DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici. A differenza della piena periodica dei fiumi, la piena accumulazione frenetica del capitalismo non ha come prospettiva la “decrescenza” di una curva discendente delle letture all'idrometro, ma la catastrofe della rotta” (“Piena e rotta della civiltà borghese”, Battaglia comunista, n.23/1951)

30 novembre-11 dicembre 2015: 21esima edizione della conferenza ONU sul clima.

Il mondo ha assistito distrattamente all'ennesima kermesse dei potenti del pianeta, all'esibizione di concordia e (cauto) ottimismo di fronte alla prospettiva di mutamenti climatici che minacciano di sconvolgere la biosfera. La questione in discussione è la possibilità di conciliare sviluppo capitalistico e salvaguardia dell'ambiente, che nell'ipocrita formula dello “sviluppo sostenibile” riassume l'intento di moderare la devastazione pur continuando a ampliare il vortice degli affari. In questo caso, in gioco non è la sorte di singole aree colpite da cataclismi, ma il riscaldamento globale, un fenomeno dalle dimensioni planetarie che mette a rischio equilibri che la natura ha costruito in milioni di anni e che un paio di secoli di capitalismo ha compromesso con il consumo sfrenato di risorse e il rilascio nella terra, nell'acqua e nell'aria di quantità gigantesche di sostanze venefiche. A ogni epoca del capitalismo le proprie catastrofi: se ai suoi tempi Engels descriveva l'insana città industriale annerita dal carbone, oggi è il mondo intero annebbiato dai fumi degli scarichi dell'industria e non c'è angolo remoto che sia preservato dagli effetti dell'avvelenamento. I “grandi” della Terra proclamano che tutto si risolverà grazie alla cooperazione volonterosa tra paesi affratellati da un comune obiettivo… Ma si tratta di salvare il mondo dalla catastrofe o di salvare il capitale? Non è nella natura del capitale la programmazione di rimedi duraturi ai rischi che comporta la devastazione che esso stesso provoca all'ambiente. Le catastrofi sono il suo teatro ideale: alluvioni, dissesti idrogeologici, guerre distruttrici, sono occasioni per ricostruire, per sfruttare senza sosta lavoro vivente. Ricordiamo le telefonate degli sciacalli che si rallegravano del terremoto dell'Aquila per gli affari che avrebbe regalato ai costruttori. Il capitale si nutre di emergenze. Scrivevamo più di mezzo secolo fa:

Il capitale moderno, avendo bisogno di consumatori perché ha bisogno di produrre sempre di più, ha tutto l'interesse ad inutilizzare al più presto possibile i prodotti del lavoro morto per imporne la rinnovazione con lavoro vivo, il solo dal quale ‘succhia’ profitti. Ecco perché va a nozze quando la guerra viene, ed ecco perché si è così bene allenato alla prassi della catastrofe” (“Omicidio dei morti”, Battaglia Comunista, n. 24/1951)

Che cosa c'è di meglio allora di una catastrofe globale, per mobilitare capitali e forza lavoro vivente da qui all'eternità?

Ci raccontano che l'accordo infine raggiunto a metà dicembre 2015 a Parigi, al di là di ogni critica che gli si possa muovere, dovrebbe se non altro rassicurare sulla determinazione comune a intervenire finalmente per il bene dell'umanità. I precedenti incontri annuali, a partire dal Summit della Terra a Rio de Janeiro (1992), avevano portato all'impegno dei paesi industrializzati a ridurre le emissioni di gas-serra del 5% all'anno (Protocollo di Kyoto, 1997), con la rilevante defezione degli Stati Uniti, mentre a quelli in via di sviluppo era stato concesso di aumentarle per consentir loro di “svilupparsi”. Con l'ascesa esplosiva della Cina e in generale dell'Estremo Oriente, la situazione è mutata al punto da far fallire la conferenza di Copenhagen (2009) per il rifiuto dei paesi industrializzati di accettare nuovi tagli. A quasi vent'anni di distanza dal Protocollo di Kyoto le emissioni dei paesi industrializzati sono sì calate del 23%, ma una parte significativa è conseguenza della caduta produttiva della grande recessione, mentre nel frattempo il calo è stato quasi annullato dall'aumento delle emissioni cinesi e di altri paesi. Il bilancio fallimentare è evidente nel fatto che il sistema produttivo mondiale ha continuato e continua a scaricare nell'atmosfera enormi quantità di CO2 che alimentano il “global warming”, avvicinandolo al punto di non ritorno. La produzione mondiale è cresciuta, e con essa il livello di inquinamento del pianeta.

Curva della crescita e curva della catastrofe

Nel nostro testo del 1951 citato all'inizio, già si metteva in relazione la ripresa in grande stile della macchina di sfruttamento capitalistico dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale con la catastrofe ambientale planetaria che oggi si annuncia con segnali sempre più allarmanti:

L'alto capitalismo modernissimo segna gravi punti di rinculo nella lotta di difesa contro le aggressioni delle forze naturali alla specie umana, e le ragioni ne sono strettamente sociali e di classe, tanto da invertire il vantaggio che deriva dal progresso della scienza teorica ed applicata. Attendiamo pure ad incolparlo di avere esasperata cogli scoppi atomici l'intensità delle precipitazioni meteoriche, o domani ‘sfottuta’ la natura fino a rischiare di rendere inabitabile la terra e la sua atmosfera, e magari di farne scoppiare lo stesso scheletro per avere innescate ‘reazioni a catena’ nei complessi nucleari di tutti gli elementi. Per ora stabiliamo una legge economica e sociale di parallelismo tra la sua maggiore efficienza nello sfruttare il lavoro e la vita degli uomini, e quella sempre minore nella razionale difesa contro l'ambiente naturale, inteso nel senso più vasto” (“Piena e rotta della civiltà borghese”, Battaglia comunista, n.23/1951).

Trascorsi ormai sessant’anni da allora, il processo di devastazione è giunto a un punto tale che “l'alto capitalismo modernissimo” può senz'altro essere accusato di trasformare la Terra in un luogo inabitabile. Non sono più soltanto al vaglio fosche previsioni di autorevoli studi scientifici; i cambiamenti climatici sono già un dato di esperienza diretta per la gente comune. Finché si trattava delle popolazioni miserabili del Sahel, colpite dalla desertificazione, o di quelle distribuite nelle sperdute isole-Stato, minacciate dall'innalzamento del livello degli oceani, la questione poteva essere relegata in cronaca o derubricata a fenomeno collegato all'aumento dei flussi migratori. Ma ora sono le latitudini intermedie, le aree vitali del capitalismo mondiale, a essere direttamente colpite dal riscaldamento globale. Il 2014, anno record di temperatura media, sta per essere superato dal 2015. Il nuovo anno segnerà un altro record, perché al trend di surriscaldamento provocato dalle emissioni crescenti di CO2 (per la prima volta stabilmente sopra 400 parti per milione) si sommeranno fenomeni naturali come El Nino e la riemersione di correnti oceaniche calde dal ciclo decennale (1). Il calore assorbito dagli oceani viene periodicamente restituito all'atmosfera, ed è questa una delle ragioni per cui, se anche si implementassero subito drastiche riduzioni delle emissioni, la temperatura si alzerebbe ugualmente di almeno un grado, un grado e mezzo da qui a qualche decennio. Proprio nei giorni del summit, Pechino era avvolta in una densa cappa di smog che rendeva l'aria irrespirabile, con valori di inquinanti che superavano di 20 volte i limiti stabiliti dall'OMS: le autorità sono intervenute chiudendo le aziende più pestilenziali, ma in un'area metropolitana grande come la Spagna basta che cambino le condizioni meteorologiche perché la città sprofondi in uno scenario apocalittico. Mentre scriviamo (fine 2015), la Pianura Padana è avvolta in una cappa di smog provocata da una anomala e prolungata alta pressione, e giunge notizia di tornado di potenza eccezionale nel Sud degli Stati Uniti, di inondazioni in Gran Bretagna, del rapido scioglimento di buona parte della calotta occidentale antartica… E' un bollettino di guerra, di fronte al quale le ordinanze comunali sul blocco del traffico hanno l'efficacia di una pistola a tappi.

La nuova via capitalistica alla salvezza del mondo

Il riscaldamento globale incide direttamente sulla vita quotidiana, suscita inevitabili reazioni, sollecita “risposte” adeguate dalla politica che è costretta a farsene carico (2). Da qui a ritenere che i governi siano nelle condizioni di mettere in atto provvedimenti capaci di porre sotto controllo l'aumento della CO2 e delle temperature globali ce ne corre. Per allontanare ogni dubbio, basta valutare la credibilità delle “soluzioni” presentate con tale enfasi da attribuire al Cop21 la valenza di una “svolta” epocale dopo una lunga serie di fallimenti.

Rispetto a Kyoto, è stata abbandonata la strada dell'imposizione di limiti alle emissioni per ciascuno Stato e imboccata quella degli impegni volontari. Nella fase preparatoria della Cop21, circa 150 governi hanno presentato piani di riduzione (Indc) da qui al 2030, che durante la conferenza sono stati vagliati e discussi nel corso di incontri tecnici (3). L’accordo, firmato infine da tutti i partecipanti, fissa l’obiettivo di restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali”, con l’impegno a “portare avanti sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi”. E' opinione comune tra gli esperti che, se i piani venissero realizzati integralmente, si raggiungerebbe un incremento di temperatura globale tra i 2,7 e i 3,0 gradi centigradi, ma il messaggio che si vuol far passare è che si sia imboccata una strada virtuosa che comporterà miglioramenti progressivi. E' previsto che i Paesi “puntino a raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile”, e proseguano con “rapide riduzioni dopo quel momento”, per arrivare a “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le rimozioni di gas serra nella seconda metà di questo secolo”.

La tempistica dei provvedimenti è definita in termini molto generici, non è chiaro quale parametro stabilisca il “picco delle emissioni” e si rimanda alla seconda metà del secolo la loro stabilizzazione, anche attraverso non ben definite “rimozioni” (tecnologie di cattura e stoccaggio degli inquinanti? riforestazione?). Gli impegni presi da ciascun Paese saranno sottoposti a verifiche e regolari revisioni migliorative, a partire dal 2023. I cicli successivi saranno quinquennali, mentre l'accordo entrerà in vigore nel 2020, quando decadrà il Protocollo di Kyoto. I Paesi firmatari, infine, hanno assunto l’impegno comune ad attrezzarsi con sistemi di prevenzione e intervento adeguati per le emergenze che non mancheranno di manifestarsi negli anni a venire.

Tutto qui, o quasi. Nel testo si precisa che gli impegni non sono giuridicamente vincolanti, né potrebbero esserlo. L'adesione all'accordo e il suo rispetto si affidano alla pura e semplice volontarietà, condizione senza la quale Cina, Russia e Paesi produttori di petrolio se ne sarebbero tenuti fuori. Gli stessi Stati Uniti, che hanno raggiunto in precedenza un accordo con la Cina, si sono opposti alla definizione di obblighi giuridici vincolanti. L'unico vincolo riguarderà le procedure per la verifica dei risultati raggiunti, entro “un sistema di trasparenza ampliato, con elementi di flessibilità che tengano conto delle diverse capacità”.

Non ha invece trovato spazio nel testo “l'introduzione progressiva di un prezzo dell'anidride carbonica affinché le emissioni abbiano un costo che corrisponda ai danni procurati” (Hollande, nel discorso di apertura). In passato, alcuni stati pagavano una “carbon tax” volontaria comprando quote di emissioni da altri paesi per poter continuare a produrre a pieno regime, senza dover adottare costose tecnologie anti-inquinamento. Una sanzione analoga stabilita in sede multilaterale sarebbe di fatto inapplicabile, mancando un organismo mondiale dotato di effettivo potere. Se spesso le leggi vigenti non trovano piena applicazione nemmeno entro gli stati sovrani, che credibilità può avere una normativa internazionale il cui rispetto è lasciato alla buona volontà dei singoli governi? Il loro interesse prioritario è e rimane il sostegno alla produzione nazionale, senz'altro più concorrenziale se libera da costosi oneri ambientali, in qualsiasi forma si presentino. Nello scenario di guerre commerciali e valutarie, controversie al WTO, accordi di area che ratificano i privilegi di una potenza dominante, le normative sono fonte di continui contenziosi e spesso si prestano ad essere usate come arma nella competizione internazionale, come dimostra la recente vicenda Volkswagen (4). Da questo punto di vista, Cop 21 ha dovuto rinunciare alla retorica sanzionatoria e limitarsi realisticamente a celebrare un accordo di facciata.

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Se le condizioni per raggiungere l'accordo sono state all'insegna del realismo, il rispetto generale degli impegni di riduzione delle emissioni di CO2 di qui al 2030 è a ben vedere un'ipotesi piuttosto fantasiosa. Alla fine, come prevedibile, la montagna ha partorito il topolino. Tanta enfasi sui risultati si giustifica solo per il fatto che è stato raggiunto un accordo su cui tutti i partecipanti hanno fatto delle promesse, hanno fornito delle cifre e preso impegni non vincolanti. Le cose non potevano andare diversamente per la natura anarchica del capitalismo, per l'asprezza della competizione sui mercati mondiali e l'impossibilità di regolare l'evoluzione di un sistema sempre più fuori controllo.

Se poi, alle prossime presidenziali americane, prevalessero i repubblicani, del tutto alieni da fisime ambientaliste, tutta la politica degli Stati Uniti in materia verrebbe ribaltata, facendo mancare uno dei pilastri su cui si regge la fragile struttura dell'accordo. Un ulteriore notevole limite è l'esclusione dall'accordo delle emissioni di gas serra dovute all'agricoltura, ai trasporti aerei e marittimi, ai gas refrigeranti HFC, che insieme rappresentano ¼ delle emissioni totali di gas serra (5).

Ma ammettendo pure che, nonostante queste premesse, tutti i paesi rispettino i limiti che si sono autoimposti e che nel 2030 si raggiungano gli obiettivi di riduzione delle emissioni globali, la catastrofe climatica sarebbe scongiurata?

La “scienza” che cosa dice?

In un altro nostro testo del 1951, noi denunciavamo l'impotenza della scienza borghese, anche nelle sue migliori espressioni, di fronte alle follie dello sviluppo capitalistico e la sua incapacità di riconoscerne l'origine non nella coscienza degli individui, ma nello stesso modo di produzione:

Il ‘premio Nobel’ Bertrand Russel, che pontifica in tono pacato sulla stampa internazionale, denunzia che l'uomo sta troppo saccheggiando le risorse naturali, e già se ne può calcolare l'esaurimento. Riconosce che i grandi poteri fanno una politica assurda e pazza, denunzia le aberrazioni dell'economia individualista, e scherza sull'Irlandese che dice: perché devo pensare ai posteri? hanno essi mai fatto nulla per me? Il Russel pone tra le aberrazioni, insieme a quelle del mistico fatalismo, quella del comunista affermante: togliamo di mezzo il capitalismo e la questione si risolve. Dopo tanto sfoggio di scienza fisica biologica e sociale, egli non riesce a vedere come un fatto altrettanto fisico l'enorme grado di dispersione di risorse sia naturali che sociali, essenzialmente legato ad un dato tipo di produzione, e pensa che tutto si risolverebbe con un predicozzo morale o un fabiano appello alla saggezza degli uomini in alto e in basso. Il ripiegamento è pietoso: La scienza diviene impotente davanti ai problemi dell'anima!” (“Omicidio dei morti”, cit.).

La scienza odierna, pur dotata di strumenti di analisi e previsione ben più efficaci di allora, rimane completamente impotente di fronte ai fenomeni che studia e, schiava com'è del capitale da cui trae finanziamenti e onori, si limita ancora a fare “appello alla saggezza degli uomini in alto e in basso”. L'evidenza dei fenomeni ha tolto ormai credibilità al supponente e servile scetticismo di una parte della scienza ufficiale di fronte all'allarme climatico. Chiusa l'epoca del “negazionismo”, il servilismo degli scienziati si dispone ad avallare le soluzioni annunciate dal potere politico: un piano globale di riduzione delle emissioni, modelli di consumo più morigerati, ma soprattutto il ruolo determinante dei progressi tecnologici, con riferimento, per altro, a tecnologie al momento non disponibili (6).

Tuttavia, autorevoli settori della cosiddetta “comunità scientifica” non ritengono sufficienti questi provvedimenti e considerano indispensabile per una stabilizzazione delle temperature sotto i due gradi centigradi la decarbonizzazione totale dei sistemi energetici e l'azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2070. I piani di riduzione dei vari paesi da qui al 2030 promettono al massimo il 30% in meno rispetto alle emissioni di CO2 del 2005, ma la questione decisiva – secondo questi ricercatori – riguarda le modalità da adottare. Se, ad esempio, le centrali a carbone fossero convertite a gas – la soluzione più semplice ed economica – o si puntasse sul progresso nel rendimento dei motori a combustione interna, si otterrebbe una riduzione di emissioni pari al 50%, del tutto inadeguata a raggiungere l'obiettivo finale di azzeramento. Se poi si considera che il numero delle auto circolanti nel mondo è destinata ad aumentare, ogni miglioramento in questo campo risulterà compromesso. Questo gruppo di studiosi internazionali, promotori del Ddpp (Deep Decarbonization Pathways Project), si è ripromesso di dimostrare che “la decarbonizzazione totale è fattibile dal punto di vista tecnico ed economico”. Auspica dunque tutta una serie di misure che vanno dall'efficienza energetica alla produzione (sistemi intelligenti information-based), allo sfruttamento di energie rinnovabili, e il passaggio totale all'auto elettrica alimentata da una rete a zero emissioni di anidride carbonica. Improrogabile l'abbandono totale dei combustibili entro il 2070, per “scongiurare per sempre la catastrofe climatica che incomberebbe su di noi qualora non lo facessimo(7).

Non abbiamo elementi per valutare la fondatezza della previsione, ma se le cose stessero così, vi sarebbero ben poche speranze. Quanto alla fattibilità del Ddpp, ammesso che lo sia dal punto di vista tecnico, dal punto di vista economico deve fare i conti con la profittabilità delle imprese, con la redditività degli investimenti necessari per una simile trasformazione, con l'inerzia del capitale nel conservare vecchi sistemi produttivi ed energetici per consumare fino all'ultimo la loro capacità di sfruttare lavoro vivente (8). Dietro l'apparente radicalismo delle soluzioni, il progetto nasconde una completa subalternità alla logica del capitale, ne presuppone la riformabilità, la disponibilità a rinunciare a margini di profitto per piegarsi alle esigenze umane, avalla la conformistica fede sul ruolo salvifico della tecnologia. Il limite di questa visione sta nel proporre delle soluzioni “tecniche” – oltretutto di problematica applicazione generale – a una questione che è di ordine politico, economico e sociale e che ha un solo nome: capitalismo. Lo stesso limite lo si riscontra nelle critiche di gran parte dell'ambientalismo. L'urgenza non è il passaggio dall'auto diesel all'auto elettrica, dalla centrale a carbone a quella eolica-solare-geotermica, ma il passaggio a una forma economico sociale superiore. Finché la realtà rimane improntata alla dissipazione, allo spreco, allo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali e umane, appelli come questi – destinati comunque a cadere nel vuoto – sono altrettanti puntelli all'ideologia dominante.

Unanimità di facciata

Dietro l'enfasi nel proclamare un accordo sottoscritto da tutti, dietro la retorica di un mondo finalmente unito nella comune emergenza, si nasconde la realtà di Paesi con strutture economiche assai diverse e con interessi e obiettivi in conflitto, gli stessi all'origine delle divisioni e delle defezioni maturate nei precedenti summit.

Nel corso della conferenza di Parigi, la contrapposizione principale è stata ancora una volta tra i paesi di vecchio capitalismo a quelli di industrializzazione recente. L'India è stata capofila dei critici alla riduzione di emissioni a carico degli emergenti: “riducano quelli che in passato hanno inquinato come ossessi e che oggi fanno la parte dei difensori dell'ambiente!”. Il premier indiano ha invocato il “diritto alla crescita” per quanti a lungo ne sono stati esclusi e che ora l'hanno imboccata con qualche speranza di emulare, almeno in parte, il cosiddetto “benessere all'occidentale” (speranza contraddetta dalla decelerazione progressiva dei tassi di crescita dell'economia mondiale di ciclo in ciclo, fenomeno alla base della crisi generale del sistema): “la comunità internazionale non può imporre la fine delle fonti fossili”, ha detto, pensando in primo luogo al carbone, poco costoso e di disponibilità abbondante in India. Come si può dargli torto? L'India è già il 4° inquinatore al mondo, ma un cittadino indiano inquina 10 volte meno di un americano e 300 milioni di indiani vivono tuttora senza elettricità.

Usa e Cina hanno sostenuto la linea che infine, come da previsioni, ha prevalso: decidere autonomamente gli impegni relativi al calo di emissioni, senza vincoli, puntando su tecnologia, efficienza energetica e innovazione. I due mostri sono i maggiori inquinatori mondiali: la Cina è al 1° posto con il 30% delle emissioni globali di CO2, seguiti dagli Stati Uniti con il 16 % (9). Intendono entrambi inquinare di meno, ma non rinunciare alla “crescita”, cioè a produrre di più.

Il punto di vista della UE – che per bocca dei suoi rappresentanti ama recitare la parte di paladina mondiale dell'ambiente – è che, per salvare il pianeta, bisognerebbe “sollevare il piede dall'acceleratore dell'economia”. Probabilmente le farebbe gioco che lo facessero gli altri, i concorrenti, visto che come tassi di crescita è già in coda, nonostante la Bce continui a pigiare (eccome!) sul pedale della liquidità, per altro senza grandi risultati.

Che dire poi dei Paesi produttori di petrolio, anch'essi firmatari di un accordo che prefigura per i prossimi decenni una contrazione della loro principale fonte di reddito? L'Arabia Saudita continua a mantenere un elevatissimo livello di produzione per conservare il suo primato sui mercati mondiali, anche a costo di spingere il prezzo del barile al ribasso oltre ogni limite. Gli stessi Stati Uniti, del resto, storici alleati del reame di tagliatori di teste, non hanno scrupolo nel sostenere a casa propria la produzione di shale oil, devastante per l'ambiente, pur di ottenere l'indipendenza energetica.

Insomma, la questione climatica, affrontata con una retorica da “salvatori del mondo”, grattando la superficie si rivela uno dei tanti aspetti della competizione economica mondiale, dove ciascun attore – emergenti, “emersi” e vecchi pescecani – cerca di portare acqua al proprio mulino.

Il clima e il PIL

Inquinare è stato finora certamente più conveniente del rispetto delle regole, tanto stringenti e punitive sulla carta quanto inapplicate, eluse, violate. Se la terra, l'aria e l'acqua ne sono uscite avvelenate ne ha tratto tuttavia gran beneficio il Pil. E' una questione di priorità capitalistica.

Il messaggio che esce da Cop21 è contenuto nel discorso inaugurale di Obama: “abbiamo ormai dimostrato che non c'è più [?] conflitto tra crescita economica forte e protezione dell'ambiente [...] Dobbiamo cercare un accordo che rappresenti un segnale, che dia alle aziende e agli investitori la certezza che l’economia mondiale ha imboccato la strada senza ritorno verso un futuro a basse emissioni. È un passo essenziale per stimolare investimenti che combinino riduzione dei gas a effetto serra e crescita economica” (Il Sole24Ore, 1.12.2015).

Qui si trova l'essenza della lettura capitalistica della questione climatica, pienamente recepita dall'accordo. L'articolo 9, senz'altro il più significativo in tal senso, assegna ai Paesi sviluppati il compito di “fornire risorse finanziarie” a quelli in via di sviluppo, “in continuazione dei loro obblighi attuali”, di stabilire “una roadmap concreta per raggiungere l’obiettivo di fornire insieme 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2020", con l’impegno ad aumentare “in modo significativo i fondi per l’adattamento”. Si tratta in sostanza di investimenti e prestiti per l'acquisto di tecnologie per il risparmio energetico in possesso dei paesi avanzati.

Più che rispondere all'urgenza di intervenire drasticamente sulle emissioni per contenere l'aumento delle temperature, l'accordo individua una strada per uscire dalla palude della stagnazione produttiva mondiale: impiegare una parte consistente della massa di capitale finanziario attualmente inutilizzato, per investimenti in nuove infrastrutture di produzione energetica e per l'acquisto di tecnologie produttive e anti-inquinamento. Si stima che le banche abbiano attualmente in gestione circa 100 trilioni di dollari di “risparmio”, e che gli investimenti necessari a questo sorta di welfare mondiale pro-ambiente ammonterebbero a circa 6 trilioni l'anno da qui al 2030, il doppio di quanto si investe oggi in infrastrutture. Voilà, il gioco è fatto! Ecco trovato il modo per conciliare l'inconciliabile: crescita produttiva e riduzione delle emissioni di gas serra. “Il meccanismo di trasmissione che lega ambiente e crescita sta nella massa di investimenti infrastrutturali necessari ad assicurare la transizione dell'economia mondiale verso un modello sostenibile a bassa intensità di carbonio. Nel contempo questo ingente piano di ammodernamento infrastrutturale rappresenta un'opportunità unica per legarlo a un'agenda di riforme strutturali volta a innalzare la produttività ed espandere l'offerta aggregata a livello mondiale” (10).

Va da sé che questa geniale soluzione avvantaggerebbe anzitutto i capitalismi sviluppati e la stessa Cina, che tra le tante sovrapproduzioni annovera anche quella di pannelli solari (11). Un affare per le banche finanziatrici, una boccata d'ossigeno per i sistemi industriali in affanno! Se poi tutto questo comporterà qualche beneficio al clima del pianeta sarà una conseguenza indotta, com'è proprio del modo di produzione capitalistico il cui scopo non è la soddisfazione dei bisogni umani, ma la produzione stessa, “l'offerta aggregata”.

La soluzione trova il consenso dei PVS (paesi in via di sviluppo), sempre dipendenti dai flussi di capitali provenienti dai centri finanziari mondiali. Il governo indiano, pur restio a rinunciare al carbone, si è impegnato a portare al 40%, da qui al 2030, la capacità installata da fonti di energia non fossile, a patto che arrivino i capitali promessi a Copenhagen (100 miliardi) per permettere ai paesi poveri di accedere alle tecnologie di produzione rinnovabile (12).

Alla fine, tutto il gran baraccone del Cop21 ha espresso il tentativo di rilanciare l'accumulazione aumentando la produttività del lavoro: mettere in movimento una massa crescente di lavoro vivo, risparmiare lavoro umano per accrescere il tasso del plusvalore (pv/v), risparmiare energia e componenti produttive, ridurre gli sprechi e gli scarti per contrastare la caduta del saggio del profitto [p/(c+v)]. Ma la tendenza alla caduta non può essere invertita; se la produzione deve aumentare, deve aumentare la massa di materie prime utilizzate e i risparmi nei consumi energetici non comportano necessariamente un loro calo assoluto. Di più, l'applicazione di tecnologie innovative (labor-saving) spinge ulteriormente la tendenza al calo del saggio del profitto, e quelle per il contenimento delle emissioni si aggiungono ai costi complessivi.

Se questo piano ambizioso fosse attuato, forse permetterebbe al capitale di riprendere per qualche tempo un tasso di crescita superiore a quello sempre più stentato degli anni post-crisi. Forse, perché il ristagno degli investimenti ha le sue ragioni strutturali nell'ormai troppo bassa redditività del capitale produttivo, che non può essere facilmente superata da un piano di interventismo planetario; forse, perché le difficoltà dell'accumulazione hanno rotto vecchi equilibri e aperto una fase di instabilità crescente, di competizione sempre più aspra sui mercati mondiali, di fronte alla quale tutti gli accordi – a maggior ragione quello sul clima, dalla valenza principalmente propagandistica – possono da un momento all'altro diventare carta straccia. Ma anche se il piano riuscisse e si rivelasse efficace nello scopo di rilanciare la produzione, l'aumento della produttività media mondiale rafforzerebbe la tendenza alla caduta del saggio del profitto, premessa per l'esplosione di crisi ancora più devastanti.

Rivoluzione o rovina di tutte le classi

Dunque, alla Cop21 sul clima si è parlato soprattutto di economia, e non poteva essere altrimenti. La lotta al riscaldamento terrestre, ha detto Obama, “è ormai un imperativo economico e di sicurezza che non possiamo più rinviare, perché se la temperatura dovesse continuare a salire al ritmo attuale dovremmo destinare sempre più risorse finanziarie e militari per adattarci alle conseguenze” (13).

Gli fa eco Hollande, che auspica il passaggio a un modello di sviluppo basato sulla cooperazione, “dove sarà più redditizio proteggere che distruggere”. La follia del capitale è tutta contenuta nell'approccio dei suoi grandi maggiordomi al problema dei mutamenti climatici: il mondo va salvato solo se farlo è redditizio, altrimenti può essere messo tra i costi improduttivi e lasciato al suo destino. La logica è economica ed emergenziale, come sempre. I problemi legati a conflitti sociali e interstatali che potrebbero scaturire dalla desertificazione, dalle carestie, dalla scarsità di acqua, dalle inondazioni, dalle conseguenti migrazioni di massa, sono considerati in quanto costi o in quanto occasioni di profitto. Il problema non è la sopravvivenza della specie, ma sono le spese dovute agli interventi in occasione di catastrofi ambientali, alle missioni “umanitarie”, agli “aiuti” alle popolazioni in difficoltà, a meno che non si traducano in impiego redditizio di capitali.

Al centro di ogni ragionamento, rimane sempre la redditività dell'intrapresa economica: in una parola, il profitto. Da Parigi ci giunge la favoletta che difesa dell'ambiente e interesse del capitale possono andare a braccetto, veritiera quanto quella della comunanza di interessi tra padrone e operaio, finché si omette il dettaglio che ciò che lega quest'ultimo non è una libera scelta, ma una catena che si spezzerà solo con l'abbattimento del capitalismo. Lo stesso vale per le (residue) possibilità di salvare l'umanità dalla catastrofe ambientale: l'alternativa è tra comunismo e progressiva e irreversibile devastazione.

Sono prediche da irriducibili catastrofisti? Se il capitalismo – la storia insegna – non fosse invariante, non rispondesse alle stesse inesorabili leggi in ciascuna delle sue fasi di sviluppo, dalla predatoria “accumulazione originaria” ai disastri dell'attuale fase declinante, sarebbe legittimo affidarsi alla speranza. Ma la sua legge fondamentale è l'accumulazione, il profitto. Per riuscire nel suo scopo, muove il cielo e la terra, appronta grandiosi apparati produttivi e politico-militari con cui impone la sua logica all'umanità intera, anche di fronte all'evidenza sempre più lampante che i destini della specie ormai da tempo sono inconciliabili con gli interessi del capitale. L'uomo deve piegarsi a essere strumento dell'accumulazione, quale che sia il prezzo da pagare; l'oppressione viene presentata come il naturale ed inevitabile “prezzo del progresso”, pena il ritorno alla scarsità.

Deindustrializzare, aumentare i costi di produzione

La bassa ideologia che identifica il progresso, sinonimo di positiva evoluzione, di crescente “benessere”, con lo sviluppo capitalistico presuppone l'assenza di ogni alternativa che non comporti un rinculo della società umana verso forme più arretrate. Sul giornale della Confindustria leggiamo che “per ridurre le emissioni ci sono solo due modi: il primo è il più facile e immediato: spegnere centrali elettriche, motori e riscaldamenti. Cioè spegnere l'economia e il benessere. L'altro modo per ridurre le emissioni, più lento e meno sicuro negli effetti, è cambiare la tecnologia, per produrre come prima ma usando meno risorse” (Cfr. nota 9).

Non si capisce cosa ci sarebbe di “facile e immediato” nello spegnere tutto, ma è evidente l'intento polemico contro le varie teorizzazioni sulla “decrescita”, sul “ritorno alla natura” e simili. La soluzione è ancora una volta demandata allo stesso “progresso” che ha provocato il dissesto ambientale: sarà la stessa tecnologia, portato caratteristico dello sviluppo capitalistico, in continuo mutamento e innovazione a trovare (forse) la soluzione. “Continuare a produrre come prima, non c'è altra strada”, è il messaggio. In realtà, il capitale non può permettersi di produrre “come prima”. Tutti i suoi apparati, politici, economici, legislativi, sono mobilitati da anni per attivare una crescita che stenta a ripartire. Crescita, non conservazione del livello del Pil o, peggio, una sua riduzione.

L'innovazione tecnologica può permettere di risparmiare sulle risorse, di ridurre i consumi energetici, di razionalizzare produzione e distribuzione in tutti i passaggi, ma si dovrà comunque produrre “di più” perché il mondo non cada in una nuova recessione, il peggiore dei mali che si possano patire in regime capitalistico. Produrre “di più” vuol dire consumare risorse aggiuntive, anche se a ritmi di incremento decrescenti.

I teorici della “decrescita” colgono la necessità del cambiamento, ma lo pongono in termini astratti e antistorici. Ragionano come se l'umanità non fosse divisa in classi tra loro obiettivamente antagoniste negli interessi e nei fini, come se ogni esito non dipendesse dalla lotta che percorre sempre la società capitalistica più o meno sotterraneamente, e che in taluni svolti storici riemerge alla superficie in scontro aperto. Temendo che l'alternativa sia la guerra o, peggio, la rivoluzione, per salvarsi come classe si fanno promotori dell'ennesima “terza via” destinata a naufragare nella palude delle politiche “alternative” e delle mode passeggere. Essi proiettano nel futuro la realtà presente della società capitalistica, dove la decrescita è già in atto, nella forma della decrescenza dei ritmi di incremento della produzione in virtù di una legge obiettiva del suo sviluppo, non certo per scelta volontaria delle stesse forze che amministrano lo sviluppo capitalistico. Niente a che vedere con la decrescita del prodotto in termini assoluti, eventualità che la borghesia può concepire solo come conseguenza di una catastrofe gravida di energie per il ringiovanimento e la ripresa del sistema.

Profeti come questi rappresentano una frazione della borghesia rassegnata al declino inesorabile della propria classe e del proprio modo di produzione. Non può una classe controrivoluzionaria, responsabile dello sfacelo in cui si dibatte l'umanità, ambire a guidare la trasformazione salvifica di cui il mondo ha bisogno. Questo ruolo spetta al proletariato rivoluzionario, che nel suo programma immediato, successivo alla presa del potere, ha chiaramente delineati i compiti da svolgere. Tra questi, il “'disinvestimento di capitali', ossia la destinazione di una parte assai minore del prodotto a beni strumentali e non di consumo”, un piano di “'sottoproduzione' che la concentri sui campi più necessari”, il “'controllo autoritario dei consumi' combattendo la moda pubblicitaria di quelli inutili, dannosi e voluttuari”, e poi “arresto delle costruzioni”, “riduzione dell'ingorgo velocità e volume del traffico vietando quello inutile” (“Il programma rivoluzionario immediato. Riunione di Forlì, 28 dicembre 1952”) (14). Il nostro Partito definì questi compiti in un'epoca in cui si annunciava il boom economico, lo sviluppo dei consumi di massa, e trionfava la retorica del progresso e del benessere capitalistici, quando il “controllo autoritario dei consumi” poteva far storcere il naso anche al proletario che risparmiava per acquistare una 500. Ma era il suo Partito a parlare, in continuità con la teoria e l'esperienza di due secoli di lotta proletaria, annunciando con largo anticipo gli sviluppi dell'infernale crescita che si prospettava.

Oggi, a distanza di oltre sessant'anni, quei compiti sono più attuali che mai. Ridurre drasticamente la produzione, concentrarla sui beni necessari per accrescerne la disponibilità, aumentare i costi di produzione per migliorarne la qualità e per aumentare le paghe finché vi sarà salario e moneta (entrambi destinati al macero della storia). Altro che “decrescenza”! Solo una rivoluzione autoritaria può consentire provvedimenti tanto drastici e radicali quanto necessari alla sopravvivenza della specie.

Oltre mezzo secolo fa, il nostro Partito diede per virtualmente avvenuta la morte del capitalismo, un “cadavere che ancora cammina”, appestando l'aria, avvelenando il suolo, rovinando l'esistenza dei viventi. Oggi, siamo arrivati al punto che, per mantenere una parvenza di vita, lo zombie è costretto ad assumere dosi massicce di denaro iniettato dalle banche centrali: ma è sangue sintetico che non può restituirgli la vigoria perduta. I fumi tossici delle fabbriche a pieno regime sono per lui ben più rivitalizzanti: l'avvelenamento dell'aria, dei fiumi, della terra e degli stessi uomini è frutto del suo sviluppo, il consumo sconsiderato delle risorse planetarie ne è un presupposto irrinunciabile. Regolarlo equivale a negare la sua stessa natura del capitalismo, di mostro vorace che tutto divora.

Il capitale non vede oltre il breve periodo, e non ha altro obiettivo se non la propria conservazione. Il famoso detto di Keynes (“nel lungo periodo siamo tutti morti”) riassume la logica miope e insieme folle di un sistema economico e sociale giunto al capolinea. Eppure, il capitale ama presentarsi con i tratti dell'eternità, proietta le proprie categorie fin nel passato primordiale e si considera il punto culminante e insuperabile della storia umana. Il timore è che la sua pretesa eternità porti l'umanità asservita a considerare alla stregua di una conseguenza naturale il fatto che alla fine del capitalismo corrisponda la fine della vicenda umana, la “rovina di tutte le classi in lotta” di cui parla Marx. Ciò rende la rivoluzione proletaria più di una possibilità storica: la rende un’urgente necessità.

A proposito dell'incapacità dell'odierno modo di produzione di risolvere in modo stabile e duraturo il problema della salvaguardia degli esseri viventi dalle calamità naturali e storiche, di elaborare un piano di specie di lungo periodo che prescinda dalle esigenze dell'accumulazione a breve termine, ci sembra quanto mai chiarificatrice quest'altra splendida citazione dal nostro già citato “Omicidio dei morti”:

Un tale problema è insuperabile in campo capitalistico. Se si trattasse del piano di fare in un anno le armi per dare ad Eisenhower le sue cento divisioni, la soluzione si trova. Sono tutte operazioni a ciclo breve ed il capitalismo va a nozze se la commessa di diecimila cannoni ha il termine di cento giorni e non di mille. Non per nulla c'è il pool dell'acciaio! Ma il pool dell'organizzazione idrogeologica e sismologica non si può fare, a meno che l'alta scienza del tempo borghese non riesca davvero a provocare in serie, come i bombardamenti, anche le alluvioni e i terremoti. Qui si tratta di lenta e non accelerabile trasmissione secolare, di generazione in generazione, di risultati di ‘lavoro morto’ ma tutelatore dei viventi, della loro vita e del loro minore sacrificio”.

Ci sono arrivati, infine: il gigantismo produttivo e tecnologico del capitale si è dimostrato in grado di “provocare in serie” le catastrofi, così da garantirsi stabilmente emergenze su cui lucrare. Cop21 ha partorito il suo improbabile pool di salvatori del mondo, per gestire le infinite emergenze, rinnovare il lavoro morto e garantire il sacrificio permanente delle schiere proletarie.

 

NOTE

1-P. Caraveo, “Nel 2016 peggiorerà”, Domenica de Il Sole24ore, 15.11.2015.

2- “Il governo cinese è preoccupato per il possibile impatto che quella che è una vera e propria crisi ambientale (di cui l’inquinamento atmosferico rappresenta solo un aspetto) potrebbe avere sulla 'stabilità', sul monopolio del potere da parte del Partito comunista (PCC)” (“Visto da Pechino: sviluppo e cielo blu per 1,3 miliardi di persone?”, Chinaforum, 2 dicembre 2015).

3- “La via obbligata dell'emissione zero”, Il Sole24 ore, 9.12.15.

4- Cfr. “L’‘Affare Volkswagen’. Marmitte truccate? La vera truffa è il capitalismo”, Il programma comunista, n.6/2015.

5-Alessandro Vitelli, “La coperta corta di COP21”, Cinaforum, 1 dicembre 2015 (tratto da Chinadialogue).

6-Il portavoce dell' Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), organismo patrocinato dall'ONU che si occupa degli sviluppi climatici, ha dichiarato: “molti modelli climatici indicano che sarà difficile limitare l'aumento della temperatura globale a 2°C senza tecnologie aggiuntive, quali le bioenergie e la cattura della CO2 o la loro combinazione” [E. Comelli, “Lee (Ipcc): negazionisti? Finiti i tempi del rifiuto”, Il Sole24ore, 10.11.2015].

7-AAVV, “La via obbligata delle emissioni zero”, IlSole24Ore, 9.12.2015.

8- Pechino prevede di raggiungere il picco di emissioni nel 2030 e dichiara l'intenzione di implementare una trasformazione radicale del proprio apparato produttivo ed energetico in direzione del risparmio e del rispetto dell'ambiente. Ma “ un rapporto di Greenpeace Asia e della North China Electric Power University del 18 novembre scorso [rivela] che Pechino – nonostante il gigantesco eccesso di capacità produttiva, conseguenza del rallentamento economico – continuerà a iper-investire nel carbone, soprattutto nelle province centrali e occidentali. Il governo cinese preferisce evidenziare i suoi investimenti (ingenti) nel settore delle energie rinnovabili” (M. Cocco, “Via al summit di Parigi. Contro il gas serra servono soldi e leadership”, Cinaforum, 30.11.2015)

9- “J. Giliberto, Tre approcci politici diversi e l'incognita del negoziato”, Il Sole24Ore, 1.12.15.

10- D. Lombardi, “Cina e Usa ora devono fare sul serio”, Il Sole24Ore, 9.12.2015. Sulla stessa lunghezza d'onda, J.E. Stigliz invoca un piano mondiale di investimenti: “L'unica cura è ampliare la domanda aggregata”, Il Sole24Ore, 3.01.2015.

11- “Si sono messi in moto fattori positivi, sia tecnologici, sia economici. I pannelli solari economici fabbricati in Cina hanno dato vita a un mercato delle energie rinnovabili in rapida espansione. Lo stesso potrà verificarsi con altre nuove tecnologie energetiche. La Cina è in una buona posizione per influenzare i trend dei mercati globali di questi prodotti e guidare il finanziamento di investimenti infrastrutturali in altri paesi” (“Clima, il paradigma di Pechino tra lotta allo smog e riforme di mercato”, tratto da Eastasiaforum).

12- Il Sole24Ore, 1.12.15.

13- M. Moussanet, “Obama: fissiamo il prezzo dell'anidride carbonica”, Il Sole24ore, 2.12.2015.

14-In Per l'organica sistemazione dei principi comunisti, Edizioni Il Programma comunista, 1973, p.30.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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