DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nel numero di maggio-giugno dello scorso anno di questo giornale, in un articolo dal titolo “La tragica giostra della guerra in Libia riprende a girare”, abbiamo riassunto quasi nove anni (2011-2019) di avvenimenti, lotte sociali e guerre imperialiste sul territorio libico. Alla fine del secondo decennio, un nuovo immenso fronte di guerra si è aperto nel Paese, riducendo il territorio a terreno di conquista di « civilissimi mercenari » di tutte le risme e di un’accolita di potentati locali in lotta aperta gli uni contro gli altri.

Iniziate nel 2011 come lotte sociali e politiche, nate da un innesco di lotte operaie a partire da Egitto, Libia, Tunisia e Algeria, le rivolte nordafricane (le cosiddette « primavere arabe ») si sono estese poi a tutto il Medioriente. Di fronte alle spiagge della sponda sud del Mediterraneo, una calca impaurita di migranti si aggira sulle rive dell’inferno (un mare che si trasformerà ancora una volta in un immenso sudario) in attesa dei barconi, una massa di civili disarmati, uomini, donne e bambini, di proletari votati alla disperazione e alla morte e di prigionieri fuggiti dai lager dispersi nel deserto, attraversato da una rete di gasdotti e oleodotti.

Dopo un susseguirsi di scontri politici e sociali, lanci di missili, blocchi navali e bombardamenti aerei, l’alleanza imperialista costituita dalle potenze petrolifere di Francia, Italia, Gran Bretagna e Usa sotto il comando Nato, miserabile associazione di macellai e di briganti, ebbe, e non poteva essere altrimenti, la meglio contro il « Piccolo Cesare » Gheddafi, governatore di un’entità statale del tutto precaria o, come dicono oggi, « liquida », capro espiatorio di un contesto molto più grande di lui, destinato a scontrarsi con le potenze internazionali e le realtà locali ribelli materializzatesi attorno alle materie prime. E il Paese fu messo a ferro e fuoco. Risultato finale : la divisione in due aree dello spazio costiero e del suo retroterra desertico, ricco di petrolio attorno al golfo della Sirte – la Cirenaica e la Tripolitania. In poco tempo, la seconda guerra libica nel 2014 e poi la terza nell’aprile del 2019 si fanno strada da Bengasi verso Tripoli, vero obiettivo sulla costa occidentale, ambito dal generale Haftar.

Al centro della dinamica della guerra sono, dunque, gli affari petroliferi, cui sono interessati Francia e Italia, e quelli geostrategici che si sporgono nell’area del Mediterraneo orientale che da Cipro porta alla Libia. Qui convergono gli interessi non solo della Grecia e della Turchia, ma anche della Siria, del Libano e di Israele, oltre che della Russia (con le sue basi militari e strategiche di Latakia e Tartus) e della Cina (Pireo). La schizofrenia interventista prepara, con l’invio di armi, la spartizione della Libia, il cui fulcro si definisce attorno ai porti di Sirte e Misurata. Il gioco delle alleanze e degli scontri tra i diversi imperialismi nell’area accresce la generale pressione militare, che spinge rapidamente i due fronti di guerra l’uno contro l’altro.

All’inizio della primavera 2019, la Libia sprofonda di nuovo nel conflitto armato. La frattura tra la capitale Bengasi di Haftar (base dell’attuale Esercito nazionale libico) e la capitale Tripoli di Serraj (base del Governo sostenuto dall’Onu e obiettivo di un’illusione federativa) si allarga con lo spostamento dei combattimenti alla periferia Nord-occidentale della città di Tripoli verso l’Aeroporto internazionale, e da qui verso Sirte, finita nelle mani di Haftar. Da questa debole situazione nasce l’appoggio a Serraj delle truppe mercenarie turche, cui risponde la “chiamata alle armi” del generale Haftar. Da una parte e dall’altra, ecco i protettori di turno dei due fronti, quello costituito da Russia, Francia ed Egitto e quello dei Sauditi e degli Emirati Arabi (i maggiori acquirenti di armi americane), oggi sostenuto anche da Erdogan. Pur subendo l’attacco missilistico a Tripoli che falcia al suolo una trentina dei suoi miliziani, Sarraj alza la voce imponendo agli europei di non mettere i piedi sul suolo libico, perché « basta e avanza », per la resa dei conti, la presenza turca dei mercenari jiadisti e l’utilizzo delle basi aeree algerine, cui l’Algeria ha dato il consenso.

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Nel caos che ha scosso l’intero Medioriente, dalla Siria allo Yemen, con decine di migliaia di morti, hanno fatto da corollario e da accompagnamento le manifestazioni funebri (50 i morti e 200 i feriti nella calca) per l’uccisione di Soleimani e del suo seguito. Come si sa, la « vendetta patriottica » iraniana, i 22 missili lanciati sulle basi americane in Irak, ha avuto come « effetto collaterale » i 176 morti per l’abbattimento da parte della contraerea iraniana del Boeing 737 delle linee ukraine partito da Teheran. Il proletariato irakeno e iraniano, che nei mesi passati, nel mezzo di una grave crisi economica, si era battuto coraggiosamente contro le classi dominanti dei due paesi, accusandole di corruzione, immiserimento della popolazione e sfruttamento delle condizioni di vita e di lavoro e protestando per il rincaro dei carburanti, per il petrolio razionato, per i sussidi all’industria petrolifera, aveva avvertito l’orrore che veniva montato dietro le sue spalle: nel corso degli scontri, la repressione aveva lasciato sul terreno dai 350 ai 1500 morti a secondo delle varie fonti, mentre per un’intera settimana era stato spento Internet per impedire che le masse, nelle diverse località, riuscissero a sentire il polso e le potenzialità della loro lotta. Il governo iraniano ha poi nascosto i dati ufficiali delle vittime, ma si ritiene che la repressione sia stata anche più violenta di quella messa in moto della cosiddetta rivoluzione khomeinista del 1979, quando, nelle più diverse località, gli operai di moltissime fabbriche scesero in lotta con straordinaria determinazione.

Ma chi era Soleimani? Un generale dei pasdaran, un ingranaggio della repressione e del potere politico, bene inserito nel meccanismo degli affari economici e religiosi: una sorta di terminator, in Siria, in Libano, in Yemen, attivo nel sedare le proteste con un numero di morti cresciuto esponenzialmente. Nel corso della guerra siriana di tutti questi anni, i vari commentatori gli hanno riconosciuto una straordinaria capacità operativa in funzione « antiamericana », che avrebbe « saputo erodere » (così dicono) spazi agli Stati Uniti di Trump: in realtà, il generale ha condiviso con gli americani il lavoro sporco della repressione, confondendo le sue milizie con le masse in rivolta e attaccando i movimenti di lotta nati spontaneamente. La sua morte violenta ha rinsaldato la dittatura della classe al potere, offrendole l’occasione di rinfocolare il sentimento nazionalistico e religioso, compattando la legittimità imperialista, tanto iraniana e irakena quanto americana, e collaborando con le cosiddette opposizioni interne al regime: quella piccola borghesia che da molti anni gioca a sostenere la borghesia iraniana.

La soluzione di sbattere fuori gli americani via dall’Irak è poi un’altra di quelle boutades che non fanno più ridere e lasciano il tempo che trovano: del tipo « fuori dalla Nato!». Il governo irakeno non può farlo in quanto è un « governo è di transizione », costretto a dare le dimissioni dalle proteste nelle piazze. D’altronde, il regista attivo della repressione attraverso la rete delle milizie da lui stesso addestrate è stato proprio Soleimani. La realtà è che gli USA non andranno mai via, né dal Medioriente né dall’Afghanistan né dall’Africa. « Restituiteci prima tutto quello che abbiamo speso per voi », abbaia Trump, dimenticando che l’Irak dei proletari e dei disperati della Prima e della Seconda guerra del Golfo è stato fatto a pezzi, mentre la classe borghese è stata ricollocata al suo posto di lavoro. Tra repressione militare e pace cimiteriale, si consuma in Medioriente un esercito di mercenari, una montagna di armi, un immenso arsenale di missili pronti ad essere lanciati.

Mentre le masse proletarie iraniane hanno mostrato, nei giorni successivi ai funerali di Soleimani e alla mobilitazione patriottica orchestrata dal regime, di non voler arretrare dal manifestare la propria rabbia e decisione di battersi contro chi li affama, è necessario che i comunisti, prendendo apertamente le distanze da queste mobilitazioni montate ad arte, riaffermino che il nemico è in Iran e in Irak come negli Stati Uniti e in Israele, e in tutti gli altri paesi: il nemico è il modo di produzione capitalistico ed è esso che deve essere distrutto. Sorga quindi imponente il bisogno di riscatto del proletariato, e con esso la decisa azione di disfattismo rivoluzionario che attacchi il militarismo borghese, ovunque esso si trovi. E, sotto la direzione del partito di classe rivoluzionario, rinasca la prospettiva della presa del potere e dell’instaurazione della sua dittatura. I proletari non hanno patria! Il grido di battaglia non può che essere lo stesso di sempre: «Proletari di tutto il mondo, uniamoci!».

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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