DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

L’indebitamento della borghesia schiaccia il proletariato

Prima di parlare del debito pubblico e privato attuale nei grandi paesi industriali e a livello mondiale, leggiamo un passo di Marx (da Il Capitale, Libro III, cap. XXIX: Elementi del capitale bancario, edizione Utet, pp. 588-560), particolarmente adatto a sottolineare il significato del debito pubblico all’interno del sistema capitalistico: "Lo Stato deve pagare ogni anno ai suoi creditori una certa somma di interessi per il capitale ricevuto in prestito. Qui il creditore non può disdire l'impegno assunto, ma può vendere il credito, il titolo di proprietà su di esso. Il capitale in quanto tale è stato divorato, speso dallo Stato: non esiste più. Tutto ciò che il creditore dello Stato possiede è: 1) un titolo di credito sullo Stato […]; 2) il diritto, derivante da questo titolo, ad una certa somma, poniamo il 5%, prelevata sulle entrate statali, cioè sul gettito annuo delle imposte; 3) la possibilità di vendere il titolo di credito, come meglio crede, ad altre persone [...] Ma […] il capitale, di cui il versamento compiuto dallo Stato è considerato il rampollo (interesse), resta capitale illusorio, fittizio. Non è soltanto che la somma prestata allo Stato non esiste più. È che non è mai stata destinata a essere spesa, investita come capitale; e solo grazie al suo investimento come capitale si sarebbe potuta convertire in valore che si conserva. [...] il capitale del debito pubblico resta un capitale puramente fittizio e, non appena i titoli divenissero invendibili, l'apparenza di questo capitale svanirebbe. Ciò non toglie che questo capitale fittizio abbia il proprio movimento [...] D'altronde, in generale, il capitale produttivo d’interesse è padre di ogni sorta di forme assurde, cosicché, per esempio, nel modo di ragionare del banchiere i debiti possono apparire come merci”.

In fondo, se paragonato ai 28 mila miliardi di dollari della Cina presi in prestito da Governo e privati e ai 57 mila miliardi di dollari di debito pubblico e privato degli Usa, il debito della borghesia greca e della sua corte di ceti medi, che ha soffocato e per lunghi anni continuerà a soffocare il proletariato greco con il suo volume di 315 miliardi di dollari (corrispondenti al 180% del Pil annuo), è solo una bazzecola. La dimensione del debito per la borghesia è un parametro importante: è l’espressione della potenza del capitale. La capacità di rimborsarlo si presenta al più come un fastidio che essa risolve grazie allo schiacciamento della classe operaia, prima e dopo la crisi. Che cresca o diminuisca, il debito che è stato divorato non è altro che la manifestazione economica della dittatura della borghesia sulla classe operaia.

Se per la Grecia non sussiste la capacità (sostenibilità) di restituire il piccolo prestito, perché dovrebbe esserci per le due più grandi economie mondiali, Cina e Usa, indebitati in misura gigantesca per tenere accesa giorno e notte la fornace della produzione del plusvalore e della sua accumulazione? Non dovrebbero esserci dubbi, se ci si ricorda che la crisi economica mondiale attuale è nata proprio dal gigantesco affare immobiliare dei debiti americani (i mutui subprime), che la borghesia non ha mai pagato: al contrario, le banche in sofferenza furono salvate e sostenute. La stessa cosa vale se si va indietro nel tempo alla crisi del 1929, che, dieci anni dopo, condusse al massacro della Seconda guerra mondiale. Miseria e sfruttamento nel corso della crisi, distruzione di guerra poi, sfruttamento e ricostruzione dopo: chi ha pagato, se non il proletariato?

La crisi del debito, che interrompe bruscamente l’intero sistema del credito, non è un evento estemporaneo, ma un effetto oggettivo della dinamica capitalista che si muove attraverso cicli economici di sovrapproduzione e di crisi. Il debito nell’economia capitalista non è un optional, è una necessità ineluttabile: debiti delle famiglie, debiti dello Stato, debiti finanziari. Non è una possibilità remota, ma una necessità, che sta dietro all’acquisizione della montagna di credito e va inevitabilmente a inceppare l’accumulazione del capitale.

Gli osservatori (economisti, azionisti, banchieri) sono in allarme di fronte agli avvenimenti di questa portata: sembra che “in questi ultimi anni il debito mondiale [abbia] corso più che mai”, dicono. I dati riportati da Il Sole-24 ore del 19 luglio parlano chiaro: dal 2007 (quindi, dall’inizio della crisi), “il debito mondiale si è incrementato di 57 mila miliardi di dollari”. A fine 2014, dopo sette anni di crisi (“la più grave crisi dal II dopoguerra”), il mondo ha cumulato un debito complessivo di circa 200 mila miliardi di dollari, tre volte il valore del Pil mondiale. Se guardiamo in particolare alla Cina, la velocità della sua crescita economica, accompagnatasi alla “leva finanziaria”, ha fatto sì che il debito quadruplicasse negli ultimi sette anni. Metà dei prestiti hanno finanziato la bolla immobiliare e il sistema bancario è cresciuto del 36% all’anno. Dal IV trimestre del 2007 al II trimestre del 2014, tutti i comparti delle categorie di debitori a livello mondiale, ne hanno usufruito (dati in migliaia di miliardi di dollari): famiglie (da 33 a 40), governi (da 33 a 58), finanziari (da 38 a 45), aziende (da 38 a 56). E’ caduta, accumulandosi, un’immensa manna dal cielo: i salvataggi di governi e di banche, tramite politiche fiscali espansive, hanno gonfiato mostruosamente il debito pubblico, a tassi quasi nulli. La “cura di liquidità” ha portato il mondo del capitale sull’orlo del fallimento. La borghesia e la piccola borghesia, abbacinate dalla ricchezza immaginaria, hanno spinto agli estremi il proprio indebitamento, perché “prendere il denaro in prestito costava pochissimo e investire nelle attività più inverosimili era un grande affare”.

Uno strano circuito positivo ha impedito al sistema mondiale di crollare. Tutto questo sembra alquanto folle, perché quel debito, che non è scomparso e non è stato restituito, aspetta, presto o tardi, di scoppiare. Il “punto di appoggio per sollevare il mondo” è divenuto molto più instabile di un tempo: il saggio medio di profitto ha continuato a scivolare tendenzialmente verso il basso, ma la mole del capitale è cresciuta, è aumentata di 57 mila miliardi di dollari. Un mondo che cresce piano rispetto al passato, ma che ha più debiti di prima, dato che la montagna che porta sulle spalle è cresciuta di 57 mila miliardi di dollari, corrispondenti all’intero Pil mondiale dell’anno scorso. La Cina, che vive questa sbornia da debito, raggiungerà, “per le sole imprese”, i 28 mila miliardi di dollari nel 2019, il 40% del totale dei debiti, mentre la “totalità delle imprese” a livello mondiale dovrebbe attestarsi sui 70 mila miliardi, dagli attuali (2014) 50 mila miliardi.

Il rischio è esplosivo. Non conta tanto il valore assoluto del debito, si diceva, ma solo la sua sostenibilità. Il che pone la domanda: riuscirà la Cina a rimborsare tutti i suoi creditori? La questione è dubbia, visto che l’economia cinese non cresce come un tempo al ritmo di due cifre. Dall’inizio della crisi, il Pil annuo si aggira sul 7%, e forse terrà ancora a lungo attorno a questa percentuale. Se poi, nei prossimi anni, la tendenza del Pil dovesse muoversi ancora verso il basso (e molti pensano che si possa arrivare al 5% nei prossimi due-tre anni), l’aumento del debito sarà esplosivo, perché la divaricazione tra debito e Pil crescerà. L’indebitamento attuale potrebbe essere compensato (dicono) dalla corsa delle Borse cinesi: ma anche gli scoppi recenti (luglio)della bolla immobiliare di Shangai (-5,9%; -8,5%) si sono verificati a causa di un altro indebitamento. Ma se anche la Banca centrale cinese e il governo riuscissero a tamponare questo caos, è certo che la montagna di debito nei prossimi anni finirà in un crollo. Un botto colossale.

Intanto, il proletariato mondiale è messo sempre più alla catena: per pagare i debiti altrui.

E dopo la Grecia?

Come abbiamo detto, la Grecia è piccola e il suo peso reale sulla bilancia del capitalismo mondiale è relativo: la sua crisi è una piccola parte della più ampia crisi economica che da anni ha colpito il modo di produzione capitalistico ed è ben lungi dall'essere superata. Ora, dopo il travaglio delle settimane convulse di luglio (travaglio che si potrebbe definire “da operetta”, se a farne le spese non fossero migliaia di proletari), l'amnesia tipica dell'ideologia dominante è già all'opera per ricacciare sullo sfondo tutta la faccenda e rincuorare così chi è ancora ostinatamente convinto che questo sia “il migliore dei mondi possibili”. Ma la Grecia non è sola: sull'orlo dell'abisso, è in buona compagnia! Il quotidiano online indipendente “Lettera43” dà ampio spazio, per esempio, agli “altri Stati vicini al fallimento” 1: un bel quadretto, non c'è che dire! Proviamo a leggerlo, ben sapendo che – come sempre con gli organi di stampa borghesi – ogni cosa va presa con le pinze.

Si parte (ohibò!) dalla Cina, in “frenata infinita”: la crescita rallenta e le “bolle” s’ingrossano. Per anni, a fronte dell’“alto tasso di risparmio del Paese”, il governo non ha fatto altro che esortare a investire “sui listini di Pechino e Shenzhen”: “La stampa locale ha magnificato i guadagni facili, la banca centrale ha cancellato gli interessi sui depositi, gli istituti (abbandonato il mercato immobiliare) hanno sovvenzionato i loro correntisti per fare acquisti in leva”. Così, la Borsa di Shanghai è cresciuta del 150% in sei mesi, per poi – patapumfete! – crollare bruciando un trilione di dollari di quanto guadagnato. Non basta: leggiamo che “a investire in borsa o a dare garanzie alle banche locali sono state anche le 31 province del Paese”; e, a giudizio di Standard&Poor, 15 di esse (la metà) non fanno che emettere titoli spazzatura. Inoltre, il debito complessivo delle amministrazioni locali ammonta a 17.900 miliardi di yuan (=2.700 miliardi di euro), e la provincia più ricca (il Guangdong) ha un passivo di mille miliardi di renminbi (=150 miliardi di euro). Ora, lasciamo pur perdere ogni considerazione relativa al fatto che qualcuno si ostina ancora a chiamare “comunista” un’economia del genere: quel che c’interessa qui è il fatto che la “bolla cinese” è sempre più gigantesca (senza dimenticare che è la Cina a sostenere l’enorme debito pubblico USA…).

Ma passiamo all’Austria, quell’“Austria felix” cui abbiamo già dedicato attenzione in un numero passato di questo giornale. Bene: qui abbiamo una Carinzia che dalla Germania ha ottenuto di ristrutturare il proprio debito, “altamente esposto con la vicina Baviera”. Non solo: la stessa Carinzia, oltre a dover “partecipare direttamente al salvataggio della banca Hypo Alpe Adria, nazionalizzata nel 2009 al prezzo simbolico di un euro”, ha dovuto anche “mettere la sua garanzia sui debiti poi assorbiti dalla Bad Bank pubblica Heta”, che all’inizio dell’anno aveva un passivo superiore ai 7,6 miliardi, “talmente alto da far crollare da A a BB il rating della Carinzia e da costringere l’Austrian Financial Market Authority a sospendere qualsiasi rimborso fino a marzo 2016”. Certo, l’Austria non è la Cina: ma la sua economia e la sua finanza sono strettamente integrate a quelle tedesche – e difatti, proprio negli stessi giorni della crisi greca, la Germania ha dato “il via libera a un accordo tra la Baviera e la Carinzia, con i tedeschi che hanno rinunciato a 1,5 miliardi per evitare il fallimento dello Stato federale austriaco”. Come si vede, la Grecia (e non solo la Cina!) è vicina…

Le cose non vanno poi meglio oltre Atlantico. In Brasile, per esempio, uno dei tanto celebrati BRICS, a fine 2015 “il PIL potrebbe calare dell’8%”, mentre le “riserve valutarie sono scese a 16,25 miliardi di dollari” e la “produzione di petrolio è crollata a 2,6 milioni di barili” (e non stiamo a ripetere qui quanto abbiamo già scritto sulla crisi da sovrapproduzione nel campo del petrolio e delle materie prime). Attualmente, economisti e agenzie di rating hanno emesso per il Brasile un giudizio di CCC, dando per prossimo un default, rimandato per il momento solo grazie a “una serie di emissioni della società petrolifera nazionale” e da prestiti plurimiliardari (dall’inizio dell’anno, venti), da parte di chi? Ma della Cina! Tutto si tiene…

Non lontano dal Brasile, in quella parte del mondo, c’è poi Portorico. Portorico? E che c’entra? Già, Portorico, che non è ancora il 51° Stato USA (ma aspira a diventarlo), bensì solo un territorio annesso, ha un debito di 72 miliardi di dollari e, “non essendo una nazione e a sé stante, non può chiedere aiuti al Fondo monetario internazionale (Fmi)”, e nemmeno attivare facilmente “la procedura federale (Chapter 9) prevista per i territori in shutdown”. Così, a metà luglio, il governatore Padilla ha annunciato ai creditori il taglio del debito; da parte sua, la Casa Bianca che fa? “ufficialmente annuncia che Padilla deve portare avanti i suoi tagli alla spesa di 674 milioni di dollari, ufficiosamente preme sui creditori privati” perché accettino una ristrutturazione del debito, “visto che il mercato dei titoli locali è la principale fonte di finanziamento per le opere pubbliche di città e Stati”. Intanto, però, “si è deciso di portare i risparmi dei cittadini dell’isola sotto l’ombrello dell’autorità statunitense”. Auguri! E non dimentichiamo che, da sempre (dalla fine dell’800), l’isola ha funzionato come polmone per il mercato del lavoro statunitense, con periodiche ondate di immigrazione verso le principali metropoli del Nord Ovest e altrettanto periodici “ritorni all’isola” nei periodi di crisi: anche qui, tutto si tiene…

Infine, altro viaggio transatlantico: andiamo in Sud Africa, di cui pure abbiamo parlato in abbondanza negli ultimi anni. L’ultimo dei BRICS è in crisi nera: dall’inizio del 2015, “due milioni di persone hanno dovuto dichiarare fallimento, non riuscendo a pagare i loro debiti legati ai consumi per beni primari come cibo, vestiario o medicinali”! Non solo: “il debito pubblico è cresciuto di 2 miliardi di dollari soltanto negli ultimi 12 mesi”; la crescita (quella crescita che tutti invocano come toccasana) “è un terzo (sotto il 2%) rispetto a quella degli anni migliori” (anni migliori? migliori per chi?); “le importazioni superano le esportazioni quasi del 5%”, l’inflazione è sopra il 5%; e la moneta, “nonostante tutti gli apprezzamenti del costo del denaro”, ha perso il 35% rispetto alle altre divise. Inoltre, “i debiti privati sono pari al 75% del reddito disponibile, la disoccupazione giovanile supera il 50% e l’indice Gini sulla disuguaglianza segna il picco più alto al mondo: quota 63,1”. Dunque, altra situazione esplosiva, in un mondo (quello capitalista) totalmente interconnesso.

Ricordate come finisce quella filastrocca intitolata “Dieci piccoli indiani”? Ve lo ricordiamo noi: “E poi non ne rimase più nessuno”. Ma perché non ne rimanga più nessuno… Be’, è inutile ripetere sempre come la vediamo noi!

 

1 http://www.lettera43.it/economia/finanza/non-solo-la-grecia-gli-altri-stati-vicini-al-fallimento_43675179593.htm

 

 Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista) 

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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