DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Dalla fine della seconda guerra mondiale è in corso nell’America Latina un profondo rivolgimento economico, sociale e politico. Le convulsioni sociali, determinate dal conflitto in tutta l’area soggetta al regime coloniale, non potevano risparmiare il sub-continente latino-americano, che, benché da oltre un secolo avesse spezzato gli antichi vincoli coloniali, restava e resta ancora allo stato di para-colonia del capitale finanziario imperialistico.

Molto si scrive sul risveglio dell’America Latina e molto spesso si parla di rivoluzione, quando non si discute addirittura sulle "strutture feudali" che sarebbero ancora presenti nella compagine sociale. Per determinare il peso effettivo degli avvenimenti latino-americani, la loro natura e sbocco sociale, occorre sapere definire le grandi linee della evoluzione storica del sub-continente. Fedeli al determinismo sappiamo che nulla accade nel presente che non sia condizionato da avvenimenti non di rado situati nel remoto passato. La generazione spontanea, dimostrata falsa in biologia, è del tutto assente anche nella evoluzione storica. Tale verità balza agli occhi specialmente nello studio dei paesi che sono rimasti indietro nel cammino del progresso. In essi le strutture della società restano cristallizzate, e mutano con esasperante lentezza, perché le influenze dei rivolgimenti del passato perdurano ostinatamente e il "nuovo" non può rigenerarsi per puro atto di volontà collettiva.

Nella società latino-americana troneggia un ostacolo che sembra inamovibile ed eterno come le gigantesche rovine degli antichi monumenti pre-colombiani: la grande proprietà terriera. L’ultimo secolo di storia dell’America Latina che coincide con la storia della indipendenza delle venti repubbliche del sub-continente può riassumersi, senza paura di cadere nel semplicismo, in una frase: la lotta ostinata contro le oligarchie terriere, detentrici del monopolio della ricchezza e del potere politico. La lotta ha assunto, nel corso dei decenni, aspetti diversi, a mano a mano che nel campo nemico dell’aristocrazia terriera affluivano i diversi strati sociali generati dalla evoluzione storica: la piccola borghesia urbana e intellettuale (le famose clases medias), gli imprenditori industriali e commerciali e, dalla fine del secolo scorso, i primi nuclei del proletariato salariato socialista. La lotta pro e contro l’aristocrazia fondiaria ha rappresentato nella tormentata storia delle repubbliche latine-americane, densa di aspre competizioni politiche, di rivolte, di colpi si Stato, di sanguinose guerre civili, lo scontro tra la conservazione e il progresso, tra la reazione e il rinnovamento (attribuendo naturalmente il senso esatto a questi termini che stanno tutti nell’analisi di una struttura tendente al capitalismo).

Tale fenomeno non è unico nella storia del capitalismo. Anzi, tutte le rivoluzioni antifeudali in Europa, comprese quelle inglese e francese, sono passate attraverso un periodo che ha visto accendersi la rivalità tra le due grandi branche delle sezioni della classe dominante borghese: i proprietari fondiari e gli imprenditori industriali. In ogni caso la resistenza dei proprietari fondiari veniva piegata e l’agricoltura diventa la docile vassalla del capitale finanziario e industriale. Eco dottrinaria del conflitto restano le opere degli economisti classici borghesi, specialmente nella scuola ricardiana, che riconoscono alla classe degli imprenditori industriali il diritto al primato sociale.

Bisogna allora spiegare le cause della eccezionale capacità di resistenza della proprietà fondiaria latino-americana. Per prima cosa bisogna liberarsi della facile tentazione di vedere in essa un residuo feudale. Il vero feudalesimo nell’impero coloniale che Spagnoli e Portoghesi si crearono nelle Americhe, al principio del secolo XVI, non è mai esistito, non fosse altro per il fatto che il feudalesimo, al momento delle grandi scoperte geografiche e della introduzione del regime coloniale, era dovunque in declino. Ma la ragione specifica del mancato trapianto nelle colonie delle strutture feudali ancora in auge nelle metropoli è da ricercarsi nella politica delle Monarchie assolute che, venute in possesso di vastissimi imperi coloniali, si guardarono bene da creare nei paesi d’oltremare un duplicato della nobiltà terriera ereditaria, che tenacemente combattevano nelle metropoli. Al contrario, Spagna e Portogallo imposero alle colonie una pletorica burocrazia statale che, dal centro alla periferia, controllava minuziosamente ogni attività del coloni trapiantati nelle terre oltremarine.

La encomienda, cioè la concessione di vasti appezzamenti di terreno che il sovrano accordava ai coloni "creoli", non ripeteva che soltanto in apparenza il sistema del feudo. L’encomendero era il signore assoluto, non solo della terra, ma della popolazione india e degli schiavi negri che lavoravano da bestie nelle piantagioni. Tuttavia, il diritto della trasmissione ereditaria del possesso, che nel feudalesimo europeo ebbe per effetto la formazione di una nobiltà ereditaria, non era riconosciuto al fazendiero e allo estanciero. Infatti la Corona si riservava il diritto di revocare la concessione della encomienda quando fosse trascorso un periodo prestabilito, che andava fino ad un massimo di due generazioni.

Tale menomazione del diritto di proprietà e la esosa fiscalità praticata dalla mobilitazione di funzionari coloniali della Corona, che, ad onta dei vincoli di razza e di lingua, trattavano con alterigia l’aristocrazia creola, il divieto di commerciare con altri porti che non fossero quelli della metropoli, dovevano, a lunga scadenza, gettare i semi della rivolta nei pur spietati sfruttatori e oppressori dei lavoratori indigeni e degli schiavi negri. Avvenne così che una classe che era ultra-reazionaria nei confronti dei lavoratori locali, ai quali ogni tentativo di rivolta veniva fatto pagare con feroci repressioni, divenne rivoluzionaria nei confronti della potenza colonialista metropolitana. E quando venne il momento essa non esitò a lanciarsi in una vera guerra civile, pretendendo le armi contro gli eserciti imperiali che pure parlavano la sua stessa lingua.

Tale è, a nostro parere, la caratteristica essenziale della rivoluzione nazionale dell’America Latina. In Europa, specialmente la rivoluzione contro l’assolutismo monarchico, significò la liberazione dei servi della gleba, anche se alla antica servitù doveva sostituirsi più tardi la nuova moderna schiavitù del lavoro salariato. Nell’America Latina, invece, la classe dei piantatori, proprietari di immense aziende agricole e di eserciti di schiavi di colore, si levò contro l’assolutismo spagnolo e portoghese anzitutto per liberarsi del controllo burocratico della Corona e potere possedere in maniera totale e incontrastata i propri beni, per potere perpetuare a suo esclusivo vantaggio il lavoro schiavistico e la dominazione di razza.

L’aver partecipato direttamente e attivamente alla rivoluzione anticoloniale spiega la incrollabilità delle posizioni che l’aristocrazia terriera creola assunse nella struttura sociale, che venne a formarsi nel quadro della nuova repubblica latino-americana. La rivoluzione nazionale latino-americana, che seguì di poco la rivolta delle tredici colonie nord-americane contro l’Inghilterra, fu contemporanea della Rivoluzione Francese e delle guerre napoleoniche essendosi svolta nel periodo che va, con alterne vicende, dal 1808 al 1823. I ribelli antispagnoli si entusiasmarono agli ideali libertari e democratici e vollero farsi paladini dei principi di Rousseau, di Voltaire, di Montesquieu. Ma, alla fine, furono impotenti a rimuovere l’ostacolo della grande proprietà fondiaria e schiavistica. Anzi fu la aristocrazia terriera creola a cogliere tutti i frutti del grandioso rivolgimento. E ciò accade, ripetiamo, perché il campo democratico e progressista, che pure ebbe capi leggendari come Miranda, Simone Bolivar, Josè di San Martin, non poté combattere efficacemente contro una classe che partecipava al movimento di rivolta contro la Spagna e il Portogallo. E ciò rappresentò una vera tragedia per l’America Latina. Se la rivoluzione non poté assicurare la continuazione dell’unità politica dei sotto continentali, ciò accadde proprio per la tenace e aspra opposizione della classe dei proprietari fondiari che fecero fallire i generosi progetti di federazione continentale, sostenuti da Simone Bolivar, e quindi condannarono allo spezzettamento e alla impotenza economica l’immenso territorio del tramontato impero ispano-portoghese.

L’America Latina possiede grandi risorse minerarie e agricole, ma lo sfruttamento delle risorse naturali è ostacolato fortemente dalla difficoltà delle comunicazioni. Estendendosi per grande parte del territorio entro la zona torrida, il subcontinente presenta caratteristiche fisiche che condannano all’isolamento immense regioni: lo sterminato manto della foresta vergine che copre i territori solcati dallo Equatore, gli aridi deserti tropicali, le savane, le steppe, il regime idrico di gigantesche arterie fluviali, che sovente inondano vaste regioni. E, da un capo all’altro, il formidabile sbarramento delle Ande e delle Montagne Rocciose, che rinserrano tra i loro fasci montuosi ampi altopiani elevatissimi fino a 3.000-4.000 metri. Si comprende come in una regione che la natura ha foggiato in modo che le comunicazioni risultino disagevoli se non addirittura impossibili, lo spezzettamento politico può sortire l’unico effetto sicuro di aggravare le condizioni in cui si svolge il lavoro dell’uomo e rendere difficile il progresso economico.

Il grande progetto degli "Stati Uniti del Sud", generosamente sostenuto da Simone Bolivar, se accettato, avrebbe certamente, è superfluo dirlo, avviato l’America Latina verso un grandioso avvenire. Ma il progetto dispiacque all’aristocrazia terriera del Brasile, dispiacque ai coloni nordamericani della Virginia, incontrò soprattutto la disapprovazione dell’Inghilterra, che pure era la grande amica degli insorti sud-americani. Si sa che la tradizionale rivalità con la Spagna, che momentaneamente la necessità di lottare contro Napoleone aveva messo a tacere, spinse l’Inghilterra ad appoggiare la rivolta delle colonie spagnole. Armi, volontari, navi e denaro, forniti con larghezza agli insorti, concretarono le simpatie politiche britanniche. Ma non si trattava evidentemente di un aiuto disinteressato. Il capitalismo britannico tendeva a favorire lo sfacelo dell’impero spagnolo per la ragione che spinge tutti gli Stati ad aiutare i nemici dei propri rivali imperialistici: il desiderio di crearsi nuovi mercati esteri. Ora è chiaro che la unificazione dell’America ex-spagnola in una grande confederazione, quale sognava Bolivar, avrebbe posto sul cammino della penetrazione economica inglese un ostacolo non facilmente superabile.

Gli stessi interessi di classe, sebbene riguardanti obbiettivi diversi, spingevano l’aristocrazia terriera creola ad avversare i piani di unità continentale sostenuti da Bolivar e dalle forze politiche che egli impersonava. Agli occhi dei proprietari di schiavi, i capi alla Bolivar, alla San Martin, alla Morales, che compivano le loro epiche imprese rivoluzionarie guidando eserciti misti che comprendevano, insieme ai creoli, gli indios e i meticci, rappresentavano un pericolo. La liberazione degli schiavi, l’elevamento delle condizioni di vita della popolazione india e meticcia non avrebbero sovvertito la basi sociali sulle quali riposava il regime economico della grande proprietà terriera e delle piantagioni? Ciò non poteva essere tollerato dalla oligarchia terriera che si era ribellata alla burocrazia coloniale spagnola proprio perché il regime di monopolio e la fiscalità imperiale intaccavano i loro privilegi. I proprietari di schiavi ebbero motivo di temere che l’unificazione politica del sub-continente comportasse il rafforzamento del movimento democratico e interrazziale.

In tal modo, gli interessi schiavistici dei proprietari fondiari del Brasile e le mire imperialistiche della Gran Bretagna si coalizzarono contro Bolivar. Non solo gli "Stati del Sud" restarono un sogno irraggiungibile ma la stessa formazione statale che Bolivar era riuscito a imbastire si scisse nel 1821 nei tre Stati indipendenti di Colombia, Venezuela, ed Ecuador. I proprietari negrieri del Brasile facevano scuola. Di lì a poco anche le attuali repubbliche centro-americane (Honduras, Guatemala, Costa Rica, Salvador, Nicaragua) sciolsero una unione statale che avevano formato nel 1823, completando il processo di smembramento e di frazionamento dell’ex impero coloniale.

Ciò è quanto dire che la rivoluzione anticoloniale dell’America Latina si concludeva con il pieno trionfo delle oligarchie terriere. Non soltanto di esse. Dello smembramento dovevano approfittare in un primo tempo, e per poco, gli Stati Uniti, che riuscivano a conquistare qualche posizione commerciale nel sub-continente; ma dovettero ben presto cedere il campo all’Inghilterra. Si spiega così come nella seconda metà del secolo scorso la direzione degli affari economici dell’America Latina cadde completamente nelle mani dei capitalisti inglesi, seguiti a ruota dai francesi, belgi e tedeschi. Le banche, le miniere, le ferrovie, i telefoni, le centrali elettriche, il caffè, il cacao, ecc. sfuggivano praticamente al controllo dei governi locali.

Naturalmente, gli investitori di capitali stranieri facevano di tutto per impedire qualsiasi riforma democratica mirante a sottrarre il paese al monopolio industriale straniero. Per i capitalisti europei, soprattutto inglesi, ogni fabbrica che sorgesse nelle aree sottoposte alla loro influenza significava un attentato al loro primato industriale; nel migliore dei casi, un inutile copione. Naturalmente, gli interessi degli imperialisti convergevano con quelli dell’aristocrazia terriera, che nella politica di riforme, sostenuta dalle correnti democratiche e radicali, scorgevano un pericolo mortale per i loro privilegi. L’industrializzazione non significava retrocessione dell’economia agraria?

In tal modo, la classe dei proprietari fondiari, che aveva al suo servizio la Chiesa e l’esercito, accettava che l’imperialismo straniero, in cambio dell’appoggio politico e militare, prelevasse un pesante tributo, che in fondo non intaccava i suoi profitti, essendo tratto dal sudore e dal sangue delle classi lavoratrici, oppresse da una povertà spaventosa che certo non è oggi finita.

Si comprende come la struttura sociale dell’America Latina, fondata sulla supremazia e sul privilegio illimitato delle oligarchie terriere e dei loro strumenti politici, e sulla assoluta mancanza di diritti da parte delle classi inferiori, sia durata così a lungo. Una lunga serie di battaglie politiche, di rivolte, di colpi di Stato, e spesso di sanguinose guerre civili non potevano, come non hanno potuto, estirpare l’odiato privilegio fondiario, perché esso, oltre che alle forze proprie, era appoggiato alle potenze imperialistiche straniere. A queste non è servito l’intervento armato nelle faccende interne dell’America Latina, salvo in pochi casi. Bastava stringere il cappio del ricatto economico attorno al collo dei governi progressisti e antimperialistici che osavano porre in discussione l’ordine esistente per provocarne la caduta o, come accadeva nella maggioranza nei casi, per indurli a cambiare casacca.

L’alleanza di ferro tra la aristocrazia terriera, politicamente rappresentata dal militarismo, e il capitale finanziario straniero, la soggezione della prima al secondo, non è fatto originale, esclusivo dell’America Latina. La dominazione di classe del capitalismo si regge proprio sulla identificazione degli interessi della proprietà agraria e del capitale imprenditoriale, nei confronti delle classi lavoratrici. Naturalmente, l’economia agraria e l’economia industriale hanno ritmi di sviluppo differenti, e ciò provoca attriti tra proprietari fondiari e capitalisti industriali; ma siffatti contrasti spariscono di incanto, quando si tratta di coalizzare le forze dello sfruttamento contro le classi lavoratrici. Quanto accade, da oltre un secolo, nell’America Latina è, dunque, la regola, non certamente la eccezione, del meccanismo dello sfruttamento capitalista. Di particolare c’è che la fusione  – al di sopra delle frontiere e della facile retorica nazionalista dei regimi militari sud-americani – della oligarchia terriera locale e del capitale finanziario straniero ha tenuto l’America Latina completamente fuori della rivoluzione industriale del secolo scorso, gettandola nelle condizioni di una colonia finanziaria dell’imperialismo.

Su tale argomento, come sugli aspetti sociali e politici dell’arretratezza latino-americana, converrà ritornare; per il momento qualche cifra basterà. Orbene, alla vigilia della crisi del 1929, i prodotti grezzi costituiscono in tutti i paesi sud-americani almeno l’80%, generalmente più del 90%, talvolta la quasi totalità delle esportazioni, mentre gli articoli manifatturati non entrano, nelle vendite all’estero, che per una percentuale quasi nulla. Ancora oggi, il valore delle derrate alimentari e materie prime raggiunge il 90% delle complessive esportazioni verso le altri parti del mondo. Emerge da ciò il carattere meramente coloniale della economia latino-americana, che, per essere fornitrice di materie prime alle industrie straniere e acquirente dei prodotti industriali, giace allo stesso livello dell’Africa.

Perché qualcosa di nuovo maturasse nella struttura sociale latino-americana, occorreva che si determinasse almeno una interruzione del meccanismo tradizionale dello sfruttamento del subcontinente. E ciò è accaduto durante la seconda guerra mondiale. Già all’epoca della prima guerra mondiale, le morse della tenaglia imperialistica si erano allentate alquanto, ma con l’effetto sicuro di permettere al giganteggiante imperialismo nord-americano di strappare importanti posizioni finanziarie ai capitalisti rivali di Europa. La seconda guerra mondiale, invece, veniva a spezzare bruscamente le relazioni commerciali tra l’America Latina e gli empori dell’Europa occidentale. Mentre l’Inghilterra doveva lottare ferocemente per salvare la propria esistenza ed era costretta a trascurare i propri vassalli finanziari sud-americani, gli Stati Uniti, anch’essi impegnati nell’immane conflitto dei continenti, potevano approfittare solo in parte della situazione. Infatti la grande offensiva finanziaria di Zio Sam ebbe luogo negli anni del dopoguerra e non si può dire certamente esaurita al momento presente.

Approfittando delle condizioni di isolamento, provocate dalla guerra, e maneggiando lo stesso capitale nord-americano, le forze di punta dello schieramento anti-oligarchico gettavano in alcune repubbliche, specialmente nelle più importanti quali il Brasile e l’Argentina, le basi della industria nazionale. Nasceva così l’industria siderurgica, fatto assolutamente nuovo nel regno assoluto delle haciendas e delle estancias. E, con l’ingresso della grande industria, prendevano corpo nuove ideologie politiche e nuovi tipi di regimi politici, quali il "giustizialismo" di Peron, che spostava le basi tradizionali delle alleanze anti-oligarchiche. Dalla fine del secolo scorso, il movimento operaio che sorgeva in quei tempi aveva appoggiato vigorosamente tutte le battaglie politiche delle classi medie contro l’oligarchia terriera e il militarismo che politicamente ne rappresentava gli interessi. Il peronismo, espressione degli interessi della nascente borghesia imprenditoriale che si vede ostacolata dall’ottuso conservatorismo della aristocrazia terriera, intese procacciarsi l’appoggio della classe operaia, e non si può negare che ci riuscì.

Oggi l’America Latina è in pieno fermento. Le dittature militariste sono crollate dovunque, tranne che nel Paraguay e a San Domingo. E ciò significa che la secolare dominazione dell’oligarchia agraria dà segni palesi di cedimento. Ma la svolta serba un grave pericolo per il movimento operaio, appunto il pericolo giustizialista che, sotto la copertura ideologica della lotta alle oligarchie agrarie universalmente odiate, cerca contrabbandare l’interclassismo, arma dell’inquinamento riformista della classe lavoratrice.
 

(da “Il Programma Comunista”, n. 14 e 15, 1959)

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