DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Da comunisti, non ci scandalizziamo certo se la borghesia italiana (ma il “trattamento” è generale) “accoglie” coloro che riescono a mettere piede sul “suolo patrio”, non con la semplice condizione di “immigrati”, ma con lo status da codice penale di “clandestini”. Così facendo, mette subito in condizione di inferiorità rispetto ai proletari autoctoni o agli stessi immigrati regolari quei disgraziati che hanno la ventura di arrivare ancora vivi: perché dare loro facilmente permessi di soggiorno o anche la “cittadinanza”, quando, sentendosi addosso il marchio della “clandestinità”, accetteranno necessariamente di lavorare in nero o di piegarsi a condizione di lavoro di vera schiavitù?

La classe borghese dominante si è sempre avvalsa, per la propria stessa sopravvivenza, della formazione di una sovrappopolazione operaia, di un “esercito industriale di riserva”, prodotto dello stesso sviluppo del modo di produzione capitalistico, per poter esercitare una forte compressione sui salari. Ebbene, gli immigrati non solo aumentano in quanto tali, con il loro flusso continuo, il numero di questo esercito, ma, proprio in quanto “clandestini” (“riserva della riserva”, cioè molto più discriminati e soggiogati rispetto agli altri proletari), spingono ancor più al ribasso il costo complessivo della forza lavoro proletaria a disposizione del Capitale. La borghesia italiana (ma, da capo, il discorso vale per tutte le borghesie nazionali, in forme diverse ma eguali nella sostanza) può inoltre giocare sul sentimento sciovinista, instillato da sempre nei proletari, per indirizzare la loro rabbia e la loro lotta contro “lo straniero che ruba il lavoro” agli autoctoni, allo stesso modo con cui sfruttava il particolarismo territoriale o regionale negli anni ’50 o ’60, o ancor oggi quello “padano”, contro i proletari “meridionali”, per attizzare la concorrenza e la guerra tra gli stessi proletari in generale e abbassare così i salari. Alla classe dominante non è solo utile avere una popolazione operaia in eccesso (ed oggi, con la grave crisi economica, questa condizione non le manca di certo, come mostrano gli ultimi dati, tutti in aumento), ma è necessario che tale popolazione lavoratrice in eccesso e di riserva sia anche estremamente divisa, frammentata e dunque soggiogata (meglio ancora se anche sul piano giuridico), con qualunque motivazione: nazionale, territoriale, campanilistica, di categoria, ecc.

Le leggi tipo “Bossi-Fini” (una legge “di destra”, che non ha fatto altro che mettere in pratica quella precedente, “di sinistra”: la “Turco-Napolitano”) filano dunque tutte in perfetto accordo, perfettamente coerenti con gli interessi della borghesia, che da sempre “giudica”, valuta e imprime lo status ai propri schiavi salariati (siano essi immigrati o cittadini in piena regola) in base al massimo profitto da estorcere dal loro lavoro. Certo, Il caso italiano è un po’ particolare. Gli immigrati, a bordo delle “carrette del mare”, sempre più spesso non arrivano neppure vivi, suscitando “clamore”; oppure, se arrivano ancora in vita, sono “ospitati” per mesi interi (per l’identificazione, per il rimpatrio o per il visto di rifugiati politici, ecc.,) in quelle vere e proprie gabbie-lager che, con ironico cinismo, vengono chiamate “centri di prima accoglienza o di soccorso”, suscitando altro “clamore”. Per di più, per la maggior parte di loro, l’Italia rappresenta solo un passaggio verso le regioni più ricche d’Europa.

Per evitare tanto scandaloso “clamore”, la borghesia italiana da anni è stata costretta a porsi il problema di “come risolvere” la spinosa questione. La “civile e generosa soluzione” poteva solo essere quella sua tipica: impedire che gli immigrati, per arrivare qui, possano imbarcarsi (quando si dice: “lottare contro le cause”…); in altre parole, lasciando cioè la patata bollente nelle mani degli stati di partenza o di transito, oppure, come in queste ultime settimane, approfittando del fastidioso “clamore” degli ultimi naufragi, ribadendo insistentemente che il problema “non è solo italiano ma europeo” (e non disdegnando, nelle recenti operazioni definite “Mare nostrum”, di fare sfoggio di patriottica potenza, pattugliando la zona con mezzi militari di una certa rilevanza tecnologica).

Certo, l’Europa, così intenta a sanzionare le “inadempienze” di quegli stati che, non riuscendo più a crescere economicamente, non si decidono a tagliare ancora più drasticamente le spese sociali, dovrebbe avere “comprensione”, cioè aprire il portafoglio, per quelli che, come l’Italia, hanno simili problemi – con chi insomma vorrebbe “condividere” con gli altri stati le proprie disgrazie! Ma dove andrebbe a finire allora il sogno di un’“Europa forte e potente”, se essa si “prodigasse” nel soccorso verso le miserie e disgrazie altrui? Il fatto è che la crisi economica mondiale sta mettendo sempre più “a ferro e fuoco” le condizioni economiche, sociali e politiche degli stati più deboli, costringendo masse di proletari, contadini, piccolo-borghesi rovinati a fuggire da condizioni di vita divenute sempre più insostenibili. Sono, d’altra parte, i grandi stati imperialisti, che molte “anime belle e civili” vorrebbero dimostrassero adesso “buona accoglienza”, che, approfittando dei dissesti politici (vedi il più evidente caso libico), speculano ancora sulle disgrazie di questi paesi, per depredare e saccheggiare ancor più di quanto abbiano sempre fatto.

L’aggravarsi della crisi economica e i maggiori disastri che produce nei paesi più deboli, nel “si salvi chi può” generale, spinge gli stati imperialisti più ricchi ad avventarsi da veri avvoltoi su di loro per depredare quanto più possibile. Si tratta, per la borghesia italiana, come per quella di qualunque altro paese, di approfittare di tali disgrazie per trarne ogni possibile vantaggio, se non certo per nuovi “rilanci” economici, almeno in termini di maggiore sopravvivenza. Questo è l’unico modo, “concreto e reale”, e non quello astratto e romantico di pacifisti e umanitari, di affrontare e “risolvere” questo tipo di problemi da parte di qualunque borghesia. Si vorrebbe che tali stati diventassero meno cinici, cambiando pelle, nei confronti di coloro che non sono se non le ennesime vittime dei loro lunghi misfatti? Che improvvisamente si muovessero in loro soccorso in nome di una “umanità” che il sistema capitalistico non ha mai conosciuto e non può mai conoscere, se non come copertura, ipocrita maschera, della sua cieca corsa al profitto e dei suoi misfatti? Quello che oggi sembra turbare i sonni della borghesia italiana non è certo la sorte di questi sventurati, non dissimile da quella di tanti altri in altri paesi e regioni (si vedano i “respingimenti” americani a suon di fucilate ai confini col Messico): quello che suscita la sua “indignazione morale”, espressa a livelli “presidenziali” o... “francescani”, è la frequenza di questi “episodi”, quel “fastidioso clamore” dei naufragi, ma soprattutto la rabbiosa reazione degli immigrati nei cosiddetti centri di primo soccorso che (come in quello di Mineo) si è trasformata in una vera rivolta, con blocchi stradali, scontri con le forze di repressione, ecc., che hanno ricordato quella del 20 settembre 2011 in seguito all’incendio di uno degli edifici del centro.

La borghesia, contrariamente ai propri calcoli di convenienza, teme che gli immigrati possano invece diventare, con il loro carico di dolore e sofferenza, e di forte volontà di vivere, un veicolo di pericoloso contagio per gli stessi proletari autoctoni, narcotizzati e sfiduciati da decenni di voltafaccia e corruzione da parte di coloro che dovevano difenderli dagli attacchi del Capitale. La loro misera, crudele condizione di esistenza e di lavoro, mostra ai proletari autoctoni che anche la loro sorte non è poi così diversa e che lo status di “cittadinanza” o di “lavoro regolare” non li potrà preservare, con l'approfondirsi della crisi economica, da altre cadute nel baratro della miseria o dall’abbrutimento ancora peggiore nel lavoro o nella disoccupazione. Il peggioramento delle condizioni generali di esistenza, l’esaurimento delle illusorie riserve, la miseria sempre più profonda e generalizzata, avvicinano a grandi passi la sorte dei proletari immigrati a quelli con “piena cittadinanza”. L’“emarginazione sociale” diventa sempre meno una condizione legata alla sola condizione di immigrati-clandestini, e sempre più una condizione generalmente condivisa da tutti i proletari. D’altra parte, nella grave situazione di crisi attuale, le aziende sono costrette – pescando bene nel grande mare della sovrappopolazione operaia – a servirsi sempre più largamente del lavoro degli immigrati. Non più e non solo nei tradizionali settori e categorie come l’agricoltura o l’edilizia, sottoposte da sempre a caporalati o racket malavitosi con tanto di connivenze e complicità da parte degli “ organi di controllo” dello Stato, ma anche in altri settori e categorie più visibili e “familiari”. E’ il caso, come abbiamo documentato proprio attraverso le decise lotte degli immigrati degli ultimi anni, del settore della logistica: IKEA, T.N.T., Granarolo, ecc. Le pressanti e maggiori esigenze di rivitalizzare il profitto sempre più in discesa per cercare uscire dal tunnel della crisi economica mettono sempre meglio in luce situazioni sociali e condizioni di lavoro da vera schiavitù, coperte da tempo non solo dagli interessi dei diretti “fruitori”, ma dalle stesse istituzioni (sindacati compresi, che delle istituzioni fanno ormai parte). Attraverso queste lotte, anche i proletari immigrati, grazie al sostegno, alla solidarietà e alla simpatia manifestate nei loro confronti, percepiscono sempre meglio che la loro condizione di lavoro e di vita nel paese di “accoglienza” non è così diversa da quella dei proletari con tanto di “cittadinanza”. Il coraggio dimostrato in queste lotte non è più lo sfogo di rabbia disperato, senza via d’uscita, di Rosarno o Castel Volturno di qualche anno fa. Malgrado l’isolamento, la cortina di silenzio, le denunce cui sono sottoposti gli elementi più combattivi da parte dei sindacati di regime e dalle autorità, la solidarietà, l’appoggio anche di piccoli settori proletari o la simpatia di tanti giovani, proletarizzati da un futuro senza speranza, danno alle lotte una prospettiva meno disperata.

Certo, nessuna illusione! Siamo appena all’inizio della ricostruzione di un tessuto di solidarietà tra i proletari e grandissimi e di ogni genere saranno gli ostacoli, le difficoltà che si presenteranno. Ogni anche piccolo passo avanti sarà conquistato al prezzo di grandi battaglie e sacrifici e rappresenterà una vera e propria dichiarazione di guerra contro il sistema capitalistico che, pur sprofondando nella crisi generale a causa delle sue stesse leggi, non tollererà di essere “combattuto” e meno che mai “piegato” in qualche misura dalle lotte dei suoi stessi lavoratori salariati. Il sistema capitalistico cercherà anzi di salvarsi e riemergere dalle sue crisi accentuando la divisione tra i proletari, sottomettendoli e dividendoli ancora più, mettendo in campo tutte le discriminazioni possibili, sia di carattere nazionale, sia di categoria, settore, ecc. e dando loro in pasto capri espiatori di ogni genere. La borghesia si serve della condizione di clandestinità, non solo per abbassare i salari, ma soprattutto per poter avere le mani “legalmente libere” per reprimere facilmente le lotte dei lavoratori immigrati e attraverso esse quelle di tutti gli altri proletari. Il suo desiderio “teorico” di potere e volere “integrare” gli immigrati, per portarli nell’alveo del controllo democratico, oggi deve lasciare il posto alle più immediate e concrete esigenze di controllo e repressione della loro rabbia e delle loro lotte. Sarebbero guai per il sistema capitalistico e per la classe dominante se il proletariato, tramite le lotte disperate degli immigrati, rialzasse la testa; se il fronte proletario, accuratamente frammentato e spezzato in lunghi decenni, cominciasse così a ricomporsi.

Per il proletariato non vi sarà altra strada e via d’uscita se non la lotta generalizzata, se non vuol sprofondare oggi nella miseria e nell’abbrutimento sempre peggiore e domani in una nuova carneficina bellica. In questa lotta, sarà necessario combattere tutte le discriminazioni che il sistema capitalistico mette in campo tramite i suoi numerosi servitori. La guerra tra i proletari a salvaguardia del capitalismo deve trasformarsi in una guerra dei proletari contro il capitalismo stesso. Soltanto con le lotte, nella misura in cui si estenderanno e rafforzeranno, i proletari cominceranno ad identificare il terreno della lotta stessa: decisiva sarà a quel punto la forza messa in campo, per far cadere e infrangere una dopo l’altra le discriminazioni e l’isolamento. La condizione di “clandestinità” dei lavoratori immigrati è una delle tante discriminazioni, una delle più odiose, che la classe borghese dominante usa come strumento per la propria sopravvivenza e che la solidarietà classista dovrà decisamente abbattere per procedere lungo il suo difficile cammino. Solo attraverso una lotta generalizzata e decisa in difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita, solo grazie a una crescente e organizzata solidarietà di classe, i proletari si renderanno conto inoltre che non basta la semplice lotta di difesa economica, ma che occorrerà andare ancora più avanti, fino all’abbattimento politico della borghesia e del suo Stato, unica vera condizione e soluzione per superare l’attuale infernale sistema capitalistico, sempre più incapace di procedere nel proprio cammino senza guerre, distruzioni e sofferenze di ogni genere. E' una lotta che richiederà soprattutto la difficile ricostituzione del partito comunista internazionale, unico strumento che potrà dirigere questo tormentato processo di battaglie verso i suoi storici obiettivi.

 

Partito Comunista Internazionale

 

(il programma comunista n°06 - 2013)
INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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