DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

In questo articolo, ci occupiamo di una nuova specie di pretesi “marxisti” tra le tante che si appropriano della qualifica per far passare posizioni che con il marxismo c’entrano poco o nulla. Lo facciamo valutando i contenuti di un’ampia recensione a una recente pubblicazione il cui titolo non può passare inosservato: Guerra e Rivoluzione. Precisiamo che le nostre valutazioni riguardano la recensione, e non il testo, e se i contenuti della recensione dovessero risultare non conformi con quelli del libro non ne portiamo la responsabilità. D’altra parte, il recensore sembra aderire alle argomentazioni svolte nell’opera e non abbiamo motivi per dubitare che ne abbia dato un resoconto fedele.

Tra le questioni emerse dalla lettura, abbiamo posto attenzione sull’interpretazione del marxismo, sulla concezione della Storia e del ruolo dello Stato, e ne abbiamo tratto la conclusione che i contenuti sviluppati propongono una nuova versione di vecchi “aggiornamenti” del marxismo e che, come quelli, se ne allontanano anni luce. Non ce ne voglia dunque l’autore se ciò ci ha scoraggiano dall’affrontare la lettura del corposo originale (600 pagine in due volumi) (1). Anche in questo caso ci preme ribadire che non siamo interessati ad aprire sterili polemiche. Siamo anzi d’accordo con l’autore e i suoi recensori circa il fatto che viviamo in una fase di “transizione di sistema”, destinata a riproporre l’alternativa tra guerra e rivoluzione. Proprio per questo si impone per noi il compito di vitale importanza di riaffermare la continuità della scuola marxista, di contro a tutte le suggestioni che, anche quando sviluppate con onestà intellettuale e intenti meritevoli, se ne discostano.

Per noi il marxismo rivoluzionario è un corpus di dottrina integrale che o si prende in blocco o si rifiuta in blocco. Chi pretende di utilizzare parti della teoria “a fini rivoluzionari”, isolandole dalla sua visione integrale, si pone fuori dal marxismo e dalla continuità storica della tradizione rivoluzionaria che da esso è originata: le presunte “rivoluzioni” a cui ambisce sono altre da quella di Marx e dalla nostra. Ne è conferma il fatto che ogni questione trattata nel testo che sottoponiamo a critica è sviluppata in modo radicalmente difforme dalla visione del marxismo. In questo nostro lavoro, ribadiamo il suo carattere invariante e integrale, la concezione della Storia come arco tra passato e futuro, il ruolo dello Stato e che cosa si debba intendere per socialismo. Rimandiamo a un futuro lavoro altre questioni centrali emerse dalla lettura della recensione, quali il nesso tra libertà e necessità e il rapporto partito/classe.

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Con tutto il rispetto per gli idraulici, gli elettricisti e ogni sorta di “aggiustatori” che per professione si riforniscono in ferramenta, ci occupiamo qui dei pretesi marxisti che riducono il marxismo a “cassetta degli attrezzi”, ciò che fa di loro dei meri riparatori, manutentori dei meccanismi vigenti. La tendenza prende piede in presenza di una crisi sistemica che a detta degli irriducibili innovatori richiederebbe una nuova – un’altra! – “revisione della teoria marxista”. Di essa, si nega il carattere di scienza per ridurla a utile strumentazione da usare alla bisogna, senza nessuna pretesa scientifica, ma con l’intento di pervenire ad aggiustamenti, riparazioni dell’assetto politico, economico e sociale, per attenuare gli effetti disastrosi della crisi sulla condizione delle masse oppresse dal capitale.

Prendiamo la citazione da una recensione al libro di Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione (2):

Il marxismo non è una disciplina accademica, anche se si è cercato di trasformarlo, di volta in volta, in un capitolo della storia della filosofia, dell’economia politica, della sociologia o della politologia. Il marxismo è – o almeno dovrebbe essere – uno strumento della lotta di classe, la cassetta degli attrezzi per fare analisi concreta della situazione concreta e individuare le vie più efficaci per colpire il nemico”.

Il recensore ne ricava la seguente conclusione:

Dunque, esso non è una scienza. Almeno non lo è nel senso comunemente inteso di una scienza che procede isolando i fenomeni, classificandoli e rendendoli riproducibili e manipolabili, secondo l’impostazione galileiana-newtoniana. Il marxismo è piuttosto una prassi…”

Alle solite… Ci troviamo per l’ennesima volta a dover rintuzzare i sempiterni aggiornatori, i quali si incaponiscono a utilizzare le categorie di sempre. Peggio ancora, qui si pretende di ricondurre il marxismo alla sua genuina essenza, negandogli carattere scientifico. In rapporto alla teoria marxista, la nostra visione rimane la stessa:

Noi siamo […] per un corpus di dottrina che non è permesso mutare, lungo l’arco storico della classe operaia moderna, dal suo apparire alla scomparsa delle classi. Se un insegnamento storico smentisse questa costrutta dottrina ‘di parte’ del passato e del futuro, essa, nella dannata e contestata ipotesi, crollerebbe nel nulla, e non potrebbe essere salvata da contingenti puntellature, da ibridazioni bastarde […] Tutta la letteratura dello stalinismo mira, nella sua possente organizzazione, a questo traguardo. Ad esempio vi ricorre una frasetta di Lenin, o a lui attribuita, che condensa il concetto: ‘il marxismo non è un dogma, ma una guida per l’azione’” (Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Edizioni il programma comunista, p.208).

 Qui, i recentissimi revisori rinnovano la formula sostituendo scienza a dogma, riducendo l’una all’altro: o, meglio, palesando una fiducia nella possibilità che si dia una scienza della società e della storia (e forse anche della natura, non sappiamo) pari a quella che si può riporre in un dogma da fonte religiosa. Quello che è davvero singolare – da risultare paradossale – è che tutta l’operazione teorica (filosofica) giunge a denunciare il carattere utopistico di una scienza marxista che non sarebbe tale, e del suo convergere a definire i tratti di una società del tutto nuova, comunista, a favore della concretezza dei così definiti “socialismi imperfetti”. Dicono infatti i revisori:

Presa al suo meglio, ovvero depurata da storicismo, economicismo e utopismo, la lezione di Marx consiste nella tensione a fornire gli strumenti di una prassi di emancipazione che deve essere ricostruita concretamente dagli attori materialmente esistenti… La lettura del caso cinese, e di quello del Sud America, portano Formenti a formulare la tesi che, senza indulgere all’utopia, sono i concreti ed imperfetti ‘socialismi’ quelli ai quali dobbiamo dare attenzione.”

Il linguaggio sembra esprimere uno sforzo intellettuale supremo, ma si riduce a dire questo: di Marx prendiamo gli strumenti concreti che potrebbero servire a mettere in piedi un programma concreto per sollevare le sorti dei poveracci materialmente esistenti, cioè concreti (mica astratti!).

La volontà di “depurare il marxismo dall’utopia”, con la pretesa di prendere da esso “alcune cose” (“il meglio”), è un’altra modalità di disinnesco della sua esplosiva potenza rivoluzionaria. I nostri depuratori fingono di ignorare che Marx, a differenza dei socialisti utopisti, nel definire gli elementi fondamentali della società di domani non ne dà una rappresentazione ideale, ma fondata sull’analisi materialistica e scientifica della società presente. Riportiamo le parole di Marx e il commento che ne viene fatto in un nostro testo:

“‘In una società futura, in cui l’antagonismo di classe fosse cessato, in cui non esistessero più classi, l’uso non sarebbe più determinato dal minimo di tempo di produzione ma il tempo di produzione sociale che si destinerebbe ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale’.

E’ una delle tante gemme che si traggono dagli scritti classici della nostra grande scuola, e che provano l’insulsaggine del luogo comune: Marx amava descrivere nelle sue leggi il capitalismo, ma non ha mai descritta la società socialista: sarebbe ricaduto… nell’utopismo. Comune a Stalin e ad antistalinisti da dozzina.

L’utopismo è invece da contestare ai Proudhon–Stalin che vogliono emancipare il proletariato e conservare lo scambio mercantile” (I fondamenti del comunismo rivoluzionario, Edizioni Il programma comunista, 1989, p.31-32).

Dai “depuratori” del marxismo, l’“utopismo” di Marx – o una versione millenaristica e messianica della sua opera, che si vorrebbe buona per assecondare le speranze di riscatto degli oppressi, ma impotente di fronte alla realtà concreta del capitalismo e controproducente perché indurrebbe all’inazione – viene fatto scaturire proprio dalla visione di un processo, analizzato con criteri di scienza materialisticamente fondata, che vede nello sviluppo delle forze produttive sociali la condizione necessaria del superamento dello stesso capitalismo e del salto alla società futura. Questo sarebbe l’aspetto da ripudiare, a favore di una prassi in cui l’intervento umano attraverso gli opportuni strumenti sarebbe fattore determinante. Anche qui, nulla di nuovo. Questa insistenza sulla prassi e sugli strumenti, sull’azione e i mezzi dell’azione, è chiaro sintomo degli affetti da attivismo:

L’attivismo è una malattia del movimento operaio che richiede cure continue. […] È naturale quindi che gli affetti da attivismo reagiscano alla critica accusando gli avversari di sottovalutare i fattori soggettivi della lotta di classe e di ridurre il determinismo storico a quel meccanismo automatico, che costituisce poi il solito argomento della critica borghese del marxismo.” (“Attivismo”, Battaglia comunista, n.7, 1952).

Il ripudio del determinismo storico, ridotto a meccanismo automatico, equivale al ripudio di una vera scienza della società, a favore di un semplice armamentario da reperire entro i confini dati dalla società presente (a mo' di merce, sugli scaffali di una qualunque ferramenta?) – senza l’idea utopistica di demolirla del tutto a favore di una società affatto nuova è figlio di un pregiudizio tutto borghese motivato dalla consapevolezza che una tale scienza pronuncerebbe la condanna storica del modo di produzione capitalistico. Ciò che viene considerato utopistico, infatti, è il programma marxista di demolizione delle forme mercantili che costituiscono l’essenza del capitalismo, di cui si presuppone, come fanno tutti gli apologeti del Capitale, l’eternità.

Del resto, la borghesia, nel suo volgere storicamente su posizioni conservatrici, da ben oltre un secolo è passata dalla deificazione della scienza positiva a rinnegare il valore conoscitivo della scienza in generale, con una controrivoluzione filosofica dai tratti qui di seguito descritti da Benedetto Croce, ripresi come occasione di polemica in un altro nostro testo:

Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo, e di pratica utilità, che non hanno niente a che vedere con la meditazione del vero. Un tedesco ha scritto addirittura che le scienze sono niente altro che un Kochbuch, un libro di cucina, offerto agli uomini perché se ne valgano per produrre i tanti oggetti a loro utili nella vita” (Benedetto Croce, citato in “Comunismo e conoscenza umana”, riprodotto in appendice a Elementi dell’economia marxista, Edizioni il programma comunista, 1971, p. 115).

La novità dei modernissimi revisori – nelle loro precedenti versioni li chiamammo anche aggiustatori o cucinisti – consiste dunque nel ripetere l’operazione a suo tempo condotta dai vari Bergson, Poincaré, Avenarius e Mach nei confronti della scienza del mondo fisico, da questi ridotta a ricettario, volgendola nei confronti della scienza marxista, da quelli ridimensionata per l’appunto a “cassetta per gli attrezzi”. Sotto questo aspetto, siamo in presenza di due casi di controrivoluzione filosofica accomunati dalla resa nei confronti della possibilità stessa di una conoscenza che attinga a contenuti di verità. Ciò che conta è ottenere dei risultati a scopi di utilità pratica, siano essi “oggetti utili nella vita” o sistemi sociali, magari “imperfetti”, ma “concreti” e possibili.

I modernissimi liquidatori del marxismo invariante riproducono il vizio fondamentale dei liquidatori di tutti i tempi: l’immediatismo, l’attenzione agli aspetti contingenti, “concreti”, nel conflitto tra le classi a discapito di una visione che lo inquadri nello scontro storico tra sistemi sociali contrapposti: capitalismo e comunismo. Non a caso troviamo qui a ogni piè sospinto, ben rappresentato nelle immagini della “cassetta degli attrezzi” e del “libro di cucina”, il “concreto”, che si ripropone qual è, “croce e delizia di tutti i falsi marxismi che recano nascosto contrabbando filosofico” (“Comunismo e conoscenza umana”, cit., p.116). La tendenza porta inevitabilmente all’opportunismo, al sacrificio della prospettiva storica a favore di vantaggi immediati. Il destino dei revisori, degli aggiustatori, degli aggiornatori è segnato anch’esso dall’invarianza, e potrebbe salvarli solo la dimostrazione che la dottrina marxista integrale sia stata effettivamente smentita dall’insegnamento storico.

Se si concludesse che i mutamenti intervenuti nella società, i fatti storici, giustifichino l’abbandono della invariante dottrina marxista integrale, per gli autentici marxisti non si porrebbe nemmeno la necessità di un suo adattamento ai mutati tempi: si tratterebbe unicamente di abbandonarla nella sua interezza. In realtà, e non da oggi, il problema si pone piuttosto per le teorie sfornate dall’intellighenzia borghese, visto che sempre più accademici dichiarano il loro cedimento al marxismo, ma non è questo il tema che qui affrontiamo. Procediamo dunque sul terreno per così dire filosofico.

È propria dell'immediatismo, dicevamo, l’attenzione ai risultati “concreti”della battaglia tra capitale e lavoro. Più salario, più diritti, più welfare sono risultati in sé tangibili, e tanto basta a registrare altrettanti successi della classe oppressa. Purtroppo, la concretezza si scontra con la permanenza delle condizioni di sistema, altrettanto e più “concrete”, ciò che rende quelle conquiste non solo inevitabilmente transitorie, ma sempre più difficili da ottenere e conservare man mano che il sistema capitalistico, nel mentre sviluppa la forza produttiva sociale, generalizza ed estende la dimensione mercantile a ogni aspetto della vita, spinge alla realizzazione del mercantilismo integrale. L’immediatista chiede che il Capitale rallenti, trattenga la sua avanzata inarrestabile, ripropone il tentativo di infrenare lo sviluppo delle forze produttive sociali, come fu caratteristico e proprio del fascismo storico. In piena continuità invariante, il nostro immediatista in ultima versione afferma che

La rivoluzione non è il dispiegarsi di una dinamica immanente alle forze operanti nella storia (o nello sviluppo delle forze produttive), ma un evento che aziona un freno di emergenza.”

Non si potrebbe essere più chiari di così: da un lato, si afferma che la rivoluzione non è un esito necessario e inevitabile della dinamica capitalistica (ma qui si sfonda una porta aperta: nessun autentico marxista sosterrebbe una simile assurdità!); dall’altro, si afferma significativamente che la rivoluzione frena il treno capitalistico in corsa folle verso la distruzione. Coerenza vorrebbe che a una tale rivoluzione venisse allora associato l’attributo “conservatrice”. La “rivoluzione conservatrice” ha forti richiami storici nella destra nazionalista (tedesca, ma non solo) del primo dopoguerra (3). Viene dalla nostra corrente una valutazione del fascismo che lo designa a realizzatore delle istanze della socialdemocrazia, appartenendo a entrambi i movimenti la pretesa di contenere, infrenare lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche ponendole sotto il controllo dello Stato, il primo attraverso l’affasciamento militaresco delle classi nel segno del destino della Nazione e del Popolo, l’altra nel nome della loro convivenza conciliatrice sotto il segno del Progresso e della Pace. Chi oggi sostiene un percorso analogo da posizioni di cosiddetta sinistra si incanala, consapevolmente o meno, su quello stesso binario storico. Un simile atteggiamento si riscontra in effetti nella tradizione di certa sinistra. La precedente citazione riprende il senso della seguente, di Walter Benjamin:

Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno” (4).

Qui si rende necessario chiarire l’ossimoro che accosta la rivoluzione e la conservazione dell’esistente. Una rivoluzione per la conservazione dell’esistente è una controrivoluzione, non può essere qualificata altrimenti, ma nel caso degli aggiornatori in questione saremmo in presenza di una prospettiva anticapitalista, di una rivoluzione – forse sarebbe meglio dire una resistenza – che si oppone all’incessante scardinamento dei vecchi rapporti di produzione per effetto della “distruzione creatrice”, la continua ridefinizione degli assetti politici, economici e sociali che caratterizza la rivoluzione permanente del Capitale. Qui ciò che si vuole “conservare, preservare, difendere”, viene fatto rientrare in una prospettiva anticapitalista, ma l’azione non si spinge al sovvertimento di tutte le forme del Capitale, solo all’attuazione di ciò che si ritienepossibile”. Ma poiché non tutto è immediatamente possibile nel contesto dato, concreto, un tale anticapitalismo deve farsi conservatore… del capitalismo.

Quel “forse” di Benjamin esprime l’insinuarsi del dubbio, che è ben altro dal dubbio revisionista del primo Novecento fondato sul parallelismo tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la progressiva emancipazione della classe operaia attraverso successivi aggiustamenti e migliorie. Benjamin condanna apertamente quest’idea socialdemocratica di progresso “interminabile” e “incessante” (5), e tuttavia il suo dubbio si presta a essere utilizzato a danno dell’integrità della teoria marxista. Laddove il revisionismo classico introduce il fattore rassicurante di un’evoluzione sociale inarrestabile, sostenuta dal progredire della scienza e della tecnica, in una visione che guarda avanti, fiduciosa nella costruzione di una società nuova e migliore, la prospettiva di Benjamin – ripresa dagli odierni frenatori guarda all’indietro, alle macerie della storia passata, disseminata di drammi e distruzioni, di cui si vorrebbe interrompere il continuum. “Fermate il massacro!” è il grido che scaturisce dalla coscienza dell’orrore della storia umana, per la quale l’unica rivoluzione possibile è definire una forma sociale che finalmente stabilizzi il corso tormentoso delle vicende della specie. L’Angelus Novus di Benjamin, il corpo sospinto dal vento del progresso verso il futuro e il volto rivolto al passato, non è in grado di guardare davanti a sé, di prevedere.

Ma Benjamin cerca nella storia passata quelle perle che la Storia ufficiale ha abbandonato tra le rovine e che tuttavia conservano la memoria della ricchezza dell’essere umano, perduta nelle distruzioni di antichi modi di esistenza e nelle sconfitte dei tentativi passati di riscatto. In questo lavoro archeologico, la ricerca di Benjamin è volta a rintracciare nel tempo attuale le “sparse schegge di quello messianico”: è rivolta al futuro (6).

Con spirito diverso, ma con lo stesso intento di cercare tracce di futuro nel passato, Marx esprime ammirazione per la civiltà Inca, splendido esempio di economia naturale senza mercato e moneta, ma organizzata centralmente e capace di opere grandiose. Non diversamente, la nostra scuola sostiene, con Marx, una visione della storia che congiunge in un immenso arco la preistoria umana delle prime comunità comunistiche alla comunità futura che riaffermerà la pienezza della dimensione sociale dell’uomo. Questi frenatori, invece, nella loro miope visione storica ancorata al “concreto”, non solo rinunciano a esplorare il domani senza i paraocchi del presente, ma interpretano come perle splendenti gli aspetti non capitalistici che connotano sempre, pur a diversi gradi, tutte le società pienamente capitalistiche, comprese le attuali.

Se al marxismo non si riconosce il carattere di vera e propria scienza della società, anche per i modernissimi l’unica scienza possibile è la Storia: ma essa riguarda il passato e non dà la possibilità di proiezione nel futuro. Riportiamo ancora dalla recensione al libro di Formenti:

Rileggendo Lukacs (7) viene sostenuto che l’unica scienza possibile è quella storica, e questa non fa previsioni ma ha il volto diretto alle spalle.”

Se essa non può prevedere, che cosa rimane allora della “scienza” storica se non quell’accatastarsi caotico di fatti cui può solo darsi un ordine temporale, senza la pretesa di individuarvi direttrici che colleghino il passato al presente e al futuro? Rimane pura registrazione di ciò che è stato. I modernissimi ricadono così nella visione crociana che assegna solo alla storia la possibilità di una vera conoscenza, pur se limitata, e alla filosofia il monopolio della scienza intesa come capacità di attingere a contenuti di verità al di fuori del campo delle vicende umane.

per Croce la storiografia è possibile, ma si riduce a una registrazione incessante ed indefinita dei concreti, e deve aborrire le leggi causali. La storiografia di Croce è dunque una meteorologia degli eventi umani, a cui è vietato ogni pronostico, ogni bollettino di previsione del tempo. Di qui l’antitesi col marxismo, l’orrore per la pretesa di disegnare sviluppi storici di domani” (“Comunismo e conoscenza umana”, cit. p. 117).

Com’è vero che i nostri nuovissimi revisori “guardano indietro”! Sotto questo aspetto potremmo associarli a certi critici del presente, chiamati con termine in voga “antimoderni”, questi cultori del passato e di quanto di esso sopravvive, ciechi al futuro. Ciò che è possibile, secondo loro, non è dunque un portato dello sviluppo della società del Capitale e dei suoi limiti obiettivi, ma si inscrive nelle strutture del presente, si costruisce con i materiali e le forme già reperibili. Tra queste, merce e denaro rimangono inalterati pilastri dell’ordine futuro da essi auspicato.

Merce e denaro non sono in effetti forme esclusive del modo di produzione capitalistico, sono presenti anche nei precedenti modi di produzione. Ciò che è caratteristico del Capitale è (lo sappiamo!) la loro generalizzazione, la riduzione a merce della forza lavoro, la tendenza inarrestabile all’accumulazione, la condanna alla crescita senza limiti.

D’altro lato, non si avrà in nessun luogo la piena realizzazione di una forma capitalistica pura, ma ovunque, anche nelle società capitalistiche più sviluppate, si troveranno isole più o meno estese che si sottraggono, almeno parzialmente, al completo dominio del mercato. Non per questo il carattere pienamente capitalistico di quelle società ne viene minimamente scalfito (8).

Storicamente, il Capitale tende a sottomettere a sé ogni luogo del mondo e ogni aspetto della vita, generalizza il mercantilismo, dissolve le vecchie forme di produzione, separa i produttori dal prodotto del loro lavoro, i possessori dai loro beni, spinge alla polarizzazione estrema della società, alla concentrazione e centralizzazione massime della ricchezza e delle forze produttive. In questo suo procedere, stravolge incessantemente i vecchi modi di vita, i vecchi assetti sociali, territoriali, ambientali, e cancella tradizioni e culture. È inevitabile che in questo processo violento di “distruzione creatrice” incontri delle resistenze, crei i presupposti per movimenti che si prefiggono di “porre un freno”.

Nel suo tendere a realizzare un mercantilismo integrale, a ricondurre al mercato ogni aspetto della vita, il capitalismo tende anzitutto a ridurre tutti i lavoratori autonomi in salariati, a merce forza lavoro, poiché è unicamente da questa merce particolare che scaturisce il valore. Tuttavia, un conto è la tendenza, altro è la sua piena realizzazione. Per quanto ci interessa qui rilevare, la resistenza a questo processo da parte dei ceti sottoposti a espropriazione e soggetti a proletarizzazione non si può risolvere storicamente con la conservazione dello status di lavoratori autonomi o di possessori di fonti di reddito autonome. Non sono certo le condizioni caratteristiche dei ceti medi, il loro relativo privilegio, a costituire le perle che Benjamin vuole strappare ai fondali della Storia.

Queste resistenze pertanto possono sì assumere un carattere anticapitalista anche quando si ergono a difesa della piccola produzione, del piccolo commercio, della tradizione, della nazione, ecc., ma lo fanno da un punto di vista reazionario, e come tale senza prospettiva storica. Per questo, i nuovi interpreti di queste tendenze non vedono il futuro, ma solo le (miserabili) possibilità del presente e del passato che in esso sopravvive. Essi oppongono alla rivoluzione permanente del Capitale una sorta di rivoluzione stabilizzatrice, che imponga argini allo sviluppo connaturato alle forze del Capitale. Ciò che essi chiamano socialismo è in realtà un capitalismo ingabbiato in un sistema di arginamento delle sue poderose contraddizioni interne.

È questa la vera utopia: lo sforzo inane di arginare le possenti forze del Capitale, mentre l’unica prospettiva realmente possibile è quella del suo superamento, prospettiva che la miopia dei “depuratori “ del pensiero di Marx deforma in utopismo.

Tra i fattori che compromettono il funzionamento della macchina capitalista, il fattore fondamentale è interno alle sue dinamiche: la riduzione relativa, spinta ormai al massimo grado, della componente variabile del capitale, di quella merce particolare che è il lavoro salariato, in rapporto alla componente costante, porta con sé crescenti difficoltà di valorizzazione. Da essa origina la tendenza alla caduta del saggio medio del profitto, cioè del rapporto tra la sua massa e la massa del capitale investito nella produzione (parliamo, in termini di valore, di capitale circolante, escluso il valore del capitale fisso, di cui solo una parte entra nel valore prodotto). Le difficoltà di valorizzazione si traducono in difficoltà di accumulazione, compromettono il processo di espansione che conferisce senso alla natura del Capitale.

In un tale quadro, si determinano le condizioni di sviluppo della lotta di classe: ma il contesto in cui questa si svolge muta con l’avanzamento dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni. Nella fase attuale, che nell’occidente capitalistico vede una crescente spinta alla proletarizzazione, le mezze classi subiscono una caduta costante delle proprie condizioni di vita e sono spinte alla lotta di classe, con tutto il bagaglio di paure, pregiudizi e ideologie che appartiene loro. Tra le loro fila, si contano i nuovi senza riserve o i destinati a diventarli, settori di proletariato che difendono le residue “garanzie” conquistate nella fase espansiva: ma, nella loro generalità, oggi queste classi e mezze classi tendono a esprimere ideologie conservatrici o addirittura reazionarie. Le loro “soluzioni”, quali che siano, non escono dagli argini della società mercantile.

Quelle prospettate dai nostri “depuratori” del marxismo ne sono una variante neo-socialdemocratica o neo-stalinista. La soluzione che propongono è, infatti, un ritorno al ruolo centrale dello Stato nella definizione di un assetto“socialista”che, per quanto “imperfetto”, sia possibile, realizzabile e magari riconducibile a modelli “esistenti”. Persa, o ignorata, la via maestra della rivoluzione proletaria, si ripropongono vecchi percorsi, scorciatoie ingombre di relitti della Storia che conducono a nuove sconfitte. Si ripropone la minestra riscaldata dello Stato garante della coesione sociale attraverso il controllo più o meno centralizzato delle dinamiche economiche e la distribuzione più o meno equa dei profitti. La nostra scuola ha ampiamente liquidato ogni dubbio sulla supposta natura “socialista” di simili soluzioni quando ancora erano in auge:

Il presente svolgimento del capitalismo nel senso della pianificazione del profitto non solo è scontato già dalla dottrina marxista, ma è tanto chiaro che in esso non vi è una briciola di socialismo, in quanto, per la dialetticamente opposta economia borghese, questa politica dirigista è proprio 'socialismo'. Ad esempio, per Vilfredo Pareto non si intende per socialismo quello che diciamo noi, ossia organizzazione senza mercato e senza azienda: si intende invece arbitrario intervento di elementi morali e legali nel naturale fatto economico.” (“Il marxismo dei cacagli”, 1952, ora in Imprese economiche di Pantalone, Iskra, 1982, p.15)

Di più, nella prospettiva che si vorrebbe modernissima dei liquidatori in questione, al recupero dello Stato segue necessariamente quello della Nazione, ambito entro il quale possono applicarsi i suoi interventi regolatori e pianificatori. Anche in questo l’atteggiamento è antistorico, corrisponde alla fase – ampiamente superata – di costruzione del capitalismo interno attraverso il ricorso al protezionismo. Ma ciò che era già vero negli anni del secondo dopoguerra, quando la nostra corrente andava riannodando i fili del tempo del marxismo rivoluzionario, è vero a maggior ragione oggi:

Inghilterra, America, Francia e altri paesi industriali oggi non costruiscono più capitalismo interno, ma conservano e difendono capitalismo mondiale.” (“Il marxismo dei cacagli”, cit. p.14).

Oggi che il capitalismo si è mondializzato, integrato in un sistema globale dove ogni nazione o gruppo di nazioni dipende dalle altre per mercati, approvvigionamenti e produzioni, un ritorno alla centralità degli interessi nazionali si carica di contraddizioni irrisolvibili, anche quando a perseguirla sono le nazioni più grandi. Ciò rinfocola le tensioni tra concentramenti di potenza, porta alla formazione di blocchi, prepara nuovi conflitti generali in vista di una ridefinizione violenta di nuovi assetti ed equilibri. Lo Stato ritorna così protagonista, inizialmente sotto il segno del riarmo e della militarizzazione della vita sociale.

Accade che questo protagonismo dello Stato si ripresenti nelle vesti di un dirigismo non più funzionale alla costruzione del capitalismo interno, già superato dallo sviluppo storico, bensì alla ricostruzione delle condizioni per l’accumulazione in un quadro nazionale. Ad esempio, in Italia l’intervento dello Stato nell’economia caratterizzò il secondo dopoguerra fino agli anni Settanta del ‘900. Era l’epoca delle partecipazioni statali, dello sviluppo del welfare, della “democratizzazione” imperniata sul protagonismo sindacale e sulle lotte operaie. Il suo propulsore era stato l’espansione post-bellica, il cui venir meno segnò l’inizio della fine di quella fase politica e sociale. Cominciò così a mancare il terreno sotto i piedi alla sinistra riformista che al momento opportuno si convertì alle nuove logiche e se ne fece principale interprete; finì anche una stagione politica all’insegna di compromessi e concessioni che il Capitale, pervenuto a una svolta storica, non era più in grado di elargire. Il compromesso di fondo riguardava l’espansione del welfare pubblico, motivata dalla necessità di tenere sotto controllo le notevoli spinte sociali che avevano caratterizzato quegli anni e che avevano alimentato illusioni sulla possibilità di un capitalismo addomesticabile. Esaurita la fase, riprendeva la corsa al mercantilismo integrale, e con essa il processo di rivoluzione permanente del Capitale sotto l’impulso di un nuovo corso politico orientato ai postulati dell’ideologia neoliberista. Lo sviluppo del welfare aveva delimitato un’area di cui si faceva carico lo Stato, in parte esclusa dalla logica capitalistica, dalla concorrenza, dal mercato. A partire dal divorzio tra Banca centrale e Tesoro (1981), inizia un lungo percorso verso la privatizzazione di quei servizi, di cui oggi si vedono i disastrosi esiti (smantellamento di sanità, scuola e previdenza pubblica, liberalizzazione dei prezzi di trasporti, telecomunicazioni ed energia, privatizzazioni in ogni segmento di produzione, di servizi e di beni ancora in mano pubblica). L’esistenza di un welfare sviluppato e di relative garanzie per i salariati – con sacche anche di privilegio in alcuni comparti del pubblico impiego – non diminuiva in nulla la natura capitalistica del Paese, ma rispondeva alle precise esigenze di una lunga fase di espansione economica, in un contesto internazionale segnato ancora dal bipolarismo Usa-Urss.

Inoltre, l’esigenza di accompagnare l’espansione dei consumi e di coinvolgere il proletariato nella generalizzazione di bisogni nuovi, soddisfabili solo dalla merce, risultava facilitata dalla presenza di servizi pressoché gratuiti. Questa presenza, unitamente a salari relativamente alti, aveva anzi aperto la strada al progredire verso il mercantilismo integrale, preparando le condizioni per il suo allargamento a ulteriori ambiti. Non va poi trascurato il fatto che quella fase di relativo miglioramento della condizione proletaria scaturiva dagli esiti di una guerra generale e dal protagonismo operaio nelle lotte degli anni Sessanta-Settanta del ‘900, dalla presenza della competizione internazionale tra “modelli” economico sociali che, pur se solo in apparenza alternativi e inconciliabili, obbligava il “mondo libero” a fare concessioni nel campo dei “diritti sociali” e della distribuzione della ricchezza sociale.

Ricordato brevemente quello scorcio storico, e tornando a oggi e alle luminose prospettive dei nuovissimi aggiornatori, ci pare di poter dire che gran parte delle loro proposte per un socialismo possibile siano pescate proprio da quel recente passato. Consideriamone i punti caratteristici:

nell’attuale contesto storico, un percorso di riforme radicali che in anni precedenti al trionfo del neoliberismo si sarebbe definito socialdemocratico, potrebbe essere attuato solo con una rivoluzione”.

La citazione è presa direttamente dal testo di Formenti. Dopo l’assimilazione di rivoluzione e conservazione, segue quella tra rivoluzione e riforme. Riforme rivoluzionarie o rivoluzione riformatrice? Difficile dare una definizione sintetica dell’orientamento senza prima passare in rassegna queste “riforme radicali”, ma sorge subito spontanea l’associazione con le“riforme di struttura” di cui si faceva promotore il PCI ai tempi della Prima repubblica. Anche in quel caso l’intento era di attribuire un significato radicale a un programma riformista, ammiccando a una specie di “rivoluzione” da condurre entro le istituzioni democratiche, nel rispetto dei dettati di una Costituzione, celebrata come “la più bella del mondo”. Quanto segue suona a conferma delle notevoli affinità tra l’ideologia del vecchio partitone stalinista e quella propugnata dai nostri:

l’assetto ‘socialdemocratico’ è definito concretamente come economia mista e sistema avanzato di welfare. E dove la ‘rivoluzione’ significa trasformazione progressiva, ma sistematica, dell’assetto liberaldemocratico in favore di forme di democrazia diffusa e diretta che, però, non possono implicare il sogno della dissoluzione dell’autorità. Su questo sottile crinale si muove un radicale rigetto di ogni forma di liberalismo”.

Ci pare proprio che questi “rivoluzionari” che “guardano all’indietro” per andare avanti, vadano dritti contro il muro senza poterlo vedere. In un simile pastrocchio, che suonerebbe offensivo per la socialdemocrazia storica, si fa fatica a intravedere un barlume di marxismo. Del marxismo non rimane nulla, quando lo si intende usare come “strumento” nell’opera di “trasformazione progressiva, ma sistematica” (lavorate sodo, compagni, nell’erigere l’assetto socialdemocratico, e usate con maestrìa il cacciavite marxista!). Il loro “socialismo imperfetto”, ma “concreto”, è semplicemente economia mista pubblico-privato, dove il pubblico si fa carico di contenere le spinte disgregatrici che imperversano quando le forze capitalistiche sono lasciate a se stesse.

Questa visione è espressa dai depuratori in modo netto ed esplicito:

“…socialismo e mercato possono convivere anche utilmente, ma solo se la borghesia viene espropriata del potere di influenza politica e questa resta saldamente nelle mani dello stato, attuando una sorta di conflittualità perenne...”.

Questo è puro capitalismo, e non tanto perché prevede la coesistenza di proprietà privata e pubblica dei mezzi di produzione, che è solo un’ulteriore prova di sudditanza ideologica di questi liquidatori al Capitale. Lo sarebbe anche se lo Stato fosse proprietario di tutti i mezzi di produzione:

Lo Stato in dati casi assume con la sua amministrazione la gestione di aziende di produzione industriale; e se le assume tutte avrà accentrato la gestione delle aziende, mai l’economia. Soprattutto mai, fin che la distribuzione avviene con prezzo in moneta…, e quindi lo Stato è una ditta tra ditte, un contraente tra contraenti; peggio, in quanto esso considera ditta ciascuna delle sue aziende nazionali…” (“Dottrina del diavolo in corpo”, 1951, ora in Imprese economiche di Pantalone, cit, p.60-61).

Si comprende bene che il nemico dichiarato dei nostri liquidatori non è il capitalismo, di cui si accettano tutti i presupposti economici (mercantilismo) e politici (democrazia), ma il neoliberismo, cioè l’ideologia dominante negli ultimi quarant’anni e tuttora in auge. Al loro “radicale rigetto di ogni forma di liberalismo” corrisponde il pieno riconoscimento delle leggi economiche del Capitale, per quanto la loro applicazione sia demandata non al libero mercato, ma alla gestione dirigista dello Stato.

Qui tutto converge in una opposizione tra due ideologie, liberalismo e anti-liberalismo. Quando un’ideologia si definisce per il suo essere contro un’altra (mefitica l’opposizione fascismo/antifascismo!) è un brutto segno. Il presupposto è sbagliato: per noi, le ideologie sono prodotto di rapporti materiali, non viceversa. Nessuna ideologia produce… capitalismo o socialismo: solo i materiali rapporti di classe ne determinano la possibilità e la necessità storica. Liberalismo e dirigismo sono ideologie speculari che sorgono entrambe sulla base di rapporti di classe capitalistici, e si alternano o convivono in ragione delle condizioni del processo di accumulazione. Quindi, i nostri “rivoluzionari” pascolano nel recinto del Capitale.

La conferma è tutta nella frasetta, davvero rivelatrice, sul “sogno della dissoluzione dell’autorità”. Figuriamoci! Abolizione dello Stato: che utopia! Infatti, i nostri aggiornatori l’hanno subito “depurata” dal loro “marxismo”. Viene il dubbio che ci abbiano mai avuto a che fare, col marxismo, visto che ne ignorano un assunto fondamentale, così esposto dalla nostra scuola:

Il segreto del valore di scambio è qui. Perché mercato vi sia occorre che una forza superiore impedisca ai contraenti di sostituire il patto con la rissa. Una società che vive di merci deve avere un potere organizzato” (“Nel vortice della mercantile anarchia”, 1952, ora in Imprese economiche di Pantalone, cit. p,19).

Ecco tracciata in modo netto la funzione dello Stato nel capitalismo: potere organizzato per garantire la libertà del mercato. Qui è svelato l’arcano della tanto celebrata libertà borghese: libertà è libertà della merce. Presupposto dello Stato è dunque lo scambio mercantile, e viceversa. Ecco perché i nostri “rivoluzionari” considerano una idea da manicomio “abolire lo Stato”: dovrebbero abolire anche il mercato, cosa che considerano probabilmente altrettanto se non più folle. Liquidata senza troppe remore la presunta componente “utopistica” del marxismo –che in realtà costituisce l’essenza, l’approdo della scienza proletaria di Marx – ci si lava la coscienza con le favole per bambini: la “democrazia diffusa e diretta”. Nella presunzione di affermare con questo il massimo del radicalismo, si ricade in pieno nell’ideologia borghese anche dal punto di vista delle forme politiche, che immaginiamo molto “concrete”, fatte di apparati, organizzazioni, leggi, e così via. La “libertà” va regolamentata quanto lo scambio mercantile. E questa roba ci viene venduta con il marchio di “socialismo imperfetto”.

Ciò che i nostri liquidatori perseguono è un compromesso che cerca di superare il caos nel quale il mondo capitalistico starebbe precipitando a tutta birra, non, a giudizio degli aggiornatori, in virtù delle sue stesse dinamiche, ma a causa di un’ideologia. E lo si intende fare ricorrendo a strumenti vetusti, riesumati da un passato recente per costruire un futuro che gli assomiglia come in fotocopia. Questo dottor Formenti, con i suoi recensori che sembrano apprezzarne lo sforzo intellettuale, è espressione di una miopia ideologica sempre più diffusa tra ampi settori di piccola e media borghesia, timorosi di come si stanno mettendo le cose per la loro classe: timorosi del rischio di essere precipitati tra le file dei senza riserve.

Essi non possono rassegnarsi ad accettare le due principali evidenze della fase storica terminale di questo modo di produzione: la prima evidenza è, nel linguaggio dei fatti, la confessione del carattere dittatoriale del regime borghese. Con l’acuirsi delle contraddizioni – irrisolvibili entro i confini del modo di produzione capitalistico – mentre i loro apparati propagandistici pontificano su astrusi “diritti umani”, gli Stati democratici assumono un sempre più marcato segno autoritario e repressivo che fa carta straccia delle “più belle Costituzioni”, e procedono a un sempre più stringente, capillare e oppressivo controllo sociale. L’altra evidenza è il procedere catastrofico delle dinamiche economiche e sociali che conducono inevitabilmente alla guerra e alla rivoluzione. Fa specie che il titolo del libro recensito suoni proprio così: Guerra e rivoluzione. L’impianto descritto porta infatti a soluzioni dirette a frenare la progressione bellicista e repressiva negando la loro inevitabilità: secondo i depuratori, la si può e la si deve impedire, è solo questione di volontà e libertà (9). Questo sforzo volontaristico “rivoluzionario” dovrebbe infine essere coronato da una riedizione aggiornata dello Stato nazionale, democratico assai, in regime mercantile ma non troppo. Di quale “rivoluzione” stiamo parlando? È presto detto:

“… lo schema classico del marxismo contiene la previsione del tentativo di direzione dell’economia da parte dello Stato borghese e della classe borghese secondo 'piani', e contiene la previsione del 'totalitarismo fascista', che è appunto il metodo di stretta organizzazione di classe della borghesia, che al tempo stesso dirompe il movimento operaio e impone date autolimitazioni, con cui, a fini appunto di classe, tenta di frenare entro dati limiti l’impulso di ogni singolo capitalista e di ogni singola azienda verso il suo isolato vantaggio” (“Profeti dell’economia demente”, 1950, ora in Imprese economiche di Pantalone, cit. p.51)

Questa “rivoluzione” può assumere tanto la faccia feroce del totalitarismo fascista quanto quella mite e umanitaria del socialismo piccolo borghese, condita di riformismo, democrazia e buone intenzioni. La condanna inappellabile delle prospettive di questo socialismo piccolo borghese data 1848, Manifesto del Partito Comunsta, parole di Carlo e Federico:

Quanto al suo contenuto positivo […] questo socialismo [il socialismo piccolo-borghese, NdR], o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà, ch’essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In ambo i casi esso è a un tempo reazionario e utopistico.” (Manifesto del Partito Comunista, Capitolo III, “Letteratura socialista e comunista”).

Le illusioni delle mezze classi sulla possibilità di porre un limite alla potenza disgregatrice del Capitale non possono ostacolare le dinamiche obiettive che portano a esiti totalitari a fini di conservazione e alla guerra. Anzi, possono costituire persino un fattore facilitante quegli esiti quando quelle illusioni vengono alimentate da una retorica pseudo-rivoluzionaria, gonfia di demagogia populista, di cui la borghesia ha dato nella storia esempi magistrali. Solo la prospettiva proletaria rivoluzionaria può spezzare le dinamiche devastanti innescate dallo sviluppo capitalistico ormai giunto al culmine della sua crisi storica.

 

NOTE

1- Carlo Formenti, Guerra e Rivoluzione. Le macerie dell’impero; Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti, Meltemi, Milano, 2023.

2- http://tempofertile.blogspot.com/2023/05/carlo-formenti-guerra-e-rivoluzione.html

3- Tra i rappresentanti più significativi della Rivoluzione conservatrice ricordiamo O. Spengler (Il tramonto dell’Occidente, 1918) e T. Mann (Considerazioni di un impolitico, 1918). Sull’argomento, E. Nolte, La rivoluzione conservatrice, Rubbettino, 2009.

4- W.Benjamin, cit.in Enzo Traverso, “Rivoluzione”, http://tempofertile.blogspot.com/2022/09/enzo-traverso-rivoluzione.html)

5- W. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia, 13”, in Angelus novus, Einaudi 1962, p.79-80. Per le sue “Tesi” sulla storia, Benjamin viene spesso collocato tra i critici della modernità e del progresso.

6- I riferimenti sono al saggio di Hannah Arendt, W. Benjamin, Giuntina, 2017 (Capitolo “Il pescatore di perle”, p.118), oltre che alle citate “Tesi di filosofia della storia”, in W. Benjamin, Angelus novus, cit.

7- Non ci è chiaro questo rimando alla concezione della storia di Lukacs. Certamente, in lui è centrale la questione della prassi su cui tanto insistono i nostri, ma essa si connette a una interpretazione della storia come “storia dell'ininterrotto sovvertimento delle forme di oggettualità che plasmano l'esistenza dell'uomo” (G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Mondadori, 1973, p.245). Tra le forme di oggettualità rientrano quelle di merce e denaro che i nostri, in qualità di “depuratori del marxismo” non si sognano nemmeno di mettere in discussione. Piuttosto, proprio in virtù di questa visione e dell’idea di totalità che vi è connessa, Lukacs demolisce la concezione etica dello Stato propria di Lassalle, di cui essi – come riferiamo nel seguito del nostro articolo – si fanno invece sostenitori: infatti, “la separazione astratta ed assoluta tra economia e Stato, la rigida trasposizione dell'uomo come cosa da un lato e dell'uomo come uomo dall'altro, fa sorgere in primo luogo un fatalismo che resta prigioniero della fatticità empirica immediata (si pensi alla ‘legge bronzea dei salari’ di Lassalle); ed in secondo luogo, attribuisce alla ‘idea’ dello Stato, staccandola dallo sviluppo economico capitalistico, una funzione completamente utopistica, del tutto estranea alla sua natura concreta. E con ciò si sbarra metodologicamente la via ad ogni azione orientata verso la modificazione di questa realtà. Già la separazione meccanica tra economia e politica rende necessariamente impossibile ogni agire realmente efficace, orientato sulla totalità della società, che poggia sull'ininterrotta interazione e sul condizionamento reciproco dei due momenti. Inoltre, il fatalismo economico impedirà a qualsiasi azione di penetrare in profondità nel campo economico, mentre una concezione utopistica dello Stato conduce verso un atteggiamento di miracolistica attesa oppure ad un'avventurosa politica delle illusioni (G. Lukacs, idem, p.257).

8- Riportiamo dal nostro Questioni fondamentali dell’economia marxista:

Il fatto che le società degli stati moderni (compreso quello russo) conservano strati che consumano prodotto diretto delle proprie attività, come nelle aziendine parcellari dei colcos, non intacca la dimostrazione di Marx né le conclusioni rivoluzionarie, ma mostra solo che si tratta di società miste di pieno capitalismo, e di forme anche monetarie e mercantili, e magari naturali, ma precapitalistiche [ …] Di più è supposta un’altra condizione, che tutti i residui delle forme precapitalistiche siano scomparsi, e che quindi funzioni quel mercantilismo integrale prima trattato, in modo che non esistano lavoratori non salariati. Tale condizione non era raggiunta al tempo di Marx nemmeno in Inghilterra, ed oggi ancora non vi è paese in cui sia raggiunta. Punto centrale del marxismo è che non si dovrà affatto attendere che tutta l’economia sia capitalismo integrale per rovesciare il capitalismo nella rivoluzione comunista!” (in Scienza economica marxista come programma rivoluzionario, Editing, 1992, p.54, 56).

9- Ci riserviamo di trattare in un prossimo lavoro la centrale questione del rapporto tra libertà e necessità dal punto di vista del marxismo, sempre nei limiti della polemica con le tesi sostenute nel testo di cui ci siamo qui occupati.

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