DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Antimperialismo rivoluzionario borghese

La nostra critica all’antimperialismo borghese non deve essere intesa come una sottovalutazione della sua importanza e funzione come mezzo o strumento utile, a suo tempo, alla formazione di nuove entità statali borghesi contro rapporti di produzione precapitalistici, in contrapposizione agli imperialismi allora vigenti e dominanti. Dopo la rivoluzione russa del 1917, primo e unico esempio di rivoluzione diretta dal proletariato e dal suo partito con compiti democratico-borghesi sul piano economico-sociale (i famosi “due piedi”, quello politico e quello economico, della doppia rivoluzione: instabile il primo e tendente deterministicamente al consolidamento del capitalismo il secondo), le varie entità statali e nazionali che si formeranno successivamente, compresa ormai la Russia nella versione nazionale staliniana, furono dirette o gestite, nelle diverse realtà geopolitiche, dalle stesse borghesie nazionali, anche se con gli inevitabili, forti compromessi con le vecchie classi e lo stesso imperialismo. Il fatto che, di quell’unica rivoluzione proletaria, esse abbiano poi più o meno imitato le forme esteriori, i simboli, ecc., non vuol dire che quella direzione o gestione fosse espressione del proletariato e del suo partito, ma solo che essa, essendo borghese, aveva bisogno, per ricevere l’appoggio anche delle masse proletarie, di presentarsi con le sembianze socialiste o comuniste e di usarne lo stesso linguaggio. D’altra parte, non è stata certo prerogativa esclusiva delle giovani borghesie più o meno rivoluzionarie quella di indossare sembianze proletarie o comuniste per ottenere il consenso nazionale e popolare contro l’imperialismo: abbiamo visto che l’hanno fatto gli stessi imperialismi stramaturi, “fascisti-proletari” o “nazionalsocialisti”, contro altri imperialismi, le cosiddette “plutocrazie democratiche”, prima e durante gli stessi conflitti inter-imperialisti.

Non si tratta, dicevamo, di negare valore e significato rivoluzionario borghese (quando non siano pure espressioni romantiche senza alcuna forza storica) a quei movimenti che si sono svolti, con modalità diverse, contro l’imperialismo europeo e USA, ma di negare decisamente che essi abbiano mai avuto altro valore e significato economico e sociale se non proprio quello borghese, diversamente da quanto ha sostenuto e ancora sostiene gran parte degli attuali gruppi antimperialisti. Lo stesso trotskismo degli epigoni, anche su quest’aspetto, ha riproposto e ripropone, facendoli propri, gli stessi errori teorici del pur grande rivoluzionario: questi infatti aveva teorizzato che dopo la rivoluzione d’Ottobre e in epoca imperialista “decadente” non poteva presentarsi più un processo rivoluzionario borghese che, similmente a quello russo, non fosse esso pure a “direzione proletaria” (1). Gli epigoni ne hanno tratto così la meccanica conclusione che, “dunque”, tutte le nuove formazioni statali venute fuori in vario modo da allora non potevano che assumere un carattere e significato rivoluzionario proletario, in senso socialista, in barba a ogni sana analisi dialettica della realtà e dei suoi processi, così come si sono poi svolti. La fonte di ogni infezione in senso nazionale e popolare fu certo lo stalinismo, espressione del cambiamento, in Russia, della direzione proletaria e internazionalista con quella borghese e nazionale, costretto dalle grandi determinazioni storiche – e non certo dai capricci del “grande uomo” – a scambiare e poi camuffare quella direzione con l’altra (2). Tutte le successive rivoluzioni borghesi, da una parte, sono state più o meno influenzate dalla stessa politica estera russa, divenuta nel frattempo una potenza imperialista, nella maniera in cui l’abbiamo ricordato; dall’altra, e come conseguenza, ne hanno dovuto imitare anche le forme esteriori “proletarie” o “socialiste” .

Quei camuffamenti, come pure le false teorie, se hanno determinato una grave deformazione della bussola marxista, che sempre ci sforziamo di rimettere a posto, non tolgono comunque, come dicevamo, significato rivoluzionario borghese ai movimenti che si sono susseguiti dopo il secondo conflitto mondiale e che hanno portato alla formazione di nuove entità statali fino alla metà degli anni settanta, sradicando infine, più o meno definitivamente, le forme di produzione precapitalistiche. Che siano stati, oltre quelli già ricordati, movimenti nazionali e rivoluzionari che, come ad es. quello vietnamita, si sono dovuti dispiegare nella forma della difesa armata ad oltranza, nell’arco di tre decenni, contro gli imperialismi francese prima o statunitense dopo; o movimenti rivoluzionari come la stessa rivoluzione cinese, nei quali l’elemento rivoluzionario contadino fu gestito (diversamente dalla Russia proletaria dei primi anni) dalla borghesia nazionalista e indipendentista, nonché autarchica, rappresentata da Mao, fino al prorompere, alla fine degli anni ’70, della forma industriale più aperta al mercato mondiale, “affidata” alle mani ”occidentali” di Deng Tsiao Ping (processo costellato di tragedie sociali e politiche non meno sanguinose di quelle russe o di quelle armate contro l’imperialismo), questi movimenti nazionali borghesi antimperialisti hanno avuto, comunque siano avvenuti, un loro valore storico rivoluzionario perché, nello stesso tempo, hanno potuto gettare sull’arena del mercato capitalistico quelle nuove formazioni sociali che man mano “prendevano corpo” al di sotto della direzione e protezione delle nuove entità statali.

Sviluppatosi questo processo per ancora altri tre decenni, possiamo sostenere che non esistono più, nella situazione attuale, antimperialismi borghesi che, per quanto travagliati e camuffati, possano assumere ancora quel significato rivoluzionario.

 

Caratteristiche generali dell’antimperialismo borghese latinoamericano

In America Latina, il vero movimento rivoluzionario borghese antimperialista, come ricordavamo nel numero precedente, fu quello dei primi decenni dell’800. Ma se esso condusse, alla fine, alla formazione di entità statali più o meno definitive, pur notevolmente rimaneggiate rispetto ai grandi iniziali progetti unitari bolivariani, non così avvenne riguardo alla questione agraria e alla terra, che rimase invece, quasi ovunque, ancora strettamente nelle mani dei latifondisti, in combutta coi vari imperialismi e sotto stretta sorveglianza delle varie caste militari, tenute in piedi proprio a tale scopo. E’ così che l’antimperialismo borghese latinoamericano ha continuato a essere, da allora, quasi sempre strettamente legato alla questione della terra: dalla rivoluzione messicana a Cuba, al Nicaragua, alla Colombia, alla Bolivia, non vi è stata lotta antimperialista che non sia stata, nello stesso tempo, una lotta per la “spartizione della terra” e viceversa. La mancata o stentata spartizione delle terre, lo stentato o mancato avvio di un’agricoltura moderna e autosufficiente, i negativi riflessi sullo sviluppo di una vera industria urbana, sono state le cause vere e profonde dell’arretratezza dell’America Latina.

Se guardiamo ai movimenti antimperialisti che si sono sviluppati storicamente, essi hanno dunque assunto, in quel continente, ancora il carattere di movimenti radicali borghesi, laddove, all’ordine del giorno, era, soprattutto e con riguardo alla terra, l’avvio e sviluppo di un’agricoltura moderna e, sulla sua base, di una moderna industria. Anche sotto questo aspetto (quello cioè di movimenti radicali contadini, che hanno contrassegnato con le loro lotte armate, guerriglie, insurrezioni, e ancora in parte contrassegnano la storia economica e sociale dell’America Latina), in quanto comunisti non possiamo che prendere atto della loro rilevanza storica per lo sviluppo del capitalismo in quell’area. Si è trattato di lotte che sono state (e ancor oggi sono) combattute da un movimento contadino (vedi ad es. ancor oggi le FARC colombiane) con la forza della disperazione, in condizioni di estrema debolezza di fronte alla coalizione latifondista e imperialista e ai suoi squadroni armati pronti a tutto per difenderne i privilegi (3).

Se fosse stato in piedi un movimento comunista internazionale, esso avrebbe “preso in carico” anche la direzione del movimento radicale contadino, così come fece, in ben altre condizioni, all’indomani dell’Ottobre, il bolscevismo in Russia, con la nazionalizzazione della terra e la sua spartizione: anche se, diversamente che in Russia, non si sarebbe trattato qui di “rivoluzione doppia”, essendo meno gravi, seppure sempre pesanti, le condizioni di arretratezza riguardo alla terra. Una direzione proletaria dell’antimperialismo avrebbe potuto sottrarre il movimento contadino radicale alle sue direzioni borghesi e piccoloborghesi, ai loro compromessi, alle loro incapacità e impossibilità di portare lo stesso movimento radicale contadino fino in fondo.

Questa eventualità (una direzione proletaria dell’antimperialismo) è stata ed è tutt’ora negata dalla storia, per cui abbiamo dovuto assistere inermi ai processi, così come si sono svolti, con le loro direzioni borghesi e piccoloborghesi e coi rapporti di forza tutti favorevoli ai grandi imperialismi.

Tuttavia, occorre sottolineare che ciò a cui abbiamo assistito in America Latina, sopratutto dall’immediato secondo dopoguerra, non è solo un antimperialismo borghese legato al latifondo, con le sue lotte armate e insurrezioni contadine: nella misura in cui, nelle varie entità nazionali, si è potuto sviluppare un giovane capitalismo industriale, tale antimperialismo si è nutrito e si nutre anche e soprattutto della sua difesa e del suo sviluppo, scontrandosi spesso con le frazioni borghesi e i settori latifondisti che sono stati o sono ancora succubi dell’imperialismo o direttamente legati a esso. Si possono ricordare vari esempi storici: il Movimento nazionalista rivoluzionario boliviano (MNR), formazione militare nata all’inizio degli anni ’40 e trasformatasi da parafascista a progressista, che diede inizialmente un non trascurabile apporto all’insurrezione boliviana del 1952 (4); il peronismo argentino dell’immediato dopoguerra, coi suoi propositi fortemente nazionalistici, le sue riforme sociali, gli interventi statali e relative “pianificazioni” (5); i propositi di nazionalizzazione del governo cileno, del “fronte popolare” di Allende, contro gli interessi dell’imperialismo USA, che portarono infine al rovesciamento del governo democratico, attraverso il sanguinoso colpo di stato militare del 1973 (6). In buona sostanza, l’imperialismo USA, non solo nei suoi aspetti economici, ma anche in quelli militari, ha sempre fatto sentire la sua forte e continua pressione e “protezione” sulle varie entità nazionali del “cortile di casa”, in tutte le fasi e in tutti i settori del loro sviluppo. Nella situazione attuale, esso fa ancora sentire la sua ferocia soprattutto nelle aree arretrate, come quella caraibica o colombiana, e sempre sulla questione della terra e del latifondo; ma la fa sentire anche in quelle aree dov’è in corso uno sviluppo capitalistico ormai abbastanza completo, come pure in quelle in cui lo sviluppo capitalistico si è spinto ancora più avanti, fino a giungere alla sua fase imperialista. Insomma, l’imperialismo USA non molla, e non molla dovunque: non può ritirare i suoi artigli, com’è nella natura di ogni gigante imperialista sempre in cerca di profitti o di rendite e che, allo scopo, si adatta a tutte le situazioni, a tutte le mutevoli realtà.

L’aggressività imperialista USA non deve però fare dimenticare che, in ogni caso, in America Latina, vista nella sua globalità, non si tratta solo o tanto di antimperialismo radicale “contadino”, legato cioè alla divisione o ripartizione latifondista, ma di un antimperialismo ormai legato sopratutto alla difesa e sviluppo del capitalismo nazionale da parte delle frazioni borghesi interne più decise e nazionaliste. Obbiettivo, quello dello sviluppo capitalistico, tra l’altro già raggiunto pienamente in paesi come il Brasile o l’Argentina o lo stesso Cile, che hanno ormai pensato di acquistare, con la loro indipendenza economica, anche una buona dose di “sicurezza politica”, dotandosi di sofisticati armamenti nucleari (infatti, parlano sempre meno di antimperialismo nei confronti degli USA, preparandosi essi, piuttosto, a svolgere nella regione quel ruolo imperialista), mentre in altri stati è ancora in corso, sotto questo aspetto, lo scontro aperto con il gendarme americano e altri ancora ne subiscono fortemente il dominio.

Si è trattato dunque, in questi ultimi casi, di un antimperialismo non più radicale borghese agrario,

ma sempre più borghese moderato e industriale, anche se, a volte, dai forti accenti nazionalistici, coi suoi inevitabili travestimenti ideologici populisti, militareschi, progressisti e “socialisti”, a seconda dei casi, allo scopo di ottenere consensi dalle masse operaie e popolari.

 

L’antimperialismo cubano e il “terzomondismo”

La rivolta armata capeggiata da Castro, che provoca a fine 1958 la fuga del dittatore Batista, non si poneva inizialmente alcuna ambizione “antimperialista”, sebbene il gendarme americano avesse investito capitali nel latifondo e nella canna da zucchero già dal 1850 e invaso militarmente l’isola caraibica dopo la sua indipendenza dalla Spagna (1898), condizionandone fortemente la stessa “Costituzione”. I propositi erano più modesti (visti, d’altra parte, i rapporti di forza così diversi): cacciare il regime militare di Batista, affrontare il problema della terra, dei latifondi, per evitare le continue gravissime crisi e i ricorrenti movimenti di lotta contadini dovuti alla monocoltura della canna da zucchero, al suo forte legame e dipendenza dall’andamento mondiale dei prezzi, alla concorrenza della barbabietola, ecc. L’“antimperialismo anti-americano” nacque dopo e solo come ritorsione e radicalizzazione contro le misure prese dagli stessi USA (mancata raffinazione del petrolio, mancato acquisto della canna da zucchero, ecc.) per difendere i propri interessi nell’isola: molti rami industriali, filiali americane, raffinerie, società elettriche, telefoniche, ecc., comunque pochissimo sviluppati, furono man mano “nazionalizzati” (si arrivò all’80% dei rami industriali). Le stesse misure contro i latifondisti furono modeste, pochi gli espropri e perfino indennizzati (molti invece, in seguito, gli abbandoni volontari dei latifondisti dall’isola). Forte rimase in agricoltura il settore privato e poco rilevanti furono le formazioni di cooperative e aziende agricole statali che ricalcavano i kolchoz e i sovchoz russi, anche nella loro scarsa produttività. La rottura con gli USA fu inevitabile dopo l’episodio della tentata invasione militare del 1961 alla “Baia dei Porci”. Fu allora che, dati gli stretti legami intessuti nel frattempo con l’URSS e suoi satelliti, l’1 maggio 1961 la “rivoluzione cubana”, divenuta suo malgrado “antimperialista”, diventò perfino “socialista”. Le misure di nazionalizzazione in campo industriale o di cooperazione in quello agricolo erano più che sufficienti a fare assumere alla “rivoluzione cubana”, “amica” ormai dell’URSS, il carattere di “socialista”. E poco importa se lo stesso Castro, insieme agli altri promotori del movimento armato, non avessero avuto alcuna formazione teorica marxista (7).

Il successo di quella “rivoluzione”, dagli effetti riformisti radicali in senso borghese e dalla forte partecipazione popolare (contadina e proletaria), come più avanti il mito che si costruì attorno alla guerra vietnamita e al maoismo, produssero, nel loro insieme, l’altro mito, ancora oggi duro a morire: quello del “terzomondismo”, della lotta dei paesi arretrati contro gli stati imperialisti, che doveva avere il suo punto di forza soprattutto nelle campagne. Si trattava di mettere in primo piano la lotta tra stati, ma questa volta tra stati “poveri” e “socialisti” (coi loro popoli) e stati imperialisti. Ciò che si “rimproverava” allora all’URSS o alla Cina non era infatti il tradimento consumato in tante occasioni sul piano pratico, sul fronte classista e proprio in senso popolare o “frontista”, ma il fatto che i due stati, comunque “socialisti” (e quindi… antimperialisti), stavano ad occuparsi, in omaggio alla realpolitik o alla “coesistenza pacifica”, degli affari loro (ad es., durante la guerra vietnamita) e non intervenissero contro i bombardamenti americani. Nelle teorizzazione del “Che” o di un Régis Debray, non si trattava infatti di promuovere, nei fronti interni ad ogni stato e legandosi alle lotte proletarie, una lotta di classe che si trascinasse dietro gli strati sociali più oppressi, ma di muovere guerra all’imperialismo (USA ed europeo) da parte degli stati arretrati e “socialisti”. L’unica azione sul “fronte interno” doveva e poteva essere quella “guerrigliera”: non nelle città, dunque, ma nelle campagne, non proletaria ma ancora contadina, contro gli “avamposti” dell’imperialismo. Insomma, non la guerra di classe che scaturisce dalle contraddizioni del capitalismo, ma quella guerra tra stati, spacciata allora (come oggi) come “internazionalista” (autentica parodia delle guerre rivoluzionarie tra veri stati proletari e stati borghesi, come quella condotta dal potere sovietico subito dopo l’Ottobre) e vista più come atto di volontà, eroico e morale, contro i crimini dell’imperialismo.

Così, con la teoria terzomondista e guerrigliera, l’impotenza generale del movimento radicale contadino a direzione borghese o piccoloborghese, manifestatasi a più riprese in America Latina (se vogliamo escludere quello stesso movimento cubano e, oltre continente, quello cinese) vien fatta uscire dai suoi ambiti locali nazionali per trasferirla in una dimensione e in una “teoria” internazionale, coi suoi propositi di “riscatto e conquiste”: stati “socialisti” e stati poveri e arretrati, alleati, dunque, in una sorta di immaginario, idealistico fronte internazionale per fronteggiare l’imperialismo occidentale. Abbiamo visto come gli attori finti di quell’antimperialismo terzomondista abbiano poi recitato ben altri ruoli sulla scena economico-sociale mondiale: l’URSS, dissolvendosi nelle sue pretese di gareggiare e rivaleggiare col gigante americano, ha finito anche di recitare il ruolo antimperialista in nome del cosiddetto”socialismo reale”; la Cina, “antimperialista e antirevisionista” in nome dello stalinismo, ha infine realizzato il suo sogno di grande potenza regionale, in barba a tutti i suoi seguaci sognatori piccoloborghesi. Allora come sempre, si cercava la via breve, alla moda, “praticabile”. Il marxismo indica dal 1848 la via della lotta di classe internazionale, una via che appare certamente all’ideologia dominante e popolare come “utopistica” perché preclude per lunghi lassi di tempo ogni possibile “praticabilità”; tuttavia, essa, in certi svolti della storia, diviene inevitabile e appare a tutte le classi e a tutti gli strati sociali in tutta la sua lampante quanto drammatica “concretezza”, chiamando fortemente in causa non solo la buona organizzazione delle lotte proletarie, ma il duro lavoro di direzione – teorico, tattico e organizzativo – dei comunisti.

Il mito dell’antimperialismo cubano, con relativa teoria terzomondista, sembra invece reggere ancora tra gli antimperialisti piccoloborghesi, non solo in America Latina, ma anche fuori del continente, sebbene perda pezzi dopo le recenti proclamate misure (anche qui) di “liberalizzazione”, viste da molti, ancora una volta, come “degenerazione dello stato operaio” o “restaurazione del capitalismo”, più o meno sulla traccia russo-cinese. Un piccolo paese sfida, nientemeno, l’imperialismo numero uno alle porte di casa sua e mantiene la propria indipendenza politica a costo di pagarla, per via dell’embargo continuo, con la propria arretratezza e indigenza sul piano economico: quale migliore occasione per il romanticismo piccoloborghese per riempirsi e riempire di sogni e illusioni piccoloborghesi anche i proletari?! Se volessimo fare un’analogia, comunque molto lontana, con la Cina, potremmo dire che anche il gigante dell’ex “Impero celeste”, come lo stato della piccola isola caraibica, mantenne almeno fino alla metà degli anni ’70 una gelosa indipendenza politica, aprendosi poco ai flussi mercantili e di capitali mondiali. Il “grande timoniere” cinese badò per un buon numero di anni, attraverso scontri tra “linee opposte” e milioni di morti, alla sua “accumulazione originaria”, allo sviluppo del capitalismo interno, seppure stentato, purché fosse salva l’indipendenza politica. Negli anni seguenti, quando tale indipendenza era ormai messa economicamente al sicuro, la Cina si apri invece fortemente al mercato mondiale, avviando quello sviluppo impetuoso che ancora, almeno in parte, continua. Anche nel caso cinese, ricordiamo che la direzione del movimento contadino, dopo i massacri proletari di Canton e Shangai nel 1927 (8), non fu classista e proletaria come nella Russia dei primi anni dopo l’Ottobre, ma borghese nazionale, rappresentata dallo stesso Mao e dal suo partito, divenuto, nonostante il nome di “comunista” che mantiene tutt’ora, un partito “popolare”, dopo la fusione con il Kuomintang, ordinata nel 1927 dallo stalinismo. Pure nel caso cubano e del suo “timoniere”, vi fu una direzione borghese del movimento contadino e proletario: qui però essa, almeno inizialmente, fu chiara e aperta – non si trattò di “abbandonare” posizioni classiste e internazionaliste a favore di  quelle popolari e nazionaliste, come nel caso cinese, ma di procedere tout court a misure popolari nazionaliste borghesi antimperialiste, anche se, dopo, tali misure saranno mascherate anch’esse da “socialiste”. La linea classista internazionalista (come pure, ovviamente, la teoria marxista) non era mai stata presente, infatti, nel castrismo. Tuttavia, il mito castrista, meglio poi rappresentato dal “Che”, campeggia ancora oggi perché continua a esprimere, nei sogni piccoloborghesi, a differenza ad esempio della realpolitik cinese e alle sue evoluzioni da grande potenza, la “sfida continua” delle lotte e mobilitazioni popolari dei piccoli e deboli stati contro l’imperialismo USA in particolare.

 

L’antimperialismo di Chavez

Uno sguardo va poi rivolto all’antimperialismo del venezolano Chavez, che sembra raccogliere e riunire, nella sua demagogia, sia l’eredità del mito cubano ormai in declino, con relativo antimperialismo radicale contadino, sia i propositi antimperialisti già pienamente borghesi, nelle loro versioni populiste, progressiste, stataliste, ecc., catturando le simpatie di molti antimperialisti sparsi anche fuori dal continente, che sembrano galvanizzati dall’ostentata “lotta contro gli USA”, visti come il “Male assoluto” (sottacendo l’influenza di altri imperialismi emergenti nella stessa area, come il Brasile, o, in altre aree, come la Cina) – una lotta antimperialista, la sua, solo anti-USA, come mezzo e strumento ideologico volto a mantenere e rafforzare l’unità nazionale e popolare in funzione dello sviluppo ulteriore del capitalismo nazionale, presentato all’insegna, ovviamente, del progresso e del “socialismo”. Nei suoi discorsi, l’imperialismo USA è indicato anche come una sorta di baluardo reazionario feudale, che impedisce lo sviluppo altrimenti normale, giusto o spedito, di gran parte del capitalismo latinoamericano e mondiale. Quanti di coloro del cosiddetto “popolo di sinistra”, specie di quello “più spinto”, non sottoscrivono ancora oggi tali discorsi? Anche in Italia e in altri paesi ultraimperialisti, il nemico numero uno da combattere non è mai stato, per tali antimperialisti nazionalisti, il capitalismo di casa propria, questo “bene comune” (specie se venuto fuori dalla Resistenza!) da preservare e sviluppare in tempi di prosperità e soprattutto da salvare in tempi di crisi come l’attuale, ma l’imperialismo “più forte”: sempre quello USA dal secondo dopoguerra, oppure quello tedesco oggi. Lotta di classe? Certo (a parole): prima però occorre stabilire un po’ di “giustizia” e di… “equilibrio internazionale”!

Non solo in Venezuela, dunque, ma in tutta l’America Latina e in tutto il mondo, secondo Chavez, esistono insomma due nemici principali da combattere: l’imperialismo USA e la sua oligarchia finanziaria. La lotta tutta retorica e ideologica va combattuta solo contro di essi: tutto il resto viene strenuamente difeso. L’imperialismo non sarebbe il capitalismo stesso giunto a una certa fase del proprio sviluppo, la tendenza di ogni capitalismo, anche “straccione” (ricordiamo ciò che diceva Lenin dell’imperialismo italiano e della sua impresa libica del 1911), a un certo stadio del proprio sviluppo, ma sarebbe, sulla linea di quanto sosteneva un tempo Kautsky strigliato da Lenin, una sorta di “scelta politica” governativa facilmente ritirabile in ogni stato a seconda della buona volontà e del buon cuore del governo o dell’“uomo speciale” di turno.

E’ così che, per combattere il “Male”, sarebbe possibile ad esempio “rifondare l’ONU”, abolendo il diritto di veto, allargandolo ai nuovi paesi sviluppati, ai paesi sottosviluppati del Terzo mondo come membri permanenti, con “l’applicazione di metodi efficaci per affrontare e risolvere i conflitti nel mondo, metodi trasparenti di dibattito e decisione” (così recita il suo intervento alla LXI assemblea generale dell’ONU, settembre 2006). Ma Chavez, oltre a porsi come l’alfiere della giustizia internazionale da realizzare combattendo gli USA, si mostra pure come l’araldo della libertà e dell’uguaglianza soprattutto per l’America Latina, caldeggiando una sorta di unificazione “terzomondista” di tutta l’area, sempre all’insegna della giustizia e del “socialismo”. Sembra gli stia stretta l’alleanza tra gli stati dell’ALBA: e così si spinge fino alla riesumazione dei propositi unitari regionali che furono di Bolivar, di quelli terzomondisti antimperialisti anche oltre il continente, di quelli guerriglieri, mescolati, in un bel crogiolo, a quelli pacifisti antimperialisti. La favorevole attuale congiuntura economica latinoamericana ha intanto fatto segnare un altro punto a vantaggio di Chavez e dell’antimperialismo regionale anti USA: il 31/7 u. s., il Venezuela entra pure nel MERCOSUR, il Mercato comune sudamericano, insieme ai paesi membri Brasile, Argentina, Uruguay e al posto del filoamericano Paraguay, tra le proteste di quest’ultimo e ovviamente degli USA – un mercato che, a detta della presidente del Brasile, ingloberà adesso il 70% della popolazione latino americana e l’83% del PIL del Sud America. Comunque, mentre non cessano gli affari economici che, nel frattempo, vengono sempre portati avanti a braccetto con il cosiddetto “Male” (gran parte della vendita del petrolio venezuelano va agli USA), se ne allacciano sempre di nuovi, evidentemente più “graditi”, più “progressisti”, con la Cina, l’Iran, ecc., mentre regimi apertamente sanguinari e antiproletari, come quello già di Gheddafi o l’attuale siriano, sarebbero certamente “preferibili” e “da difendere” – imperialisti, questi, più buoni, meno “maligni”, più… antimperialisti?

Noi ci auguriamo di non dover assistere anche ai loro “sviluppi” ed evoluzioni, ai loro maggiori crimini futuri, in rapporto magari alla decadenza dell’imperialismo oggi più forte, ma che essi, tutti insieme, imperialismi vecchi e nuovi, maggiori e minori, possano venire travolti dalla rivoluzione proletaria mondiale. La strombazzata lotta contro l’imperialismo USA, all’insegna di un nuovo egualitarismo mondiale, del progresso o del “socialismo”, più o meno in parte già realizzato attraverso le nazionalizzazioni, con i suoi fumosi propositi di grandezza regionale, non potrà avere, come sempre, che l’effetto di narcotizzare e di tenere ancora schiacciato e sotto controllo il proletariato. Se quest’ultimo si levasse in piedi in tutta l’area, non abbiamo dubbi che sarebbe immediatamente e ferocemente combattuto da questi antimperialisti borghesi: le “coalizioni” tra gli stati regionali sarebbero certo facilmente decise e strette, ma solo per stroncare decisamente la lotta di classe, avvalendosi senza alcuna remora, se ciò non bastasse, anche della strapotenza militare dell’attuale “odiato” gendarme americano.

 

Antimperialismo e trotskismo

Il trotskismo degli epigoni in America Latina non ha fatto che portare fino alle estreme conseguenze gli errori teorici di Trotski sulla questione del fronte unico politico. Nel 1921, poteva ancora avere una qualche “giustificazione” la tattica, che fu anche di Lenin, di “utilizzare” accordi e alleanze provvisorie con la socialdemocrazia allo scopo di poterla poi smascherare dinanzi ai proletari. Lo stesso Lenin e i bolscevichi, infatti, non conoscevano ancora molto bene il grado di corruzione e putrefazione della socialdemocrazia, come pure del parlamentarismo e della democrazia in genere, nei paesi capitalistici occidentali, mentre erano invece riusciti a “utilizzare”, durante il governo Kerenskj, l’alleanza con menscevichi e socialisti rivoluzionari per bloccare il tentativo controrivoluzionario del generale Kornilov, qualche mese prima dell’Ottobre. Quella tattica, quell’alleanza, ancora possibili per le condizioni di una “rivoluzione doppia”, democratico-borghese, di fronte a una borghesia ancora inconsistente (alleanza che comunque fu rotta subito dopo), era invece assolutamente improponibile, come non si stancò di ripetere continuamente la Sinistra italiana, nelle condizioni in cui la borghesia era da tempo al potere e la socialdemocrazia, con la sua forte influenza sulla classe operaia e le sue organizzazioni, ne era solo il migliore  puntello: come aveva dimostrato, tra l’altro, il suo atteggiamento in difesa della patria borghese durante la guerra. Era già l’esperienza dei fatti che parlava, confermata poi dalla feroce azione repressiva svolta dalla stessa socialdemocrazia in Germania, in Italia e altrove, nei confronti dei moti rivoluzionari proletari degli anni successivi.

La tattica del fronte unico politico, di “prendere in parola” i buoni propositi della socialdemocrazia (d’altra parte, ben raramente espressi) nei confronti della lotta dei proletari, per poi “smascherarli” dinanzi alle successive azioni incoerenti, si è rivelata del tutto micidiale per i proletari. Gli stessi proletari in lotta, specie nelle situazioni rivoluzionarie, hanno sempre sentito, in quella “manovra”, nei paesi a capitalismo sviluppato e nell’ambiente ultracorrotto della democrazia, non un segno di forza, di “intelligente e astuto” modo di smascherare la socialdemocrazia da parte dei comunisti, ma piuttosto un segno di debolezza, di “richiesta di aiuto”, quando non proprio della ricerca di una copertura sotto le ali legali e istituzionali della socialdemocrazia (9). La tattica dei fronti unici, più tardi estesa alla borghesia liberale o progressista nei fronti popolari, veniva giustificata dalla necessità di combattere il nemico peggiore e principale: il franchismo, il fascismo, il nazismo, le dittature borghesi in genere. Ma il punto era che quella lotta, a fianco di socialdemocratici o democratici borghesi, si rivelava non solo perdente, e micidiale per i proletari, ma, cosa ben peggiore, andava snaturando la funzione rivoluzionaria del partito e il suo buon rapporto con la classe per le future situazioni (10). L’unico modo che permettesse di conservare integra la funzione rivoluzionaria del partito era quello, portato avanti dalla Sinistra italiana, di combattere il pericolo o l’imminenza delle dittature borghesi, facendo affidamento solo su un fronte unico dei proletari, da formare e sviluppare sul piano sindacale, dal basso, chiamando alla lotta anche gli operai che in campo sindacale seguivano altre organizzazioni politiche. Contare insomma solo sui proletari, sulle loro lotte, sulla capacità di svilupparle man mano contro tutti i loro nemici politici (fascisti e democratici) e nella direzione della presa del potere.

Negli anni successivi, durante la Guerra civile spagnola, durante la Resistenza, le cose andarono ben diversamente: dinanzi al franchismo e al fascismo, i “fronti popolari” si consumarono uno dopo l’altro, e furono “gli altri” a vincere, i franchisti o i democratici-frontisti, mentre i vari gruppi trotskisti o furono emarginati oppure furono repressi ferocemente. Anziché utilizzare e smascherare gli altri, furono essi a essere utilizzati e poi buttati via dalle forze politiche borghesi e opportuniste dominanti. Negli anni del dopoguerra, durante i moti anticoloniali, la tattica frontista popolare non solo non venne rigettata dagli stessi trotskisti (nonostante l’avversione di Trotski), ma fu riprodotta mettendo il proletariato al servizio completo del blocco con le varie borghesie nazionali e le loro realizzazioni stataliste valutate come “socialiste”, con il risultato di porsi come l’ala sinistra della borghesia nazionale. La lotta contro l’imperialismo, che pure, come ricordavamo, in quella fase storica assumeva ancora una funzione rivoluzionaria, costituì un’altra occasione per abbandonare ogni parvenza d’indipendenza di classe. Alla conclusione dei moti anticoloniali e di fronte a borghesie non più rivoluzionarie, quella tattica continuò poi a essere portata avanti e a svilupparsi in modo anche peggiore di prima: di fronte a tentativi dittatoriali o ad attacchi imperialisti, ogni residua azione indipendente di classe (buona evidentemente solo per periodi “normali e pacifici” o “democratici”) spariva improvvisamente e qualsiasi alleanza (fusione, entrismo e quant’altro) era buona e necessaria per “allontanare” il comune pericolo del “nemico peggiore”. Si trattava come sempre di contare sui “falsi amici” o sui “nemici migliori”, riservandosi caso mai di “combatterli” in un secondo tempo: come se quella tattica, a braccetto coi nemici “temporanei”, potesse servire realmente a sconfiggere il pericolo “peggiore”, o come se questo pericolo, scongiurato al momento, non potesse presentarsi più avanti, in altre occasioni. Ma la questione fondamentale era sempre: tale tattica (di contare sui falsi amici, sulla loro “alleanza”, di fare affidamento unicamente sulle forze proletarie, sul loro sviluppo e organizzazione) dove poteva portare se non nel vicolo cieco di ogni impotenza teorica e politica della cosiddetta “direzione rivoluzionaria”?

In America Latina, la regione dove l’alternarsi continuo di regimi democratici e dittatoriali, sotto la pressione di feroci azioni imperialiste, è stato un fattore ricorrente, normale, specie nel secondo dopoguerra, la riproposizione continua di quelle azioni frontiste, popolari o nazionali, ha condotto gli epigoni di Trotski alle più rocambolesche azioni. Nemmeno la tragica esperienza cilena dell’Unità Popolare del 1973 servirà a gruppi politici come il MIR, trotskista-guerrigliero, a trarre la dovuta lezione: nonostante la sconfessione a parole della precedente “ricerca incessante di un terreno d’intesa con la borghesia” e la proclamazione dell’“organizzazione rivoluzionaria del proletariato”, il MIR, subito dopo il colpo di stato, aderisce infatti ad un fronte popolare con socialdemocratici, stalinisti e cattolici “di sinistra” (11). Manovre ed entrismi di ogni genere, dunque, all’interno di “progetti rivoluzionari” cervellotici, di “governi di transizione” tra quello borghese e quello proletario, di ”rivoluzioni a tappe” dentro a partiti borghesi di sinistra o populisti: insieme al peronismo argentino contro la dittatura del generale Videla, e poi a fianco, di fatto, della stessa giunta militare dinanzi all’attacco inglese alle isole Malvine! Insomma, dittature militari e soprattutto azioni imperialistiche USA ed europee sono state e sono tuttora occasioni per mettere da parte quel che resta di ogni parvenza di azione indipendente di classe (solo proclamata a parole) e per schierarsi in realtà sul fronte dell’antimperialismo borghese e piccoloborghese, mascherato di “progressismo socialista” e “sinistrismo rivoluzionario”.

 

Tirando un po’ le somme: alcuni insegnamenti

La nostra disamina sulla situazione generale dell’America Latina, anche come preparazione a un lavoro più specifico che andrà fatto sulla realtà economica e sociale e sugli sviluppi della lotta di classe nei singoli stati, può fin d’ora stabilire come la presenza dell’imperialismo USA, del gendarme “vicino di casa”, abbia prodotto in tutta l’area latinoamericana un fortissimo antimperialismo borghese e piccolo borghese, che, ovviamente, non solo ha ampiamente interessato e interessa la frazione borghese di “sinistra” (quella più riformista, progressista o populista- statalista, con la sua atavica “fame di democrazia”, prodotta e alimentata anche dai ricorrenti golpe militari), ma ha coinvolto notevolmente anche la sinistra cosiddetta “rivoluzionaria”. In altre parole, le lunghe, continue e feroci azioni imperialiste americane hanno sempre reso e sembrano rendere difficile, ancor oggi, una selezione delle forze politiche all’interno della stessa “sinistra rivoluzionaria” in senso veramente (e non a parole) classista, cioè antinazionale e antipopolare. Non solo negli stati latinoamericani, dove ancora l’azione del gendarme americano si esercita fortemente, ma anche in quelli più avanzati sul piano capitalistico e persino imperialista, la borghesia “di sinistra” ha sempre facile gioco nel deviare il malcontento delle masse proletarie e a maggior ragione quelle piccoloborghesi dal fronte interno classista verso il fronte esterno nazionalista antimperialista, della lotta soprattutto contro gli USA. In sostanza, la lotta antimperialista, pur avendo le sue giustificazioni storiche nelle manifestazioni feroci soprattutto contro le piccole e deboli nazioni, è stata e continuerà a essere sempre più un paravento sotto il quale la borghesia nazionale latinoamericana potrà facilmente invocare e ottenere l’unità nazionale o popolare. La stessa “sinistra rivoluzionaria”, di estrazione trotskista, rappresentata un po’ in quasi tutti gli stati dell’America Latina, non solo in questo tiene bordone alla borghesia di sinistra governativa, ma sembra che, proprio nel campo dell’antimperialismo nazionale, si sia sempre distinta e si distingua ancora da essa per atteggiamenti ancora più risoluti, scambiati o fatti passare, ovviamente, come “rivoluzionari classisti” o “internazionalisti”, mentre non sono che rimasticature delle idealistiche quanto sterili teorie e atteggiamenti “terzomondisti” degli anni ’60. Un po’ come i nostrani italici antimperialisti che, nonostante la caduta del muro di Berlino e dell’URSS, continuano ancora con le vecchie litanie dei tempi del “bipolarismo” e dei “blocchi contrapposti”, del tipo “La NATO fuori dall’Italia”: come se i proletari, specie in una situazione di estrema debolezza e mancanza di difesa rispetto agli attacchi alle proprie condizioni di vita e lavoro, potessero avere oggi qualche “voce in capitolo” sulle questioni di “politica estera” (come si pretendeva avessero al tempo dell’URSS o della Cina “socialisti”) o come se la presenza delle basi militari NATO costituisse un qualcosa a cui essi potrebbero in qualche modo, oggi, contrapporsi (per ritrovare in tal modo una “smarrita”, vera “unità nazionale e popolare”?), se non in una futura situazione di generale offensiva proletaria contro gli stati borghesi o di guerra rivoluzionaria del futuro stato proletario contro di essi. L’immediatismo, il volontarismo, i “progetti” astratti basati sulla pretesa che i proletari oggi possano “contare qualcosa”, “accampare diritti”, carte costituzionali a loro favore, “fette di potere conquistate con le lotte”, “socialismi o pezzi di stato” in virtù delle statizzazioni, ecc, stanno alla base di tutte le alleanze, fronti e blocchi, stretti con le borghesie nazionali e progressiste, con la pretesa (fatta intendere ai proletari) di potere ottenere altre conquiste e altri diritti, mentre lo scopo o l’effetto reale di tali “conquiste” è sempre quello di sottomettere i proletari (che oggi, purtroppo, nulla sono e nulla hanno) a quella ideologia e prassi nazionalista e populista.

Mentre sul terreno sindacale rivendicativo o delle “conquiste” sul piano delle riforme politiche, l’azione della “sinistra rivoluzionaria” latinoamericana è più che altro protesa all’ottenimento dei suddetti “diritti”, nel campo della “lotta antimperialista USA” essa butta tutto il proprio “rivoluzionarismo” nella riproposizione continua di “fronti popolari” o “nazionali”, ponendosi in questo, anzi, come il settore politico più “avanzato e deciso”: poco importa se tutto questo significa oggi la sottomissione più completa alla borghesia nazionale dei deboli settori proletari influenzati. Per tale riproposizione, essa si richiama alla parola d’ordine dell’autodecisione nazionale e a Lenin, come se questi, nella lotta all’imperialismo e alla sua feroce aggressività contro le piccole e deboli nazioni, avesse mai teorizzato, per il proletariato, l’autodecisione nazionale in una posizione di fatto subordinata o succube rispetto alla propria borghesia nazionale! Un appoggio sul piano pratico e militare (e nella completa indipendenza teorica, politica e organizzativa) certamente era non solo ammesso, ma auspicabile nelle fasi e situazioni storiche in cui occorreva combattere e superare vecchi rapporti di produzione feudali e in cui la borghesia manteneva ancora un certo ruolo rivoluzionario, come abbiamo ricordato all’inizio. Ma tale fase si è oramai abbondantemente conclusa. Si chiede e si indica invece al proletariato l’obiettivo di fare ancora “causa comune” con la borghesia nazionale (e con le classi medie e popolari), quando questa non svolge ormai più da tempo quel ruolo rivoluzionario, ed è invece divenuta o riformista o straccione-imperialista; e lo si chiede solo perché (o quando) essa, la borghesia nazionale, subisce il dominio degli stati imperialisti o di quelli più forti, con il fine di farla uscire rafforzata o di “salvaguardarne” pretese prerogative e “libertà democratiche”, ecc.: come se il compito storico del proletariato e della sua direzione, il partito, fosse, non di scalzarla storicamente, qualunque sia il grado del suo sviluppo e le sue connotazioni politiche, insieme a tutti gli altri stati borghesi e a  tutti gli imperialismi, ma di portare “sempre avanti” quel suo cammino (fino a quando?), dal quale, ovviamente, tale “sinistra rivoluzionaria” attende sempre “altre” riforme, governi amici o transitori da “conquistare”, a… vantaggio dei proletari.

Ma questi non sono limiti del proletariato: sotto quest’aspetto, quello latinoamericano è sempre stato ed è tuttora molto combattivo, rispondendo sempre agli attacchi che a varie riprese e in tutta l’area gli sono stati portati contro (12). Sono invece limiti di quella “sinistra rivoluzionaria”, che riflettono e scontano ancora, aggravandoli fortemente, i limiti delle vecchie posizioni staliniste. Si tratta oggi, sul piano teorico, del compito non facile di superare anche l’impasse di quei limiti che, se sono forti in America Latina e in ogni altra parte, non lo sono meno nella stessa area europea, che pure, sull’onda delle lotte rivoluzionarie degli anni ’20 del secolo scorso, ha espresso in passato il meglio della teoria e dell’azione tattica classista comunista. La corrente cui ci richiamiamo, la Sinistra comunista “italiana”, è quella che, tra crisi, lotte e scissioni (normali in tutte le organizzazioni rivoluzionarie per la loro selezione), è almeno riuscita a raccogliere e trasmettere gli insegnamenti di allora alla presente generazione. Ma, nonostante quel lungo e difficile lavoro, niente è mai definitivo o acquisito per sempre! Si tratta di continuare oggi ancora maggiormente quello sforzo nella particolare situazione che abbiamo davanti e che non ha precedenti nemmeno in quest’ultimo dopoguerra. Riproporre i migliori insegnamenti teorici e tattici delle situazioni rivoluzionarie di allora nel vivo delle lotte che si preparano sarà certo cosa ben diversa, ben più gravosa e difficile, che averlo fatto in condizioni di “pace sociale” (almeno tra gli stati imperialisti) come quella che ha caratterizzato gli ultimi nove decenni.

Sono quegli insegnamenti del passato, da filtrare ovviamente attraverso la situazione presente, che ancora ritardano paurosamente a essere tratti e necessariamente importati in mezzo alla classe, per conquistarvi un consistente settore di avanguardia. Solo se tale compito riuscirà a portarsi avanti e a realizzarsi, il che presuppone lo scontro, non certo asettico ma nel vivo delle lotte, con tutte le svariate deformazioni teoriche e pratiche – solo a questa condizione, le lotte proletarie future e le loro organizzazioni immediate potranno ricollegarsi con la loro buona “direzione rivoluzionaria”, con il partito che ha saputo sviluppare tali compiti. E allora non saranno disperse, deviate o annientate, ma incanalate nel solco della tradizione di lotta autenticamente marxista. Solo a tale condizione la lotta classista non sarà indirizzata, ancora una volta, come quasi sempre è avvenuto, nei vicoli ciechi dei frontismi popolari, nazionali o pseudorivoluzionari, nelle illusioni popolari o populiste, in antimperialismi sterili e fasulli, buoni solo a intralciare, impedire e schiacciare la lotta indipendente del proletariato, che dovrà essere la più decisa e risoluta, verso i suoi obbiettivi storici e finali.

 Ribadiamo dunque la nostra posizione marxista al riguardo, cosi come riproposta al II congresso del Comintern del 1920 (che abbiamo ricordato più estesamente nel numero precedente), ma anche da Lenin e dalla nostra corrente: l’unica, vera e definitiva lotta contro tutti gli imperialismi, contro il capitalismo mondiale, non può essere mai quella borghese o piccoloborghese, comunque essa si ammanti, da progressista o socialista; non potrà essere mai una lotta condotta all’insegna del “popolo”, delle alleanze o dei fronti nazionali, ma quella proletaria e classista che, nel corso del suo sviluppo e della sua organizzazione, “prenda in carico” e utilizzi anche la spinta e la carica sociale delle espressioni radicali contadine (che ancora non si è esaurita, nonostante le numerose sconfitte e i ripetuti bagni di sangue); una lotta indipendente di classe che, nel corso di un processo rivoluzionario epocale, non certo breve né facile, dovrà vedere mobilitati soprattutto i proletari dei grandi centri imperialisti, con strategia politica e di partito internazionale, perché internazionale sarà la lotta che la stessa borghesia mondiale muoverà ferocemente, quando i primi seri incendi proletari divamperanno in qualsiasi angolo della terra – di cui oggi vediamo forse le prime fiammate.

 

 

Note

(1) “La teoria della rivoluzione permanente… dimostrava che nella nostra epoca l’assolvimento dei compiti democratici nei paesi borghesi arretrati porta questi paesi direttamente alla dittatura del proletariato e che questa dittatura mette all’ordine del giorno i compiti socialisti” (L. Trotski, La rivoluzione permanente, Einaudi 1967, pag. 60-61).

(2) Cfr. il nostro recente opuscolo Lo stalinismo: non patologia del movimento operaio, ma aperta controrivoluzione borghese, Edizioni il programma comunista, Milano 2012.

(3) La Colombia, tra l’altro, per la sua posizione strategica tra l’America del sud e gli stati caraibici, è ancor oggi la zona più militarizzata di tutta l’America Latina.

(4) Da ricordare, tra l’altro, l’insurrezione e il governo dei proletari e contadini boliviani del 1952, la formazione di milizie operaie armate che terranno in scacco latifondisti e imperialisti fino al colpo di stato del 1964 (cfr. “Bolivia, specchio fedele dell’America latina”, Il programma comunista, n.20/1968 e nn.1-4/1969).

(5) “Peronismo” ritornato in auge nel 1972, dopo 17 anni di dittatura militare, chiamato dai militari stessi per fronteggiare la grave crisi economica di quegli anni, convogliando tutte le forze nazionali e popolari in un “Fronte unico di liberazione nazionale”, includente stalinisti, guerriglieri castristi e  gruppi trotskisti (cfr. “Dalla manica del capitalismo argentino è uscito l’asso del peronismo”, Il programma comunista, n. 6/1973).

(6) Cfr. ARTICOLI SUL CILE

(7) Cfr. “La rivoluzione cubana” e “ Cuba, un vaso di coccio tra luridi vasi di acciaio”, Il programma comunista, n.20/1961 e n.20/1962.

(8) Cfr. ARTICOLI SU CINA 1927

(9) Scrive Trotski, in “Conversazione con un operaio socialdemocratico (23/2/1933)” (Scritti 1929-1936, Einaudi 1962, pag. 427 e 429): “Il comunista ragionevole, il bolscevico serio dirà al socialdemocratico: ‘Tu conosci la mia ostilità nei confronti del Vorwärts. Io mi adopero e mi adopererò con tutte le mie forze per minare l’influenza nefasta che questo giornale ha tra gli operai. Ma lo faccio e lo farò con le parole, con la critica e la persuasione. I fascisti vogliono per parte loro distruggere materialmente il Vorwärts. Ti prometto di difendere con te il tuo giornale sino al limite delle mie forze, ma mi aspetto da te che al primo appello anche tu venga a difendere la Rote Fahne, qualunque opinione tu abbia su di essa’. Non è forse un modo irreprensibile di porre la questione? Questo modo non corrisponde agli interessi elementari del proletariato nel suo insieme?”.

Più avanti: “Ci ricordiamo in quali condizioni siano morti Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Noi bolscevichi abbiamo insegnato agli operai a non dimenticare nulla. […] Non sappiamo che farcene dei pentimenti dei capi socialdemocratici e della loro fedeltà al marxismo: ma abbiamo bisogno della volontà della socialdemocrazia di lottare contro il nemico da cui anch’essa è minacciata di morte. Per parte nostra siamo pronti a rispettare nella lotta comune tutti gli impegni che prenderemo. Promettiamo di batterci bene e di condurre la lotta sino in fondo. Ciò è largamente sufficiente per un accordo di combattimento”. E’ veramente imbarazzante leggere tali ingenuità da parte di un grande rivoluzionario marxista come Trotski, il quale si fa “promotore” di un fronte unico antifascista in Germania tra socialdemocratici e comunisti stalinisti. E’ solo un caso che questi ultimi abbiano preferito insieme aspettare l’avvento di Hitler al potere, anche a loro rischio personale, piuttosto che lavorare per mobilitare il proletariato contro di esso?

(10) I fronti popolari spagnoli furono la dimostrazione ulteriore della micidiale funzione antiproletaria di ogni coalizione di opposizione o governativa dei comunisti con altri partiti “operai” o borghesi liberali. Tali coalizioni, con le inevitabili relative indecisioni, tradimenti, impreparazione, ecc. sul piano delle misure politiche ed economiche da adottare, non potevano che preparare il terreno alle reazioni delle forze conservatrici borghesi, di destra o militari che fossero, e al bagno di sangue dei proletari: ciò che era già avvenuto a Parigi, d’altra parte, con l’epilogo tragico del giugno 1848 e del 1871 per la Comune parigina. In Spagna assistiamo, in più, anche al cannibalismo tra le stesse fazioni della borghesia (oltre a quello delle coalizioni imperialiste) e al tragico trascinamento in esso del movimento proletario.

(11) Cfr. “Il MIR. Rivoluzione fino in fondo a parole, nuova unità popolare nei fatti”, Il programma comunista, n.24/1973.

(12) Va ricordata la tragica esperienza in Nicaragua della “rivoluzione sandinista”: la costituzione del FNLS che, nonostante il suo frontismo, sotto la spinta delle lotte proletarie e contadine diede non poco filo da torcere ai latifondisti locali e all’imperialismo USA (il quale dovette ricorrere ai famigerati Contras, corpi militari pagati con la vendita di armi all’Iran durante la guerra Iran-Iraq). La sconfitta sul piano elettorale del Fronte nazionale sandinista nel 1990, al quale fronte avevano aderito anche i cattolici della “teologia della liberazione” sconfessati poi dalla Chiesa ufficiale, rappresentò lo sfiancamento di una lotta proletaria e contadina costata decine di migliaia di morti, a causa del suo tragico isolamento e della mancanza di una vera direzione rivoluzionaria marxista nazionale e internazionale.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°05 - 2012) 

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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