epoca delle scoperte geografiche. Perciò abbiamo passato in rapida rassegna i rivolgimenti che in quel periodo si verificarono in Europa, e quelli, sostanzialmente identici, che la storia registra per le principali nazioni dell’Asia, come la Persia, l’India, il Giappone. Resterebbero da esaminare le condizioni della Cina. A esse abbiamo già accennato nelle precedenti puntate, rievocando l’era dei Ming, che è la dinastia regnante al momento dell’arrivo degli occidentali. Conviene completare il quadro, tenendo conto, però, della ristrettezza dello spazio.

Testimone magnifico della grandezza della Cina fu Marco Polo che visitò il paese dal 1275 al 1291, cioè mentre regnava la dinastia mongola degli Yuan. Occorre qui ripetere quello che tutti sanno? Marco Polo trovò un paese molto avanzato nell’industria, nel commercio, nella amministrazione. Due secoli e mezzi prima dell’insediamento dei portoghesi a Macao, graziosamente concessa ai “barbari” di occidente dall’Imperatore, la Cina è un paese dove esiste già una classe di industriali che impiegano mano d’opera salariata nelle loro manifatture: segno, questo, che l’industria ha assunto forme capitalistiche. Ancora più importante è la classe dei commercianti, che dispone di flotte fluviali e marittime imponenti. “Per il solo Yangtse-kiang - scrive lo sbalordito Polo - vanno, in verità, più navi cariche di merci di gran valore che non per tutti i fiumi e tutti i mari del mondo cristiano. Il paese vanta un’avanzata metallurgia e consuma grandi quantità di carbone. Il commercio estero è sviluppatissimo e riceve nuovo impulso sotto i Ming” (Il Milione). La Cina importa le spezie dalle isole della Sonda e le rivende ai portoghesi, mantiene relazioni commerciali con la Persia, con l’Arabia, con l’India, con il Giappone. Sotto il terzo imperatore Ming, Youg-lo (1403-1424), si intraprende l’esplorazione della Malesia e di Ceylon, e viene conquistato l’Annam. Prima di lui, l’imperatore Qubilai aveva tentato la’conquista di Giava. Marinai e commercianti cinesi si trovano in tutti i maggiori porti dell’Oceano Indiano, e si spingono fin sulle coste dell’Africa Orientale. I banchieri cinesi, come Marco Polo aveva già notato con immenso stupore, usano largamente la carta moneta, del tutto sconosciuta in Occidente.

Ricapitolando, all’alba del secolo XVI, le condizioni storiche dell’Europa e dell’Asia, considerando naturalmente gli Stati principali, sono sostanzialmente pareggiate. A parte le diverse vie seguite, a parte le accidentalità presenti nello sviluppo di ciascuno e le differenze degli organismi politici, una tendenza è comune a tutti: la tendenza al rinnovamento delle strutture sociali, all’espansione dei mezzi produttivi, alla ricerca di nuovi modi di vita sociale. In una parola, la tendenza a sotterrare il feudalismo. Ma la dialettica storica permetterà soltanto a un gruppo di Stati di percorrere fino in fondo il cammino intrapreso, e cioè a quegli Stati che riusciranno a imprimere un ritmo mai visto all’accumulazione primitiva, alla costruzione di grandi fortune mercantili e finanziarie che in seguito renderanno possibile la rivoluzione industriale. La grande partita tra l’Asia e l’Europa si deciderà sui mari, sulle rotte oceaniche che apriranno la strada al mercato mondiale moderno.

I persiani, gli arabi, gli indiani, i giapponesi, i malesi, i cinesi sono popoli che vantano antiche e gloriose tradizioni marinare. Sono popoli nei quali il commercio marittimo ha origini remote. Purtroppo, i fatti verranno a dimostrare che la loro tecnica delle costruzioni navali e la loro arte nautica sono impari allo sforzo richiesto dalla grande navigazione oceanica. Essi sono audaci, al punto di spingersi da un estremo all’altro di un oceano - l’Indiano - ma si dimostrano incapaci di operare la grande impresa del collegamento degli Oceani. La realtà dell’epoca è che il commercio ha assunto un’importanza che supera le nazioni e i continenti: s’è fatto mondiale.

Le sue vie restano, però, ancora terrestri. Esistono, è vero, le grandi flotte di Venezia e di Genova, che si occupano del commercio Europa-Asia, ma il loro compito si arresta nel porto di Alessandria o in quelli meno importanti della Siria. Le merci provenienti dall’Asia, quando non seguono la lunghissima “via della seta” attraverso il Turkestan cinese, sono trasportate dalle flotte arabe a Suez, e di qui, a dorso di cammello, proseguono verso la metropoli egiziana. Di conseguenza, le spese di trasporto, sulle quali pesano tra l’altro le imposte gravosissime fatte pagare dai turchi che controllano le vie di accesso all’Europa, diventano insostenibili. Occorre trovare una comunicazione diretta tra i due continenti, tra i due mercati. In questa impresa l’Asia è assente; vi partecipano, invece, i nuovi Stati atlantici dell’Europa, le neonate monarchie cristiane che sono emerse da una lotta vittoriosa e tendono irresistibilmente a espandersi.

Se i disparati principi feudali accettavano con rassegnazione il monopolio commerciale delle Repubbliche marinare italiane, le superbe monarchie che si sono insediate a Madrid, a Lisbona, a Parigi, a Londra, non sono più disposte a tollerarle, anche perché possono disporre dei mezzi finanziari occorrenti alle spedizioni oceaniche. E comincia la lotta per la scoperta ed il possesso monopolistico delle nuove rotte interoceaniche. La scoperta dell’America regala immensi imperi coloniali alla Spagna e al Portogallo, ma essa non avrà influenze immediate sulla storia mondiale come la circumnavigazione dell’Africa di Vasco de Gama. Il formidabile raid Lisbona-Calicut del 1497-98 scrolla il mondo; esso segna la smobilitazione del Mediterraneo, la decadenza irrimediabile dell’Italia, l’esplosione della potenza coloniale portoghese; segna soprattutto la sconfitta dell’Asia. Ora il mondo sa chi sono i suoi padroni. E quando un’altra eroica spedizione, condotta da Ferdinando Magellano, si spinge nell’Atlantico australe, riesce a trovare il passaggio di sud-ovest e sbocca nell’Oceano Pacifico che risale fino alle Filippine; la vittoria dell’Europa è piena, è inappellabile: l’accerchiamento navale dell’Asia è completo.

La circumnavigazione del globo, negli anni 1519-1522, sancisce il primato e il predominio mondiale dell’Occidente, poco importa se dalle mani degli iberici esso passerà in seguito in quelle di olandesi ed inglesi. Cambieranno i dominatori, che la tortureranno e la spoglieranno spietatamente, ma non muterà ormai più la sorte dell’Asia: scompariranno dai mari le sue flotte, si inaridiranno le sue campagne, si spopoleranno le sue meravigliose città. E i suoi popoli piomberanno nella galera infernale del colonialismo capitalista, il più feroce e inumano che mai sia esistito. Non altrimenti si spiegano le cause del ripiegamento e della decadenza dell’Asia, e per essa della Cina.

Ma nulla accade a caso nel dominio della storia, come in quello della natura. La superiorità navale dell’Occidente non fu l’effetto di un colpo di fortuna. Nella riuscita delle spedizioni ebbe certo la sua parte la preparazione scientifica, il coraggio e la disciplina degli ammiragli e delle ciurme. Ma la verità è che la tecnica delle costruzioni navali e l’arte nautica dovevano avere maggiore sviluppo in Occidente per la ragione che la civiltà occidentale sorse sulle rive del Mediterraneo, cioè di un mare interno di facile navigazione. Proprio perché questo mare era di facile accesso a tutti i popoli che ne abitavano le coste, ogni grande potenza che aspirava a conquistare la supremazia imperiale dovette innanzi tutto imporsi come potenza navale. La circumnavigazione dell’Africa compiuta dalle navi del Faraone Nino, l’imperialismo commerciale dei fenici, il colonialismo transmarino delle repubbliche elleniche, il grande conflitto tra Roma e Cartagine, le competizioni delle repubbliche marinare italiane, sono fatti che stanno a dimostrare come la lotta tra le potenze mediterranee fu soprattutto una lotta tra potenze navali.
Al contrario, le nazioni asiatiche non ebbero mai una marina da guerra capace di rivaleggiare con quella dell’Occidente. La stessa Cina non riuscì mai a stroncare la pirateria giapponese. Ciò si spiega col fatto che i grandi Stati asiatici furono costretti a spendere la massima parte della loro energia contro le invasioni dei barbari calanti dalla parte settentrionale del continente e non ebbero ad affrontare pericoli di invasioni dal mare. L’Oceano era stato, per millenni, un baluardo insuperabile per loro come per i remotissimi popoli che abitavano l’Occidente. Ma quando l’Oceano fu violato, essi si trovarono senza difesa.

Da allora, l’imperialismo bianco è riuscito a dominare l’Asia dominando gli Oceani. Non a caso, è accaduto che appena gli antichi padroni britannici, francesi e olandesi ne furono scacciati, nel corso della seconda guerra mondiale, le nazioni asiatiche sono risorte a nuova vita.

 

***

E’ di qui che dovrà prendere l’avvio la nostra analisi dei grandi fatti sviluppatisi in Cina nel corso del ’900.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2007)

 

 

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.