DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Chi osservi la realtà con sguardo materialista e dialettico non può non vedere come la crisi del sistema capitalistico, entrato da un secolo ormai nella sua fase imperialista, stia obbligando i principali “attori” mondiali ad azioni sempre più drastiche e radicali. Spinti dalle ineluttabili leggi del capitale, essi sono costretti a contendersi fette di mercato sempre maggiori, nel tentativo di appropriarsi di porzioni sempre più ampie di plusvalore mondiale. Contro chi riteneva che il mercato e le merci avrebbero certamente prodotto un'abbondanza di beni e ricchezza per tutti, noi abbiamo sempre ripetuto che il sistema basato sulla concorrenza e sull’estrazione di plusvalore non avrebbe mai sfamato la specie umana, e neppure portato a uno sviluppo economico pacifico e armonioso i diversi paesi. Abbiamo sempre ribadito che l’interazione dialettica fra economia e politica porta prima o poi a un conflitto armato di portata mondiale, finalizzato alla distruzione della pletora di merci che giace invenduta nei magazzini e dell’eccesso di manodopera proletaria che resta inattiva a causa della sovrapproduzione di quelle stesse merci: di fatto, in un sistema strutturato in base a una concorrenza spietata sul piano economico fra le varie borghesie mondiali, la guerra guerreggiata appare come la continuazione più logica e ovvia della guerra commerciale che la precede. Non va poi scordato il nesso dialettico fra la forza economica di uno Stato e la sua capacità di proiezione e di intervento sul piano bellico, strumento e mezzo per la salvaguardia delle necessità economiche di ogni singolo paese.

Nessuna nazione può dunque tirarsi fuori dalla spirale dei rapporti inter-imperialistici, proprio là dove lo sviluppo economico acuisce i ritmi di crescita: cioè in quelle aree del pianeta in cui si intensifica la concorrenza fra le borghesie emergenti e quelle dominanti, tutte spinte a risolvere le contraddizioni e i contrasti, prodotti da un sistema che non si trova mai in stato di equilibrio, facendo ricorso alle armi.

Volendoci soffermare sull’importanza dell’Asia e in particolar modo sulla vasta area dell’Asia-Pacifico, possiamo subito sottolineare che proprio qui si concentra la maggior produzione e movimentazione di merci a livello planetario. Anzi, se gli USA e l’Europa appaiono sempre più come sistemi produttivi asfittici, in quanto capitalismi ormai maturi, nell’Asia sud-orientale troviamo numerose economie emergenti come Corea del Sud, Vietnam, Filippine, Tailandia, Indonesia e Malesia, quasi tutte inserite in quella lista che gli economisti borghesi si divertono a chiamare “the next eleven”, i prossimi undici paesi che avranno una crescita del PIL oltre il 4% negli anni a venire 1.

In questa regione, è la Cina che sta via via ritagliandosi le maggiori fette di mercato e di controllo geo-strategico rispetto ai diretti concorrenti – i quali a loro volta, se da un lato vedono con favore la possibilità di godere degli investimenti cinesi e degli accordi di libero scambio, dall’altro temono l’espansione sempre meno pacifica del dragone che non perde occasione per ribadire quali siano le proprie necessità primarie nell’area. Il disegno politico portato avanti da Pechino è basato sulla cosiddetta strategia del “filo di perle”: vale a dire, la costruzione di una serie di porti e di infrastrutture capaci di garantire al paese una rapida proiezione economica e militare in tutta la vasta area del Mar Cinese, teatro del principale transito mondiale di merci e di materie prime, sia verso che in arrivo dall’Europa. Tenendo conto di ciò, si capisce perfettamente la necessità da parte di Pechino e dei diversi Stati contigui di ribadire tramite le proprie dichiarazioni programmatiche o mediante le dottrine militari l’importanza strategica di questa regione.

Pechino ha partecipato al meeting dell’ASEAN+3 – Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, più Cina, Giappone e Corea del Sud – e all’ASEAN Regional Forum (ARF), cercando di ritagliarsi uno spazio politico funzionale e rispondente alle fisionomie di egemonismo e di proiezione geo-strategica verso tutta la regione, addirittura portando avanti la costruzione di una base militare nel Myanmar (ex Birmania) e cercando di tessere relazioni “amichevoli” con i propri vicini. Va detto che gli investimenti cinesi in Myanmar hanno raggiunto negli ultimi tempi un notevole incremento, conquistando una quota preponderante di mercato. Tuttavia, nonostante l’aumento del volume di affari, la quasi totalità della popolazione birmana vive in condizioni di estrema povertà. Oltre a ciò, dopo aver finanziato diversi progetti di infrastrutture portuali in paesi come lo Sri Lanka e il Bangladesh, la Cina sembra intenzionata a installare una base militare nelle Isole Seychelles: l'arcipelago, situato nell'Oceano Indiano, diventerebbe così un porto di rifornimento per la crescente potenza militare marittima cinese, ufficialmente impegnata nelle operazioni anti-pirateria. Va tenuto presente che la presenza marittima cinese nell'Oceano Indiano è da tempo fonte di preoccupazione per altri attori regionali, come l'India, ma anche per gli Stati Uniti, e l'installazione di una base militare alle Seychelles viene in tutta evidenza avvertito come un motivo di tensione per l'intero assetto regionale.

L’intento di Pechino è quello di farsi percepire all’esterno come un paese pacifico e affidabile, con il quale instaurare trattati economici per garantire uno sviluppo a tutta l’area. Ciò nondimeno, sono trascorsi solo pochi mesi da quando Wen Jiabao (ormai ex primo ministro della Repubblica Popolare cinese) ha ribadito di fronte al Congresso la necessità per il paese di uno sviluppo pacifico basato sulla comunità multipolare e su una politica di buon vicinato – Good Neighbour Policy o Open Door Policy – , ed ecco che la marina della Repubblica Popolare ha dovuto fronteggiare una situazione di massima tensione con i vicini filippini.

Già durante il 2011, e successivamente nel luglio del 2012, il livello di tensione nell’area era considerevolmente aumentato per via della contesa sul possesso e controllo delle isole Spratly2. Sebbene da un punto di vista prettamente territoriale l’arcipelago di un centinaio di isole possieda un valore piuttosto esiguo – la superficie complessiva non raggiunge le tre miglia quadrate –, la maggior parte degli analisti è consapevole del fatto che anche esse, alla stessa stregua delle Senkaku, giacciono su consistenti depositi di gas naturale e di petrolio (con riserve di greggio stimate a 213 miliardi di barili, pari all'80% di quelle dell'Arabia Saudita), e che pertanto il loro valore strategico aumenterebbe considerevolmente in funzione di un incremento del flusso di navi nella zona. E ciò, senza trascurare il fatto che si trovano in prossimità di un importantissimo crocevia marittimo per lo scambio mondiale di merci e sono bagnate dalle acque più pescose del Mar Cinese Meridionale. Di conseguenza, tali isole suscitano non a caso anche l’interesse di Vietnam, Brunei, Taiwan, mentre la Malesia avanza pretese soltanto su una parte della piattaforma continentale sottostante. Ma non è tutto!

Come se non bastasse, la tensione nell'area si era aggravata perché tre navi militari russe, compreso l’incrociatore anti-sommergibile Panteleyev, avevano già fatto rotta e gettato l’ancora in quelle acque, in risposta all’avvicinamento dei due cacciatorpediniere americani, lasciando intendere ai vari contendenti che anche Mosca ha tutti gli interessi per inserirsi in quello che è diventato il nodo di transito di merci ed energia mondiale per eccellenza. Si tenga a mente che l’ormai ex-segretario di Stato Hillary Clinton ha più volte condannato la politica aggressiva della Cina relativamente alla contesa, ribadendo in più occasioni l’impegno militare americano (USA e Filippine sono legati dal 1951 da un Trattato di Mutua Difesa) “nel caso in cui le Filippine si trovino a fronteggiare minacce per la propria sicurezza e integrità territoriale nel Mare Cinese del Sud, fornendo materiali ed equipaggiamenti militari”: proprio in quel particolare dominio marittimo gli USA hanno infatti un forte interesse strategico nazionale e, in modo non casuale, a tale scopo incontri ufficiali sono stati condotti anche con Giappone, Corea del Sud e Australia3. I commenti della Clinton avevano rincuorato il governo centrale del Vietnam, la cui marina si era già scontrata precedentemente con la marina militare cinese, in seguito alla dichiarazione che le Spratly hanno già degli insediamenti militari di varie nazioni e man mano che il loro valore aumenta, esse potrebbero inevitabilmente diventare motivo di contrasto e fonte di conflitto.

Infine, a febbraio quest’anno, il governo di Pechino ha inviato una flotta della marina militare, dichiarando apertamente di voler pattugliare e sorvegliare le proprie acque territoriali al fine di difendere i propri interessi nazionali, contenendo l’influenza statunitense nella regione4.

A tal proposito, è bene ricordare che il 21/4/2013, ovvero solo pochi giorni dopo che l’agenzia di stampa statale nordcoreana aveva comunicato che il paese si trovava di fatto in guerra contro la Corea del Sud (altro tassello fondamentale per capire e interpretare le dinamiche che agiscono in Estremo Oriente come in ogni altra parte del globo, anche se con intensità più o meno ridotta), la Cina è andata vicinissima a uno scontro militare con il Giappone per via del controllo delle isole Senkaku, che si trovano all’interno dell’area di interesse geo-strategico nazionale.

La controversia sulle Senkaku risulta del tutto simile alla disputa sul controllo delle Spratly: anch’esse sono poste infatti a ridosso di un crocevia commerciale importantissimo e poggiano su immensi giacimenti energetici. Si aggiunga poi che, in ogni caso, l’ascesa della Cina come paese esportatore viene sempre più percepita dal Giappone come un ostacolo alla propria politica di espansione economica, nel timore che il dragone cinese possa arrivare a sviluppare una competitività tale da riuscire a penetrare un mercato ancora maggiore di quello che già possiede, specie a partire dal 1998, anno in cui il declino economico nipponico ha iniziato a registrare il maggior crollo e dal quale ancora stenta a risollevarsi.

Pertanto, contrariamente a quanto si ostinano ad affermare i reggicoda della borghesia internazionale, il capitalismo non potrà mai superare quelle contraddizioni che sono insite nel proprio DNA e che lo spingono con sempre maggior virulenza a risolvere le questioni politiche attraverso i mezzi violenti dei conflitti armati, poiché non esiste né potrà mai esistere una politica imperialista che non sia frutto di una economia anch’essa imperialista di fatto, a scorno di chi ancora crede allo sviluppo pacifico ed equilibrato del sistema capitalistico.

Appare evidente che la borghesia cinese è preoccupata per la presenza americana nella regione, e ovviamente non apprezza le continue intromissioni di Washington in quello che Pechino considera il proprio “cortile di casa”, specie dopo le dichiarazioni del Nobel per la Pace, il presidente USA Barak Obama, relativamente al progetto di espansione militare americana in Asia in funzione anticinese e, val la pena di ricordarlo, per l’avvio della ennesima corsa agli armamenti. Per la precisione, gli USA hanno chiesto a Tailandia, Filippine e Singapore di poter tornare in alcune delle basi abbandonate dopo la fine del secondo conflitto mondiale e successivamente alla guerra del Vietnam, giustificando tale richiesta come rientrante nell'ambito della strategia di Washington tesa a osteggiare le sempre più minacciose ambizioni regionali di Pechino 5.

Similmente, oltre alla decisione di raddoppiare il numero dei missili nelle basi nipponiche e di ampliare il peso militare della base di Guam (isola delle Marianne, nell’oceano Pacifico occidentale) con il trasferimento di 8000 marines nell’isola con lo scopo di ampliare la base, il Pentagono ha cercato di ottenere il via libera dall’Australia – per il momento ancora con scarsi risultati, ma non per questo meno irritante per Pechino – per l’apertura di una base militare a Darwin nel nord dell’Australia, al fine di lasciare in abbrivio una portaerei nucleare con relativo naviglio ausiliario e il successivo invio di 2500 marines, sempre con il manifesto proposito di contenere la crescente potenza politica ed economica della Cina Popolare.

Ovviamente, da questi nuovi scenari si evince la nuova centralità acquisita dall’Asia Pacifico, e se da un lato Obama sottolinea l'indispensabilità della "leadership americana" come garanzia di sicurezza per la navigazione nello specchio d’acqua interessato, strettamente connessa al percorso di ridefinizione della strategia americana in questa regione, dall’altro vediamo che i paesi concorrenti non possono stare a guardare, ma sono spinti – primo fra tutti la Cina – a rimodulare costantemente le proprie politiche interne ed estere, favorendo programmi di riarmo e spese militari che, anno dopo anno, mostrano come anche l’economia dell’intera regione si stia mineralizzando in modo rapido e decisivo. Nell’area, si manifesta in modo prepotente un progressivo accerchiamento della Cina da parte degli USA, interessati a una nuova politica di riarmo dei Paesi del sud-est asiatico proprio in funzione anti-cinese6.

Questi pochi esempi mostrano chiaramente che nell’area Asia-Pacifico il divario fra i concorrenti imperialisti va riducendosi, rivelando tutte le lacerazioni nella camicia di forze di rapporti politici confezionata alla fine del secondo macello mondiale e ritenuta stabile ed eterna. In realtà, in questa regione, si manifestano una crescente instabilità e un incremento degli antagonismi fra le borghesie rivali, allo scopo di accaparrarsi ciascuna le materie prime, i capitali, uno spazio vitale per le proprie merci e il controllo delle vie di comunicazione strategiche.

Lo scenario fin qui studiato non fa che confermare ciò che noi ripetiamo da sempre: la guerra è elemento essenziale dello sviluppo capitalistico, in quanto proiezione della sua politica basata su rapporti di forza necessari per il controllo e la spartizione del pianeta, che possono essere risolti esclusivamente mediante conflitti militari. E poiché i rapporti di forza si delineano sempre nuovi e sempre si modificano, i contrasti fra capitalismi vecchi e capitalismi giovani hanno incessantemente bisogno di essere ricondotti a un equilibrio provvisorio tramite le guerre del capitale: la nuova corsa agli armamenti, acutizzata dalla crisi, che si manifesta in questi ultimi mesi in una regione che è già il primo mercato di armi e il più dinamico al mondo, non fa che rafforzare tutto ciò. Rimane chiaro che a pagare anche in questa circostanza sarà sempre la classe proletaria mondiale, prima con salari più bassi e con infime condizioni di lavoro e di esistenza, e successivamente con la propria vita.

Per tale motivo, il proletariato ha la necessità di intraprendere il duro cammino rivoluzionario, in difesa delle proprie condizioni di esistenza mediante la guerra di classe e sotto la guida di quell’organismo fortemente centralizzato che è il suo Partito di classe, così da abbattere definitivamente il dominio borghese e il suo modo di produzione ormai antistorico e costruire così una società senza classi.

 

1 Gli stessi dati di fonte statunitense affermano che il dominio finanziario degli Stati Uniti è andato via via riducendosi e assottigliandosi a partire dagli anni ‘50 (quando raggiungeva quote superiori al 50%) fino a oggi (quando tocca stancamente il 19%).

2 Nel 2011, la tensione era salita fra tra Cina e Vietnam per la sovranità sulle acque territoriali, dove transita circa il 56% del traffico mondiale delle petroliere e delle porta-container e i cui fondali racchiudono le più grandi risorse energetiche dell’Estremo Oriente, ambite dunque dai numerosi paesi che vi si affacciano. In quell’occasione, l’incidente coinvolse un peschereccio cinese e una nave vietnamita impegnata in sondaggi geologici per la ricerca dell’oro nero.

3 Le esercitazioni belliche congiunte tenute dalla marina militare statunitense e dalla corrispettiva marina militare delle Filippine sono state descritte dalla stessa Hillary Clinton come “un ulteriore esempio delle nostre strette relazioni politiche” (Wall Street Journal).

4 Risale al 15 aprile scorso la pubblicazione del nuovo Libro Bianco della Difesa cinese – L’impiego diversificato delle Forze Armate della Cina – con cui, a distanza di due anni dalla presentazione del documento intitolato Difesa Nazionale della Cina nel 2010, lo Stato Maggiore della Repubblica Popolare Cinese presenta al mondo il resoconto della propria dottrina politica, che integra piuttosto che modificare tutti i principali motivi geo-strategici stabiliti nel 2011.

5 Fra le basi strategiche, dovrebbe esserci Cam Ranh, la più grande base navale e aerea statunitense in territorio vietnamita. In aggiunta, Leon Panetta ha fatto riferimento a "un enorme potenziale", prospettando la possibilità di avere navi da guerra USA da considerare di nuovo “di casa” nel porto del sud Vietnam nella Subic Bay Naval e nell'ex Clark Air Base delle Filippine. Mentre in Thailandia il capo del Pentagono ha prospettato la possibilità di ristrutturare una base aerea costruita dagli americani per ospitare i bombardieri B52 negli anni '60 e '70, in qualità di punto strategico per le operazioni di emergenza in caso disastri regionali.

6 In uno studio sullo sviluppo militare cinese, l’Economist (settembre 2012) scrive che “Il rafforzamento militare della Cina ha fatto squillare un campanello d'allarme in Asia” e che il “nuovo orientamento strategico reso pubblico a gennaio da Obama e dal suo segretario alla Difesa Leon Panetta ha confermato ciò che già tutti a Washington sapevano: che il passaggio delle priorità verso l'Asia era in ritardo, perché l'America ha trascurato la regione più dinamica al mondo, distratta dalle campagne in Iraq e Afghanistan. In particolare si è risposto in modo inadeguato alla crescente potenza militare della Cina e al suo protagonismo politico. Secondo alti diplomatici americani la Cina – che ha l'ambizione e sempre più il potere per diventare egemone a livello regionale – è impegnata in uno sforzo volto a tenere l'America fuori da una regione che è stata dichiarata di interesse vitale per la sicurezza da ogni amministrazione a partire da Teddy Roosevelt, e sta attirando nella sua orbita di influenza i paesi del Sud-Est asiatico. L'America deve rispondere”.

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°05 - 2013)
INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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