DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Mentre scriviamo (metà marzo), la stampa nazionale italiana festeggia (o in misura minore, critica) l'elezione dell'ennesimo leader della sinistra parlamentare, con tutto il codazzo di anime belle al suo seguito. Se volessimo riesumare un famoso slogan del PCI nelle manifestazioni degli anni ‘70 e ’80 del secolo scorso, dovremmo oggi gridare:”W Marx! W Lenin! [e fin qui tutto bene] W Mao Tse Tung! W il Grande Partito Comunista di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”, e poi ancora” “W il compagno Zin-ga-ret-ti”.

La borghesia di sinistra, mai stanca di rimbambire le masse, sforna l’ennesima marionetta. Intanto, la sua dirimpettaia di destra accelera nel promuovere nuove e più stringenti norme repressive, già abbondantemente anticipate da un quadro politico e ideologico orientato allo sdoganamento totale di ogni fraseologia nazionalistica e razzista.

Ecco dunque che, una volta di più, l'amaro calice sta per essere servito alla classe proletaria. Il perdurare delle stringenti necessità economiche impone che si serrino i cordoni repressivi per il contenimento delle ancora potenziali reazioni proletarie alla morsa della crisi (con il conseguente peggioramento, al limite del pauperismo, delle sue condizioni di vita). Questa politica viene fraudolentemente (quindi illusoriamente) bilanciata dalla discesa in campo del “campione” rappresentato dalla democrazia, nello “Stato Repubblicano nato dalla Resistenza” – il quale, raccogliendo da terra una delle solite sgualcite bandiere (sempre le stesse da ormai due secoli), vorrebbe, a parole e con oceaniche manifestazioni tanto colorate quanto disarmate (ma piene di gente che si fanno i selfie), rappresentare un’alternativa credibile, e dunque possibile, alla tendenza fascistoide ormai tracciata per il futuro immediato. Così, il teatrino democratico è di nuovo servito, per ingannare (ancora!) le masse proletarie, in modo che si leghino mani e piedi al destino nefasto della borghesia nazionale. In altre parole, i proletari non sono invitati alla festa: sono le portate da consumare nell’orgiastico banchetto borghese.

Anche se ha un sapore fastidiosamente retorico, la domanda dobbiamo comunque porcela: “Fino a quando i proletari saranno ancora disposti a dare credito a qualsiasi sirena della borghesia di destra o di sinistra, dopo più di 200 anni di illusioni e milioni  e milioni di morti ammazzati sull'altare delle improrogabili necessità del capitale?”.

Fermiamoci e, prima di rispondere alla domanda, ragioniamo.

I borghesi rivoluzionari settecenteschi furono i primi a illudere ( e così usare) le masse, allora “popolari”. Al grido di “Liberté! Egalité! Fraternité!” si presentarono alla storia e al mondo come i campioni della giustizia, non più divina ma umana e razionale: dunque, per autocertificata definizione, una “giustizia giusta”. La storia successiva però ha dimostrato come l'alternarsi della carota e del bastone nella conduzione degli Stati borghesi non sia stato, e non sia, uno scontro titanico fra il bene e il male, fra i buoni e i cattivi, in cui le forze sane e democratiche si confrontano con le forze reazionarie e oscurantiste della società: visione idealista, che nulla spiega e nulla risolve.

Diversamente, l'alternarsi di fasi repressive, quando non apertamente violente e assassine, a fasi di apparente vita democratica e pacifica è il normale svolgersi della storia capitalistica. Una condizione segue l'altra e il ritmo dell’alternarsi fra le due è scandito, in tendenza, dalle condizioni economiche, espansive o recessive, sottostanti [1]. L’assurdità di questa normalità sfugge alla nostra classe fino a quando, spinta da condizioni di vita non più tollerabili, non riesce a a riconoscerla e s’incammina verso un antagonismo sociale che, guidato dal partito rivoluzionario, ne prende coscienza e si può trasformare in vero e proprio disfattismo rivoluzionario. Nel frattempo i proletari, fiaccati da più di ottant’anni di pace sociale, persi ogni riferimento pratico di lotta e ogni riferimento politico teorico, cedono alle sirene della borghesia e, nella stragrande maggioranza, arrivano ad abbracciare le posizioni della borghesia al potere. Non riescono dunque ancora – immobili – a ritrovare la via dell’autonomia di classe, nella pratica prima e poi nel pensiero.

Il cosiddetto “Decreto sicurezza”, se ce ne fosse bisogno, è l'ennesimo esempio di ciò che la critica comunista dimostra da ormai più di un secolo e mezzo. Vi risparmiamo la disamina particolareggiata del testo di legge in questione, rimandando il lettore alle tante analisi circolate in rete. Ci soffermiamo però a esaminare il seguente caso: con un colpo di penna, il Ministro degli Interni cancella un unico articolo: anzi, la fattispecie in esame non ricevette neppure la… nobiltà d’essere un articolo, visto che lo si declassò ad “articolo bis” del Decreto, l'1bis per la precisione... Così facendo, ciò il Ministro degli Interni aggiunge un giro di corda intorno al collo della classe proletaria.

Quando, negli anni ‘50 del secolo scorso, la borghesia (di tutt’altra pasta, diciamolo pure) uscita dalla Seconda guerra mondiale, aveva molto da farsi perdonare dal proletariato, il legislatore dell’epoca aggiunse l'articolo 1bis, con un duplice scopo. In primo luogo, si sanciva, in generale, la possibilità di punire ogni azione potenzialmente eversiva, che nel caso specifico si attuava attraverso il blocco delle ferrovie e delle strade; al contempo, si tenne conto di un proletariato ancora in grado di difendersi sul piano sindacale (anche se non più su quello politico) e quindi si decise di considerare un caso particolare da separare dal caso generale. I satrapi parlamentari distinsero allora l'occupazione delle vie di trasporto effettuata con oggetti ingombranti (le barricate, in definitiva), applicandovi la legge penale, e la stessa occupazione effettuata però con i propri corpi (le azioni di sciopero o di protesta popolare, almeno di allora), a cui si applicava solo un'ammenda amministrativa.

Cassato il nostro “povero” 1bis, ora qualsiasi azione di blocco delle strade o altro ricade nella sfera penale e le pene arrivano fino a dodici anni. Naturalmente, questa è solo una delle chicche disseminate nel “Decreto sicurezza”: la citiamo perché è palesemente indirizzata al tentativo di stroncare le lotte della logistica che si sono sviluppate in questi ultimi anni e una potenziale loro espansione in altri settori della classe. 

Il cappio che abbiamo al collo è sempre più stretto... Ma, attenzione!, questa non è la prova provata che è allora necessaria una reazione democratica volta al ritorno a un presunto stato di grazia passato. Questa è la riprova, se non ci si ostina ad avere la memoria di un criceto, che le condizioni oggettive di una crisi epocale ben lontana dal risolversi, esigono la discesa in campo di una politica nazionalistica, in preparazione del futuro scontro guerreggiato. E che il “Decreto sicurezza” sia prima di tutto un decreto antiproletario è dimostrato dall’attenzione dedicata in esso alle politiche repressive sull'immigrazione. Spacciando per politiche innovative sull'immigrazione i lager presenti in Libia, il Ministro degli Interni chiude i porti italiani (peraltro senza alcun ordine scritto, ma attraverso twitter: in culo alla legalità!) e lascia che migliaia di persone, bambini, donne e uomini, vengano seviziati, violentati, torturati, applicando una folle politica pseudo-eugenetica che accoglie immigrati solo dopo che questi abbiano passato, sopravvivendo, le pene dell'inferno in terra: approdati infine sulle coste italiane, le possibilità di rimanerci legalmente vengono nettamente ridotte, lasciando migliaia di poveri senza nulla e allo sbando e alimentando così la macchina di propaganda nazionalistica.

Ma la catena non è stata forgiata dall’attuale Primo Ministro: questi ne ha solo aggiunto un anello. Il nodo scorsoio è stato comcepito negli ultimi venti anni (almeno) e le mani del boia sono state quelle della democrazia resistenziale, patriottica e “di sinistra” (al riguardo, leggete l'editoriale del n. 1/2019 di questo stesso giornale).

Dunque, destra, sinistra, democrazia, tirannide e le innumerevoli sfumature storiche che nei secoli si sono create, puzzano tutte dello stesso fetore: quello del capitalismo. La strada della pace sociale non è più praticabile: piaccia o meno, la si auspichi o la si aborrisca, il momento della violenza in atto si avvicina sempre più e a quello svolto bisogna prepararsi.

La strada è tracciata, il tempo della pace sociale è agli sgoccioli. La crisi morde le terga della borghesia e, come abbiamo più volte ricordato su queste pagine, la soluzione alla mancanza di profitti ragionevoli comporta un ennesimo processo di ristrutturazione nella produzione, che a sua volta determina un più profondo sfruttamento della classe proletaria. L’evoluzione di questa crisi dimostra che non è nella sfera della ridistribuzione del reddito che il capitale può trovare la soluzione alle sue storiche contraddizioni – e nei fatti non ha nemmeno percorso questa strada. La possibilità della soluzione della crisi si materializza nella produzione. Non serve incentivare il mercato al consumo: bisogna estrarre più plusvalore alla classe lavoratrice, perché solo così si può cercare di contrastare il progressivo assottigliarsi dei profitti. La conclusione di questo processo è un netto peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutti i proletari, un loro netto impoverimento: il che, si capisce facilmente, alla lunga non può non portare a una reazione per contrastarlo. La classe operaia è oggi ancora nello stato di un magma informe, ma comincia a ribollire. Quel che è certo è che la pressione prodotta dalla combinazione di aumento della temperatura (povertà) e aumento della pressione (politiche repressive) prima o poi determinerà un’eruzione. Ma l’analogia geologica finisce qui: l’eruzione non è la rivoluzione.

In questi ultimi anni, abbiamo visto in azione movimenti popolari, anche numericamente significativi e perfino politicamente determinanti (si considerino ad esempio le primavere arabe che molte teste hanno fatto cadere; oppure le varie e più becere Occupy che si sono susseguite): tutte eruzioni che, come nel caso di un vulcano, nessuno può e ha potuto prevedere e di cui nessuno conosce bene le conseguenze. Ma questi sommovimenti ci hanno portato un passo avanti verso una generale sollevazione? La risposta può solo essere dialettica: no (soprattutto), ma anche sì (per certi versi). No: in tutti questi movimenti, che, com’è scontato in quanto movimenti di massa e popolari, hanno visto in prima linea la classe proletaria, la prospettiva politica restava tutta interna all’attuale sistema capitalistico. In altre parole gli obiettivi erano dettati dall’ideologia borghese: più democrazia, e in diverse salse. Pur non essendo assenti nelle piazze le bandiere rosse, sono state ricacciate sullo sfondo dalle bandiere nazionali. Ciò tuttavia non deve stupire: ottant’anni di totale dominio del capitale sulla società tutta, sommati agli effetti della controrivoluzione staliniana in Russia e di lì penetrata in tutti i partiti comunisti del mondo, hanno portato al duplice effetto (fra gli altri) di disarmare la classe proletaria attraverso la politica pacifista e di legarla comunque al suo Stato nazionale, attraverso la formula bastarda del “socialismo in un solo paese”.

Ma Sì, c’è poi l’aspetto in parte positivo. L’aumentata repressione costringerà a elevare il livello di lotta proletaria, quando, per una massa sufficiente d’individui, le condizioni di vita si avvicineranno a quelle di mera sopravvivenza. Le nuove generazioni di proletari che non hanno più davanti a sé un radioso futuro (come poterono spacciare alle tre generazioni precedenti i pennivendoli borghesi del tempo che fu), ma la guerra totale e devastatrice, e si forgeranno, come il materialismo ci indica, in un quadro sociale più violento e oppressivo: maggiori dunque saranno le loro capacità di lotta e di conseguenza le possibilità di trovare la via rivoluzionaria. E lo stesso discorso vale per il Partito Comunista. Solo infine nell’incontro di questi due processi, risiede la possibilità dell’uscita dalle barbarie borghesi d’oggi e di quelle ancor peggiori di domani.

Già: diciamola tutta. La crisi apertasi nel 2007-2008 non è affatto superata e all’orizzonte nessuna soluzione si rivela capace d’invertire la direzione della caduta: ergo, guerra.

Vogliamo rendere ancora più evidente il futuro che ci aspetta? Teniamo presente che la devastazione potrebbe arrivare anche in assenza di una guerra, in quanto la Terra è profondamente malata, e nulla sappiamo delle conseguenze a breve, medio e lungo termine, che questo processo degenerativo potrebbe determinare nelle cose umane, oltre che, a sentire ormai una platea sempre più ampia di scienziati… borghesissimi, sulla vita in generale.

Possiamo allora tornare alla nostra retorica domanda iniziale: è una soluzione a tutti questi problemi la via che chiamiamo per brevità riformista della sinistra borghese opportunista?

Dire che la repressione aumenta non significa dire che siamo nel pieno fascismo dispiegato o cose simili. La borghesia non è ancora pronta a gettare del tutto la maschera democratica e d’altronde il proletariato non dà ancora motivi alla borghesia di andare oltre un giro di vite, sufficiente però a indebolire il fronte delle sue frange più battagliere. Ciò nonostante il quadro complessivo non muta in base alla volontà di nessun individuo o sommatorie d’individui e dunque oggi resta un quadro a tinte molto fosche per la classe proletaria. Ma noi comunisti non ci lasciamo intimidire.

Continuare a seguire la borghesia nichilista e degenere del XXI secolo è consegnare il destino dell’umanità in quanto specie, prima ancora che in quanto classe, alla rovina totale. L’unica alternativa: la rivoluzione e il passaggio al modo di produzione successivo, il socialismo. Tertium non datur.

[1] Chi volesse approfondire la dialettica fra la violenza in potenza e la violenza in atto nel procedere della storia umana, può leggere il nostro testo “Forza, violenza e dittatura di classe”, presente sul nostro sito.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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