DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La grandiosa epoca di sovvertimenti rivoluzionari aperta in Asia dalla Seconda Guerra Mondiale dura. Il gigantesco terremoto sociale che ha chiamato alla ribalta della storia centinaia di milioni di persone, appartenenti a diecine di nazioni e razze diverse, unite sotto il comune segno della rivolta all'imperialismo bianco, si prolunga in progressivi scuotimenti. La storia del mondo capitalista è ad una svolta, al di là della quale si intravedono convulsioni tremende, naufragi di secolari imperi coloniali fino a ieri dominanti sull'Europa e sul mondo. Sotterranee forze storiche rimaste assopite per millenni sono capaci di generare concentramenti di potenza industriale politica e militare finora sconosciuti. La stessa supremazia della razza bianca nel mondo, conseguita parallelamente allo sviluppo del capitalismo nell'Occidente, subisce profonde incrinature. Il fatto che alla Conferenza di Ginevra, i rappresentanti dei massimi poteri statali dell'imperialismo abbiano dovuto trattare con una potenza, la Cina, che fino a venti anni fa era una passiva pedina nelle mani delle cancellerie europee, dimostra che i padroni del mondo sono costretti a fare posto a nuove potenze. E che avverrà, allorché i nuovi Stati indipendenti dell'Asia, che possono disporre di ricchissime fonti di materie prime e di sterminate riserve di mano d'opera, avranno costruito formidabili apparati industriali e autonome macchine belliche?

Le rivoluzioni nazional-popolari di Asia dilagano. Esse sono il prodotto dell'esplosione del secolare odio delle masse lavoratrici e delle nazionalità oppresse, che il regime coloniale manteneva in umilianti condizioni di inferiorità economica, nazionale e persino razziale. Condizioni di servitù tanto più insopportabili in quanto contrastanti con la potenziale ricchezza dell'Asia, serbatoio di materie prime dell'intero pianeta. Ma la riscossa nazionale dei popoli asiatici ha potuto raggiungere piena vittoria per due fondamentali cause: 1) la lotta a fondo contro le arcaiche sovrastrutture sociali e i reazionari modi di produzione precapitalisti, e addirittura pre-feudali, che hanno permesso di realizzare la coalizione delle classi nel quadro nazionale secondo il modello della rivoluzione giacobina del 1789; 2) la crisi permanente dell'imperialismo.

Conviene esaminare, anzitutto, il secondo punto per sgombrare il terreno dalle influenze delle opposte propagande imperialiste, che impediscono una esatta visione dei rivolgimenti asiatici.

I governi dell'Europa occidentale, la Francia e l'Inghilterra specialmente, tradizionalmente hanno protetto la schiuma della speculazione e del carrierismo burocratico calati dalle metropoli sui ricchi pascoli coloniali di Asia e di Africa. Oggi essi lavorano sfacciatamente – per dissimulare la propria ignominiosa impotenza – sull'argomento della sobillazione e dell'aiuto militare fornito ai regimi nazionalisti dell'Asia dal governo della Russia. Secondo la tesi propagandistica di Washington, Londra, Parigi – e dei loro satelliti – le rivoluzioni anticoloniali costituirebbero una colossale operazione pianificata dello Stato Maggiore russo mirante allo scopo di portare i carri armati russi a Hong-Kong, a Singapore, a Bombay. In altre parole, la rivoluzione di Mao-tse-tung sarebbe l'equivalente asiatico del colpo di Stato russo in Cecoslovacchia del febbraio 1948. Argomento infantilmente poliziesco.

Da parte sua, il governo di Mosca – e i suoi satelliti statali e politici – non fanno nulla per discreditare la tesi occidentale, anzi – con una sincronia non rara nei rapporti russo-occidentali – si sforzano di dare ad essa il massimo rilievo. Se gli stessi governi rivali atlantici fabbricano il mito dell'onnipotenza russa in Asia e attribuiscono alla Russia il brevetto delle rivoluzioni nazionaldemocratiche, sarebbe davvero da sciocchi pretendere dal governo di Mosca – che certamente brama di scavarsi canali di penetrazione politica e commerciale nel magma incandescente del nuovo ordine asiatico – un diverso comportamento. Fatto non strano, la Russia adopera tutte le risorse della propaganda politica per imprimere nella mente dei popoli asiatici la nozione della indispensabilità della guida russa nella lotta contro l'imperialismo. Ma certamente l'arma propagandistica più efficace è fornita a Mosca proprio dalle accuse delle potenze occidentali.

Il comportamento dei governi occidentali si spiega col fatto che essi non possono ammettere che la ribellione delle nazionalità oppresse dell'Asia (e dell'Africa) scaturisca inarrestabilmente dal profondo secolare odio provocato dalla politica di rapina e di vergognosa oppressione condotta tradizionalmente dalle potenze coloniali. La verità è che i popoli dell'Asia e dell'Africa hanno assaggiato troppo lo sfruttamento dei colonialisti per aver bisogno della sobillazione russa. D'altra parte i superbi dominatori dei continenti e degli oceani non possono riconoscere che le conseguenze obiettive della Seconda Guerra Mondiale li hanno messi, alla fine del conflitto, nella materiale impossibilità di restaurare in Asia lo status quo prebellico. È facilmente comprensibile che, addossando al governo di Mosca, accusato di disegni tenebrosi e di non si sa quali occulte macchinazioni infernali, tutta la responsabilità degli avvenimenti asiatici, i decadenti governi di Parigi e Londra mirino a stornare da sé il pericolo di dover confessare lo stato di disgregazione in cui versa il colonialismo e, quel che conta di più, la limitatezza delle possibilità repressive dei pur mastodontici colossi dell'imperialismo.

È possibile misurare fino a che punto le rivoluzioni nazionali e i movimenti indipendentisti delle nazioni asiatiche, culminati nella costituzione di Stati che per popolazione sono i più grandi del mondo, abbiano usufruito dell'appoggio di Mosca. I fatti stanno lì a mostrare che l'area continentale, nella quale si sono originate le cosiddette "aggressioni comuniste" è soltanto una parte del vastissimo teatro geopolitico, comprendente un territorio di oltre 17 milioni di Kmq e una popolazione di oltre un miliardo di persone, in cui si è scatenata la rivolta contro l'imperialismo bianco. Infatti, di questo enorme settore fisico ed etnologico del pianeta, la cosiddetta Asia "rossa", la pretesa Asia "comunista", in tal modo denominata solo perché il regime dominante si richiama surrettiziamente alla teoria e ai simboli del comunismo marxista, si riduce – a conti fatti – alla Cina e alle sue dipendenze. La Corea del Nord, infatti, fu istituita, come la Corea del Sud, a seguito di una transazione concordata delle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale (Stati Uniti, Russia, Inghilterra, ecc.) che, ripetendo le geniali invenzioni del Trattato di Versailles, scelsero il 38° parallelo come artificiale linea di demarcazione dei due semi-Stati.

A migliaia di miglia di distanza, l'altra "vittima dell'aggressione russa", l'Indocina, benché le forze rivoluzionarie nazionaliste di Ho Ci-min siano in netta superiorità sugli occupanti francesi, è ancora lontana dal raggiungere un definitivo assetto.

La Cina rimane con le sue dipendenze, a tutt'oggi, l'unico grande Stato "comunista" sorto in Asia a seguito di una lotta rivoluzionaria contro l'imperialismo capitalista. La Cina per l'estensione del suo territorio (Kmq 9.736.000) è lo Stato più vasto dell'Asia; per la sua popolazione (467.802.000 abitanti) è lo Stato più grande del mondo. Se lo si confronta alla estensione e alla popolazione complessiva di tutti gli Stati indipendenti sorti in Asia dal 1948 al 1950, in cui sono da annoverare l'India, l'Indonesia, il Pakistan, la Birmania, le Filippine, la già citata Corea, Ceylon, ci si avvede che l'enorme spazio cinese si accaparra – facendo i calcoli con approssimazione – più della metà della parte del continente asiatico sottratto al diretto controllo politico delle metropoli capitaliste di occidente. È una fetta immensa, ma non tutta la torta.

Va da sé che le misurazioni del territorio e il censimento della popolazione non sono criteri sufficienti per stabilire il grado di potenza politica e militare degli Stati, la quale deve rapportarsi anzitutto al potenziale economico-industriale. Ma, trattandosi di Stati che pur disponendo di immense riserve di materie prime, spesse volte sfruttate solo marginalmente, si avviano soltanto ora per la strada del moderno industrialismo, altro criterio non esiste. Ad esempio, Cina ed India posseggono entrambe vasti giacimenti di carbone e di ferro, elementi di base dell'industria siderurgica e meccanica. Inoltre la Cina produce antimonio e tungsteno che costituiscono rispettivamente il 60% e il 50% della produzione mondiale; l'India, da parte sua, produce i due terzi della mica venduta sul mercato mondiale; ha una imponente produzione di manganese, rilevanti giacimenti di bauxite. E abbiamo accennato, con la inevitabile sommarietà a cui ci condanna la pochezza del nostro spazio tipografico, soltanto alle massime fonti di materie prime. È chiaro che solo l'avvenire potrà permetterci, fornendoci il consuntivo del piano quinquennale di industrializzazione inaugurato l'anno scorso da Pekino, di assodare se la supremazia etnica e territoriale della Cina può ritenersi estesa anche al campo industriale.

Quel che importa qui è di mostrare che non tutti i rivolgimenti storici, verificatisi in Asia dopo la guerra mondiale, possono spiegarsi con la rancida storiella degli intrighi di Mosca. In realtà, se la causa prima della cacciata dei dominatori bianchi dall'Asia è da ricercarsi nella rivolta delle nazioni oppresse, che covava da secoli, le condizioni obiettive in cui le rivoluzioni demo-nazionali asiatiche si sono originate, hanno lottato e trionfato non sono affatto da individuare nella politica delle grandi potenze imperialiste di occidente, Russia compresa. La politica degli Stati occidentali e della Russia nei confronti dell'Asia è improntata, in ogni caso, al principio di trarre il massimo vantaggio politico e militare da una complessa fase storica che ha originato forze impersonali di gran lunga più potenti dei governi. Attribuire alla Russia la responsabilità storica delle rivoluzioni anti-imperialiste d'Asia, significa fare credito al Cremlino di una formidabile potenza che esso non possiede. Il fulcro è altrove. Le condizioni obiettive che hanno reso possibile lo sganciamento dell'Asia dal predominio dell'imperialismo bianco, furono le conseguenze storiche della Seconda Guerra Mondiale, cioè del terribile sconvolgimento in cui precipitarono, per inflessibili leggi economiche, i massimi Stati capitalisti d'Europa e d'America.

L'occupazione giapponese dell'Asia continentale ed insulare che spaziò da Mukden a Rangoon, da Singapore a Batavia, travolse le potenze coloniali anglo-franco-olandesi dall'Indocina, dalla Birmania, dalla Malesia, dall'Indonesia, ecc. Il motto "l'Asia agli asiatici" servì, nella bocca dei generali nipponici, allo scopo di adombrare con ideologie liberazioniste a fondo razziale, l'espansionismo di provato tipo capitalista dello Stato di Tokio. Di ciò nessun dubbio. Ma è altrettanto vero che la pur breve dominazione giapponese umiliò per sempre il prestigio degli orgogliosi padroni bianchi, avvezzi da secoli a farsi ubbidire a colpi di bastone o con la semplice minaccia dei cannoni puntati degli incrociatori. Secoli di dissanguamento economico, feroci vessazioni inflitte da burocrazie coloniali avide e corrotte, mortali umiliazioni suggerite dalla boria razziale del superbioso dominatore d'oltremare, avevano ammassato un formidabile potenziale rivoluzionario nelle classi sfruttate e nelle nazionalità oppresse. Allorché i poteri coloniali crollarono come castelli di carta sotto i colpi delle armate del Mikado, allorché l'Asia intera si avvide che l'odiato oppressore bianco aveva perso il potere dell'invincibilità, essendo sgominato e messo in fuga da una potenza essa stessa asiatica, anche se posseduta da eguale bramosia di rapina e di soggiogamento, la dominazione bianca sull'Asia volse al tramonto.

In tali condizioni, la continuazione del predominio bianco sull'Asia poteva venire assicurata solo con una gigantesca operazione di polizia delle potenze occupanti. Impresa davvero irrealizzabile. Al suo confronto, la repressione della rivolta xenofoba dei "Boxers" cinesi del 1900, che fu esercitata da un corpo di spedizione delle maggiori potenze europee, diventava un gioco da ragazziPer riportare al potere le amministrazioni coloniali furiosamente odiate dalle popolazioni locali, per prorogare le condizioni di colonia dell'India che la Gran Bretagna aveva dovuto associare al proprio sforzo bellico, per reinsediare i funzionari olandesi in Indonesia, insomma per ristabilire in Asia le antiche influenze imperialiste, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe dovuto prolungarsi in una terribile appendice di stragi e di violenze inaudite. L'imperialismo ha indietreggiato, non ha osato lanciarsi in una impresa che lo spaventava, in quanto non se ne potevano prevedere le conseguenze. Infatti il proletariato d'Europa e d'America, dissanguato da una guerra feroce, avrebbe acconsentito a sopportare altri massacri per riportare l'Inghilterra, la Francia, l'Olanda nei loro possedimenti asiatici? Non avrebbe scoperto il colossale inganno della "guerra di liberazione" per cui era stato gettato sui campi di battaglia?

D'altra parte, la messa a ferro e fuoco dell'Asia, imponendo logoranti spese economiche, avrebbe finito per dissestare completamente le macchine produttive degli Stati europei, se è vero che due guerre mondiali hanno distrutto la superba posizione economica di una orgogliosa nazione quale la Gran Bretagna. L'imperialismo dovette deporre le armi, e con ciò lasciò indifese le sue posizioni in Asia.

Per assicurarsi la sopravvivenza delle metropoli, per evitare la rivolta del proletariato euro-americano, l'imperialismo dovette assistere passivamente negli anni immediatamente successivi alla guerra, alla rivolta delle nazioni oppresse dell'Asia. Avvenne così che le popolazioni di Giava, Sumatra, Celebes, Borneo, cacciarono via gli olandesi fondando la repubblica indipendente di Indonesia. L'Inghilterra, per salvare il salvabile, dovette cedere al nazionalismo indiano e dividere la "gemma della Corona britannica" negli Stati indipendenti di India e Pakistan: lo fece creando l'assurdo del Pakistan orientale, cui assegnò con ipocrita perfidia il compito di focolaio di guerra alla stregua del famigerato corridoio polacco. Ma gli eventuali conflitti tra l'India e il Pakistan non varranno certo a cancellare la decadenza di Londra. La bigotta borghesia, sapendosi impotente ad usare i metodi repressivi tenuti in serbo per la Malesia e il Kenya, dovette fingere simpatia per le aspirazioni nazionaliste dei popoli di colore. La Birmania si conquistò l'indipendenza, Ceylon la completa autonomia. Avvenne così che la rivoluzione democratico-borghese di Cina, iniziata nel 1911 dal movimento di Sun Yat Sen, temporaneamente arrestata dal regime di restaurazione di Cian Kai Sceck, riprendeva la sua corsa impetuosa gettando nel Mar Giallo le residue forze armate affittate alla reazione semifeudale interna e all'imperialismo americano.

Per ironia della dialettica storica, la Seconda Guerra Mondiale provocata dai contrasti imperialistici che in Europa erano giunti ad un intollerabile grado di acutezza, ha avuto per effetto non solo l'aggravamento degli squilibri sociali e politici negli Stati d'Europa, ma – fatto di incalcolabili conseguenze – ha provocato lo scoppio della gigantesca polveriera sociale dell'Asia. L'incendio faceva saltare le difese politiche di arretrate strutture economiche e sociali aprendo le dighe all'industrialismo capitalista; scrollava alle fondamenta l'equilibrio mondiale, imponendo una nuova spartizione del mondo. Ma avviandosi in direzione dell'industrialismo e della costituzione di vasti mercati nazionali, conseguenti alla rivoluzione agraria di tipo borghese, i nuovi grandi Stati indipendenti di Asia rifaranno la stesa strada percorsa dagli Stati capitalisti della vecchia Europa. Il bonapartismo cinese che tenta di esportare all'estero la rivoluzione democratico-borghese sulle punte delle baionette di Ho Ci-min avrà breve durata. Forse non avrà termine da una Waterloo asiatica, ma – come autorizzano a ritenere le evoluzioni della Conferenza di Ginevra – da un patteggiamento del regime di Pekino con la Santa Alleanza capitalista. Comincerà allora l'epoca dei Cavaignac, dei Thiers, degli Hitler di pelle gialla. E sarà un'epoca funesta per il vecchio Occidente. La Seconda Guerra Mondiale ha avuto l'effetto di occidentalizzare l'Asia, di introdurre il capitalismo in un continente rimasto indietro di millenni. Ma il capitalismo è guerra, è lotta per il predominio sul mercato mondiale. Cina, India, Indonesia – mostri immensi per territorio, popolazione e materie prime – si affacciano sul "ring" della politica internazionale. Domani pretenderanno ciascuno per conto proprio o insieme di "orientalizzare" l'Occidente. La polveriera asiatica ha ancora ingenti riserve: non passerà tempo che la rivoluzione per "l'Asia agli asiatici" darà luogo al pan-asiatismo, al ciclo delle guerre per la "Terra agli asiatici". È al cospetto degli imperialismi che l'esplosione dell'industrialismo non mancherà di generare nelle classi dominanti delle potenze del continente asiatico, l'espansionismo isolano del Giappone passerà in secondo, addirittura in terzo ordine.

Gli Stati Uniti d'America, l'Inghilterra, la Germania, la Francia non nascondono lo stato di allarme in cui sono gettati dalle prospettive future del risveglio dell'Asia. Il loro monopolio sulle materie prime verrà ad essere seriamente minacciato nel futuro; come lo saranno le grandi vie di comunicazione inter-oceaniche. Né la stessa Russia che oggi posa a gran madre dei movimenti indipendentistici asiatici potrà sperare di esercitare un controllo concreto sul governo di Pekino allorché questi sarà divenuto economicamente e militarmente forte. C'è di più. Poiché lo spazio di conquista più a portata di mano di Pekino è costituito dall'Asia Centrale russa e dalla Siberia sud-orientale non è da escludere che la Cina erediti nell'avvenire la politica antirussa perseguita in cinquant'anni dal Giappone.

Gli Stati che dominano il mondo hanno ragione di temere le rivoluzioni asiatiche, non perché siano portatrici – come pretende la propaganda falsa e bugiarda – di socialismo; ma perché, a più o meno lunga scadenza, gli immensi Stati asiatici porranno la loro candidatura a Stati-guida del pianeta, disputando il primato a Stati Uniti e Russia.

In mancanza ed in attesa della fiammata rivoluzionaria comunista, il proletariato mondiale non ha nulla da perdere per le rivoluzioni nazionali di Asia. Anzi, ha da attendersi la realizzazione di fondamentali premesse della rivoluzione comunista mondiale, e ciò per due ordini di ragioni. Primo, la industrializzazione capitalista del continente asiatico genererà imponenti proletariati industriali, per cui gli effettivi sociali della rivoluzione comunista ne risulteranno enormemente ingrossati. In secondo e non meno importante luogo, gli spostamenti di influenze politiche in campo internazionale provocheranno crisi e guerre a non finire, impedendo al capitalismo di raggiungere quella stabilità economica e politica che inutilmente ricerca per tenere in iscacco la rivoluzione del proletariato. Ben vero è che tarda a venire la rivoluzione proletaria che da un secolo attendiamo; ma in suo assenza il "becchino" capitalista non lavora meno a scavarsi la fossa nella quale lo sistemeremo per sempre. Che gli asiatici si prendano l'Asia e la "modernizzino" sul modello capitalista. Quando la rivoluzione proletaria incendierà i continenti per sommergere i ripugnanti privilegi della classe, dello Stato, della razza, troverà tanto di lavoro già fatto in Asia. La talpa rivoluzionaria avrà ben scavato.

Da "Il programma comunista" nn. 12 e 13 del 1954.

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