DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

In Brasile si stanno vivendo gli effetti di un nuovo peggioramento della situazione economica (il PIL, che nel 2010 era cresciuto del 7,5 %, si è ridotto al 2,7 nel 2011 e allo 0,9 nel 2012), che colpisce gli strati sociali più disagiati, dopo che alcuni di questi avevano potuto, in una qualche piccola misura, “partecipare” a certi vantaggi dovuti al notevole sviluppo produttivo dell’ultimo decennio.

Così, verso la fine di giugno scorso, è scoppiato un forte movimento di rivolta e di protesta contro l'aumento dei prezzi dei trasporti pubblici, a fronte dei 15mld stanziati per l’organizzazione dei mondiali di calcio del prossimo anno. Iniziato a S. Paolo (con almeno 50mila persone che hanno marciato per ore), il movimento s'è presto diffuso a Sao Goncalo e Belo Horizonte, coinvolgendo sempre più ampi strati popolari – dalle “vecchie” classi medie a quelle nuove, ai sottoproletari delle favelas, per toccare, ma ancora solo marginalmente, alcuni settori dello stesso proletariato.

Certamente le ragioni di tali rivolte sono ben più profonde e si mescolano, nello stesso tempo,aquelle antiche, endemiche, e a quelle più recenti, legate proprio alle illusioni di una possibile duratura “compartecipazione” ai risultati economici degli ultimi anni.

La crescita economica dell’ultimo decennio, basata soprattutto sulle esportazioni di petrolio e di materie prime (ferro, ecc.), aveva infatti comportato una “certa” distribuzione ed elargizione di prebende e briciole. Esse hanno interessato alcuni settori della pubblica amministrazione, dell’aristocrazia operaia e anche degli stessi strati sociali più disagiati, con l’aumento del salario medio (1000 reais), la concessione anche di un salario minimo garantito (678 reais, pari a euro 229), una maggiore facilitazione del credito al consumo (la cosiddetta “borsa familia”), l’utilizzo maggiore di servizi pubblici (scuola, sanità), ecc. Così, si era molto strombazzato sul calo del divario tra il 10% dei più ricchi e il 10 % dei più poveri, sulla “fuoruscita dalla povertà” di quasi 40 milioni di persone, sulla formazione di una vera e propria nuova “classe media”.

Ma l’illusione, tanto alimentata e coltivata, ha dovuto fare i conti non solo col nuovo rallentamento economico generale, con l’aumento dell’inflazione (dovuta anche alla svalutazione del real, allo scopo di rilanciare l’economia), ma anche con la cieca quanto arrogante avidità dei soliti strati sociali più privilegiati, che non si sono fatti molti scrupoli nel far pagare i costi dei prossimi campionati mondiali al tanto decantato “popolo”, sperando nel suo tradizionale attaccamento ai colori nazionali. Questa volta, però, evidentemente l’uso del calcio come tradizionale “oppio del popolo” brasiliano, non ha funzionato come previsto.

E non ha funzionato neanche la retorica dell’orgoglio per un Brasile “grande potenza mondiale emergente”, “leader” tra gli altri paesi dell’America latina (finanziatore del FMI nel 2005), se non o addirittura loro “custode”, al posto dell’ormai surclassato e logoro “protettore” o “missionario” (secondo i famosi canoni della “dottrina Monroe”): gli USA.

Mentre, nella crisi tra Ecuador e Colombia (2008), il Brasile non era ancora riuscito a interpretare davvero il ruolo di super partes (e furono sempre gli USA a decidere, prendendo le difese della Colombia, amica tradizionale), nella successiva crisi boliviana il duro scontro tra le varie frazioni borghesi aveva visto invece proprio il Brasile (per mezzo dell’UNASUR, l'“Unione delle nazioni sudamericane”), e non più gli USA, proporsi come soggetto “rappacificatore” tra i contendenti – cosa inedita nella storia del Sudamerica; oppure prendere l’iniziativa di allargare il MERCOSUR (“Mercato comune dell’America meridionale”) al Venezuela, tra le proteste del Paraguay.

Ma questa nuova retorica nazionale, da “grande potenza regionale”, se era utile per mascherare servizi e riforme sempre a favore soprattutto dei grandi gruppi finanziari e industriali, ha dovuto poi fare i conti con la cronica mancanza di servizi e riforme nelle infrastrutture (lo stato insufficiente e pessimo dei trasporti, le strade piene di buchi, i forti tempi di percorrenza tra centro e periferia nei grossi centri come San Paolo). Si aggiungano a queste le misure prese più di recente, ovviamente “al risparmio” rispetto a quelle stesse risicate elargite poco prima, come il “ritocco” al salario minimo “garantito” e allo stesso “bonus familia”.

Il PIL che dal 2000 al 2004, sotto la presidenza Lula, era in media cresciuto del 2%, dal 2004 al 2008 era aumentato al ritmo medio del 5% l’anno, e questi risultati avevano consentito un debole rilancio delle opere pubbliche e di quelle infrastrutturali, anche da parte della nuova presidenza Roussef. Dinanzi al nuovo amaro “risveglio popolare” sulla propria condizione, sulla propria tragica realtà, la retorica di una “certa dose di socialismo”, sia pure in salsa popolare, iniettata dai due ultimi governi del PT (Partido dos Trabalhadores) all’insegna di qualche timida statizzazione, di qualche maggiore intervento statale su istruzione, sanità, igiene pubblica, ecc., ha retto.

Comunque sia, si è trattato di una reazione forte quanto inaspettata e improvvisa, a dimostrazione di come la classe dirigente borghese e, per essa, il suo ceto politico, qui come ovunque, vivano su un “altro pianeta”, quando si tratta di “capire” o “sentire” le reali esigenze generali popolari (non parliamo di quelle più propriamente proletarie), “accorgendosi” delle loro reali condizioni, della “distanza” che li separa da esse, solo quando lo stesso variegato popolo più disagiato e bistrattato scende nelle piazze e nelle strade, sfogando in vario modo la propria rabbia.

Questo fenomeno della “distanza”, del distacco della rappresentanza democratica dai “problemi del popolo” (come quello d’altra parte della corruzione), è generale e coinvolge le classi dominanti ovunque. Non si tratta infatti di caratteristiche particolari di questo o quel paese, ma di un fenomeno universalmente diffuso, con differenze in più o in meno, legate solo alle rispettive diverse vicende storiche.

I motivi di questo distacco rispetto agli interessi delle stesse classi medie, dei “ceti popolari”, dovuto anche alla radicata e ormai cronica corruzione economica e del ceto politico, non vanno ricercati né in fattori di ordine etnico o etico né tanto meno nella generale e tanto bistrattata “natura umana”. Vanno fatti risalire direttamente al sistema capitalistico, alla sua attuale fase imperialista ultra-parassitaria, che non fa che accentuare tutti i fenomeni degenerativi da sempre contenuti nel capitalismo stesso fin dall’origine.

E’ certo che la richiesta di una maggiore democrazia, rappresentanza, libertà, ecc., da parte del “popolo in lotta” o in rivolta, qui come in Turchia o in Egitto e ovunque, è e resterà solo una pia illusione, e soprattutto funzionerà per sviare la lotta stessa dalle pressanti condizioni di disagio e di miseria. Attraverso manifestazioni di strada e di piazza, anche con scontri contro gli apparati repressivi dello stato borghese, possono ottenersi certo utili risultati per una maggiore temporanea partecipazione a una certa, minima e “diversa”, redistribuzione del prodotto generale, nelle fasi ancora di sviluppo economico. Ma anche quando queste rivendicazioni fossero realizzate, esse accontenterebbero solo le ambizioni di avanzamento sociale di alcuni strati sociali, e solo temporaneamente; non devierebbero però il decorso generale verso la loro proletarizzazione, specie nei periodi di grave crisi economica come l’attuale, e soprattutto non cambierebbero le condizioni dei proletari, che diventano invece sempre più tragiche.

E’ il sistema capitalistico che produce, insieme al divario tra i pochi privilegiati e i molti indigenti, anche la corruzione economica e politica, poiché è un sistema fondato essenzialmente sulla estorsione con ogni mezzo di plusvalore dal lavoro dei proletari, sulla realizzazione senza scrupoli, e col pieno appoggio legale e istituzionale, del profitto. E’ il sistema capitalistico che impedisce, di fatto, in condizioni normali, ogni reale partecipazione “popolare” alla vita politica, perché esso sostanzialmente rappresenta gli interessi solo di una ristretta quanto potente minoranza economica e finanziaria, dedita esclusivamente e necessariamente a lucrare profitti e rendite, a discapito degli interessi anche di una gran parte della stessa borghesia piccola e media.

La mancanza di una reale democrazia e rappresentanza, se non nella forma o nell’apparenza formale (sbandierata sempre, da qualunque governo borghese specie se “di sinistra”, come “grande conquista” operaia o popolare), la corruzione generale degli strati privilegiati, l’affarismo malavitoso, non sono la causa del malfunzionamento del sistema capitalistico, ma solo gli effetti dello stesso sistema, il quale “funziona male” per altre cause, ben più profonde e radicali, che vanno cercate nelle sue “leggi proprie”, nella sua tragica dinamica, nella caduta tendenziale del saggio medio di profitto, nell'inevitabile movimento ciclico di “sviluppo e crisi di sovrapproduzione”.

Sono queste ultime le cause reali e profonde del “malfunzionamento” del sistema capitalistico, le quali producono o accentuano l’ormai radicato malfunzionamento generale, la più o meno cronicizzata corruzione o lo stesso ormai incancrenito (e ovunque diffuso) affarismo malavitoso e illegale. In Brasile, ad esempio, tali fenomeni sono oramai fortemente radicati: e sono essi che, ovviamente, sono stati sempre additati, dai vari governanti al potere, come le “vere cause”, il “vero nemico” da colpire e abbattere.

Sono decenni che in Brasile “si prende di mira” la corruzione e l’affarismo illegale attraverso continui “rimpasti governativi”, denunce dei casi più eclatanti, “cacciate” di personaggi fortemente coinvolti o magari di semplici capri espiatori: ma le cose sono poi tornate (e non potevano non tornare) sempre allo stesso stato, se non peggio di prima. Il forte sviluppo del capitalismo brasiliano negli ultimi dieci anni, la tenue lotta al cosiddetto “liberismo selvaggio” condotta dai governi precedenti a quello della attuale V. Roussef (e soprattutto da quello del “presidente operaio” Lula), le tanto decantate misure di statizzazioni o di semplice intervento statale realizzate grazie a una parte dei profitti e delle rendite lucrate dai grandi gruppi delle multinazionali (il gigante energetico Petrobras!), non solo non hanno attenuato privilegi, corruzione e affarismo illegale, ma al contrario li hanno accentuati, a dimostrazione del fatto che sono parte organica dello stesso sviluppo, dello stesso affarismo cosiddetto “normale”, legale o “istituzionale”, del capitalismo.

E’ dunque quest'ultimo, con il suo micidiale funzionamento, che bisogna abbattere per sradicare insieme a esso tutti i fenomeni che su di esso si sono prodotti e che gli sono ormai strettamente connaturati. Questo obiettivo chiama però in causa non più il generico “popolo”, le sue rivendicazioni, le sue lotte, le sue illusioni, che lasciano e hanno sempre lasciato sempre intatto il quadro capitalistico, ma la formazione in classe del proletariato, la sua progressiva riorganizzazione a partire dalle battaglie di difesa economica. Sotto quest’aspetto, in Brasile come ovunque, molta strada va ancora fatta.

La retorica del “semi-socialismo”, dell’antimperialismo anti-USA in chiave nazionale e sudamericana, l’orgoglio del “povero paese” divenuto ora “potenza emergente” e “dunque” possibile elargitrice di redditi e prebende varie, tutti questi fattori e illusioni giocano ancora fortemente nel tenere legato il proletariato al carro della borghesia, in un’unità popolare e patriottica.

Molti sono gli ostacoli e i nemici che dovrà combattere il proletariato brasiliano, come quello di ogni altro paese: non ultimo, il proprio corporativismo, l’appoggio ancora dato a questo o a quel governo in veste operaia e popolare e alle sue false promesse. In realtà, la storia dello sviluppo del capitalismo brasiliano, fin dall’inizio del secolo scorso, è tutta intessuta di magnifiche lotte proletarie, soprattutto nello stato di Sao Paulo, dove vi è sempre stata una fortissima concentrazione di capitali a partire dal settore automobilistico fino a quello tessile e chimico. Fu necessario il colpo di stato della borghesia brasiliana del 1964, sostenuta dagli USA, per piegare una combattività divenuta “allarmante” per gli interessi di quella borghesia (furono colpiti allora ben 270 sindacati). Con quel “golpe”, le condizioni dei proletari continueranno a peggiorare per almeno due decenni, mentre i sindacati verranno irreggimentati, decadendo nell’assistenzialismo e nelle pratiche del welfare. Tuttavia, già alla fine degli anni ’70, ancora sotto la dittatura militare, le lotte ripresero vigore, anche perché la stessa borghesia brasiliana e la chiesa cattolica ritennero giunto il momento di disfarsi del governo militare: così, risorgono i sindacati e nel marzo 1980 vi sarà addirittura il più grande sciopero generale della storia del Brasile, guidato dai lavoratori metallurgici.

Ma i nuovi sindacati verranno “incorporati” nel partito (il PT) che l’ex operaio Lula aveva fondato nel 1980: al loro posto, lo stesso Lula fonda nel 1983 la Centrale Unica dos trabalhadores, che sarà il maggiore sindacato del Brasile. Quindi, alla fine della dittatura militare, nel 1985, e in seguito con la elezione presidenziale dello stesso Lula avvenuta nel 2002, avremo un partito-ex sindacato al governo e un nuovo sindacato alle strette dipendenze della politica del “governo operaio”. E un proletariato immobilizzato dalla retorica operaista e populista del governo, sostenuta dai positivi risultati economici degli ultimi anni.

La sorte del proletariato brasiliano, come di qualunque altro proletariato “nazionale”, è sempre strettamente legata a quella del sistema capitalistico mondiale nel suo complesso. Nella misura in cui continuerà il suo tracollo, esso non potrà che scuotere sempre più fortemente gli stessi proletari, spingendoli a unirsi e organizzarsi, a uscire dal loro tragico torpore, a spezzare il cordone dell'illusoria unità popolare e nazionale.

La crisi economica attuale, per quanto già drammatica, coinvolge alcune aree e alcuni stati in particolare, determinando al loro interno i primi segni della “ionizzazione sociale”, un primo rilevante distacco tra gli strati sociali privilegiati e dominanti e il cosiddetto “popolo” nel suo insieme, ancora indistinto, indifferenziato. La vera paura, il vero allarme per quegli strati sociali dominanti, non sono tanto le attuali ondate di protesta sociale, per quanto vigorose e diffuse possano e potranno essere, ma la possibilità che esse possano “contagiare” sempre più le agitazioni proletarie fino al punto in cui queste cercheranno di imboccare decisamente la propria strada, autonoma e organizzata: fuori quindi dal vicolo cieco delle generiche “lotte popolari” con le loro illusioni unitarie, riformiste, gradualiste, democratiche, nazionali, impotenti a uscire dal quadro del regime capitalistico.

Il proletariato mondiale, come sempre, dovrà imparare dalle proprie sconfitte pratiche, dalle proprie cocenti delusioni, per capire che dovrà contare solo su se stesso, sui propri reparti più combattivi e classisti, per capire sempre più che l’unità nazional-popolare è solo lo strumento per tenerlo legato e asservito al carro del grande capitale.

Nello stesso tempo il risveglio del proletariato in classe chiamerà sempre più fortemente in causa la necessità del partito politico, la necessità di dotarsi di un suo cervello, di una sua strategia e tattica. Senza la rinascita di un forte e radicato partito comunista internazionale, il proletariato, per quanto combattivo, non potrà mai venire fuori dalle pratiche e dalle illusioni riformiste e nazional-popolari. Non potrà mai validamente fronteggiare, combattere e vincere quel mostro orrendo che è e diventerà sempre più il regime capitalistico.

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°05 - 2013) 

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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