DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

"Il prestito allo Stato, la costituzione del sempre più elefantesco debito pubblico, è uno dei cardini della accumulazione capitalistica. Marx nel Primo Libro del Capitale (cap. XXVI, 8, sulla genesi del capitalista industriale), dice testualmente: ' Il debito pubblico o, in altri termini, l'alienazione dello Stato - sia questo dispotico, costituzionale o repubblicano - segna della sua impronta l'era capitalistica. La sola parte della cosiddetta ricchezza nazionale, che entra realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni, è il loro debito pubblico. Perciò è assai conseguente la teoria contemporanea secondo la quale un popolo diventa tanto più ricco quanto più fa debiti. Il debito pubblico diventa il credo del capitale. Ed è così che la mancanza di fede nel debito pubblico, non appena questo si è formato, viene a prendere il posto del peccato contro lo Spirito Santo pel quale non v'è perdono' ".

 

Queste poche frasi di Marx (citate in "America", un nostro testo del 1947) (1) inquadrano in estrema sintesi i termini generali del problema del debito pubblico e consentono una lettura delle odierne vicende, libera dalla marea di pregiudizi che condizionano qualunque interpretazione che non si fondi sul marxismo rivoluzionario. I pregiudizi si riassumono proprio in quello che Marx definisce il "peccato contro lo Spirito Santo", ovvero che il debito sia frutto della colpa (termini che oltretutto in tedesco sono equivalenti).  Il finanziamento dello Stato attraverso il debito svolge opera meritoria fintanto che garantisce rendimenti sicuri a capitali altrimenti improduttivi, ma diventa improvvisamente oggetto di pubbliche reprimende quando vacilla sotto il peso della sua stessa elefantiasi. Allora viene additato a frutto della colpa, della cattiva amministrazione, dello spreco, se non addirittura causa prima di tutti i mali che affliggono la altrimenti rigogliosa società del capitale. Il debito pubblico diventa un parassita cui va chiesto il conto. Come effetto del ribaltamento della realtà che è caratteristico della demente economia moderna, il creditore - sarebbe a dire il capitale finanziario - si guarda bene dal chiedere di estirpare il parassita, bensì pretende da esso rendimenti maggiori a compenso della diminuita loro sicurezza. Con ciò rivela, agli occhi di chi sa guardare, chi è l'ultimo parassita in questo rapporto tra organismi saprofiti: il capitale finanziario, anche senza tener conto dei salvataggi operati dalle Banche centrali che in tempi recenti lo hanno salvato dalla bancarotta e che hanno appesantito grandemente il debito degli Stati nazionali.

La responsabilità ricade però sul vilipeso Stato (il Capitale, in effetti, non ha colpa di essere tale!), il quale da parte sua confessa di essere stato troppo prodigo, di aver alimentato a sua volta una vasta platea di parassiti; ma da ultimo a pagare sarà chiamato chi si dice abbia maggiormente goduto di tanta prodigalità: lavoratori dipendenti e pensionati che hanno… sguazzato tra ammortizzatori sociali e prestazioni dei pubblici servizi.

"Una delle tesi essenziali del marxismo è che quanta più ricchezza si concentra nelle mani della borghesia nazionale, tanta più miseria vi è nella massa lavoratrice. Lo Stato-sbirro, semplice difensore del privilegio della prima, si trasforma oggi sempre più in Stato-cassa. L'attivo di questa cassa va ad incrementare l'accumulata ricchezza dei borghesi, il suo passivo pesa sulla generalità, ossia sui lavoratori. Coi prestiti nazionali si ribadisce la servitù economica del proletariato. Secondo poi l'insensata pretesa che questo addirittura sottoscriva qualche cartella dell'accredito ai suoi sfruttatori, la sua servitù viene ribadita una terza volta" (2).

Attraverso il debito pubblico, oggi come ieri il Capitale chiede il conto allo Stato-servo, il quale prontamente provvede ad attivare il sistema fiscale per depredare più intensivamente il proletariato, facendo precipitare nelle sue file masse crescenti di piccola e media borghesia, imprenditori compresi, rovinati tanto dal fisco quanto dalla crisi. Il patriottico obiettivo del presente diventa così il pareggio di bilancio, che in una situazione di ristagno economico significa mettere in agenda lo smantellamento di ciò che resta dei servizi pubblici. Del resto, come ogni gloriosa meta, anche il pareggio di bilancio richiede i necessari sacrifici e le inevitabili vittime, che se non figureranno negli elenchi dei monumenti ai caduti per la Patria riempiranno qualche centimetro quadrato di carta stampata o qualche minuto in TV. Si conferma così funzione essenziale del debito pubblico la concentrazione della ricchezza nelle mani dell'"aristocrazia finanziaria".

Marx comprende nell' “aristocrazia finanziaria” “non soltanto gli appaltatori di prestiti statali e gli speculatori sui valori dello Stato. Tutti gli affari finanziari moderni, tutta l'economia bancaria è connessa nel modo più intimo col credito pubblico. Una parte del loro capitale commerciale viene necessariamente investito in valori di Stato rapidamente convertibili. I loro depositi, il capitale posto a loro disposizione e da loro ripartito tra commercianti e industriali, proviene in parte dai dividendi dei possessori di rendita dello Stato” (3).

Si tratta dunque di un fenomeno intimamente connaturato al capitalismo fin dalle origini, inestirpabile finché durerà il capitalismo.

Parallelamente a questo processo di concentrazione di ricchezza finanziaria avviene quello opposto - ugualmente connaturato allo sviluppo capitalistico - di spoliazione e immiserimento di settori sempre più ampi della società, motivo per cui si fa via via più urgente l'esigenza del Capitale di appoggiarsi sulla solidità dello Stato come organismo di dominio di classe, sullo Stato-sbirro: "Se per il mercato monetario nel suo complesso e per i sacerdoti di questo mercato la stabilità del potere dello Stato in ogni epoca ha fatto le veci di Mosè e dei profeti, come potrebbe essere diversamente oggi che ogni diluvio minaccia di travolgere, insieme ai vecchi Stati, anche i vecchi debiti di Stato?". Parole che sembrano scritte oggi, ma che risalgono ancora a Marx, 1851 (4).

Oggi come ieri, è sempre un guaio quando il dilagare del disordine minaccia gli ameni affari dell'"aristocrazia finanziaria" che non chiede altro di far soldi in pace e tranquillità, e perciò è sempre alla ricerca di "sentinelle dell'ordine", e in modo particolare nei periodi di crisi: "la cosa è provata dalla sensibilità dei titoli di Stato alla minima prospettiva di disordini, dalla loro fermezza, ogni volta che il potere esecutivo ha il sopravvento".  Ecco un altro dogma del moderno Verbo economico che potremmo ritrovare sulle pagine di cento pubblicazioni odierne, dal Sole 24ore all'Economist: e che abbiamo ripreso proprio dall'Economist, ma del 1° febbraio 1851! (5)

Pace sociale, perdiana, o il Capitale se ne va altrove! Piegate la schiena, salariati, o sale lo spread! Da oltre 160 anni il monito del Capitale è sempre lo stesso, e resterà tale fino alla sua fine. 

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La questione dei debiti sovrani non riguarda esclusivamente la situazione interna dei Paesi capitalisti, ma oggi più che mai il rapporto con il Capitale internazionale. Riportiamo sempre dal nostro testo "America":

 

"In Italia non è certo De Gasperi che rischia di peccare contro lo Spirito Santo! Ma i suoi avversari attuali in Parlamento, soci fino a ieri nella politica dei prestiti, soci oggi ancora nella politica della servitù dei sindacati operai, restano suoi soci nella politica del prestito dall'America con cui lo Stato italiano si aliena al capitale straniero. Abbiamo già detto che per il proletariato essere venduto al capitale straniero o a quello indigeno è una pari sventura. Nel caso della attuale classe politica dirigente italiana va però detto che essa, attraverso le indegne metamorfosi del suo schieramento, nella vendita dell'onore del suo Stato saprà scendere ancora qualche altro scalino. L'alienazione del proprio onore non è il peggiore affare che si possa concludere. Anche qui, e siamo sempre nella piena meccanica nel mondo borghese, che avversiamo ed odiamo, vi è una questione di prezzo. Si può vendere l'onore sottocosto. Ed è a questo che arriveranno gli odierni gerarchi della politica italiana, negoziando con lo straniero vincitore le condizioni del suo intervento finanziario, preoccupati solo di contendersi tra loro, filoamericani o filorussi che siano, le percentuali di commissione sull'affare."

 

Nel passo si fa riferimento alle condizioni poste dal capitalismo vincitore dell'ultima guerra imperialista per concedere finanziamenti agli sconfitti: subordinazione politica e intensificazione dello sfruttamento del proletariato. L'asservimento dello Stato nazionale al Capitale, che ieri s’identificava principalmente con quello americano e oggi col capitale mondiale che conserva tuttavia i suoi centri maggiori oltreatlantico, comporta in ogni epoca capitalistica che il proletariato venga venduto al prezzo più basso possibile. La classe politica dirigente italiana, di ieri come di oggi, con non diversa "indegna metamorfosi del suo schieramento", si omologa nel sostegno alla politica dei sacrifici, con la quale, al cospetto di quella sorta di tribunale finanziario internazionale che sono le agenzie di rating, può sperare che la sua servizievole opera sia apprezzata.

 

Nel frattempo, "nella vendita dell'onore del suo Stato" è scesa di parecchi scalini verso la rinuncia a qualunque autonomia della politica dagli interessi della finanza da un lato e dai diktat del capitalismo straniero più forte dall'altra. Se gli odierni diktat del capitalismo USA passano attraverso le pretese dei mercati finanziari, quelle del capitalismo tedesco, nel frattempo ringalluzzito, passano per gli obblighi derivanti dall'appartenenza alla prestigiosa area Euro.

***

Nella fase attuale, la crisi capitalistica, che agisce in profondità, nello stesso meccanismo di accumulazione, e che si è riflessa dapprima sul sistema creditizio obbligando le banche centrali a intervenire con cospicui finanziamenti, propone tra le sue manifestazioni di superficie la difficoltà di alcuni Stati europei a piazzare i propri titoli di debito, con conseguente riduzione del loro prezzo e aumento degli interessi da pagare a scadenza. La rogna, si sa, riguarda in modo peculiare l'area Euro, dove gli Stati non dispongono di un'autonoma politica monetaria e pertanto non possono intervenire sul mercato dei propri titoli, ad esempio riacquistandoli, come ha fatto la Fed, o erogando liquidità illimitata alle loro banche perché lo facciano per loro conto. La speculazione internazionale - termine in uso quando si ritiene poco educato rivelare l'operato delle stesse banche - ha così modo di manovrare al ribasso sul debito di alcuni Stati con massicce vendite e successivi riacquisti a prezzi vantaggiosi, oppure sui Cds, cioè quei particolari strumenti finanziari che dovrebbero assicurare i creditori dal rischio del fallimento dei debitori. Il risultato è che i costi del finanziamento del debito pubblico in alcuni Stati - considerati poco affidabili - lievitano oltre il tollerabile, in altri si azzerano in virtù di una presunta condizione di "salute" economica. Il risultato di tali squilibri è un aumento degli squilibri stessi (chi sta meglio si finanzia gratis, chi sta peggio paga il prestito profumatamente) poiché è naturale che, nella giungla del Capitale, il più forte spadroneggi, e si riproducano a tutti i livelli situazioni come quelle della favoletta del lupo e dell'agnello. La Germania, lupo di turno, si finanzia a tasso zero, tanto da permettersi di concedere aumenti del 5% ai lavoratori pubblici, e predica la necessità del sacrificio all'agnello greco che è già prossimo all'inedia. In Grecia, Spagna, Italia, ecc., non si parla certo di aumenti salariali, ma di autentici salassi, misure draconiane che incidono sulle condizioni di vita di milioni di proletari e mezze classi per fronteggiare l'aumento dei costi di  finanziamento dello Stato.

 

Questo, per sommi capi, il quadro in cui si inseriscono la protesta e l'indignazione, che non hanno nemmeno lontanamente i segni del riaccendersi della lotta di classe. Mentre il proletariato non esprime ancora alcuna risposta difensiva spontanea alla crisi che pure ne colpisce con durezza le condizioni di vita, nel completo vuoto di iniziativa delle corporazioni sindacali che in Italia non si sono degnate nemmeno di mettere in scena la rappresentazione di uno sciopero generale contro provvedimenti pesantissimi, proliferano i movimenti e le associazioni che promuovono le iniziative più diverse, sedicenti "radicali" o addirittura "rivoluzionarie" con la pretesa di dare voce alla protesta del "popolo", leso nella sua maestà democratica da una cricca di avidi speculatori spalleggiati da governanti al loro servizio. Di questi tempi, si distingue per visibilità il movimento per il boicottaggio del debito pubblico degli stati sottoposti alla speculazione internazionale. Buontemponi di varia matrice vanno predicando che i rispettivi governi dovrebbero sottrarsi al ricatto dei cosiddetti "mercati", rifiutandosi di cedere alla loro minaccia che suona più o meno così: "Risana il bilancio dello Stato, taglia, licenzia, tassa e mena o coi tuoi Bot, Bonos, ecc. puoi procedere a operazioni non propriamente... finanziarie". Intanto, i titoli del debito pubblico si vendono, sì, ma a prezzi d'occasione e ad altissimi rendimenti... A sostegno dell'obiettivo di non pagare il debito - a sentir loro cosa ragionevole e di buon senso - i capipopolo portano a esempio la semi-glaciale Islanda, dove un referendum ha dato mandato al governo di non onorare gli impegni con i creditori internazionali – trascurando il dettaglio che la popolazione là residente equivale più o meno a quella della provincia di Rovigo e che il peso delle banche vichinghe nel sistema finanziario internazionale è quello di una piuma.

 

E così la via della lotta sarebbe stata tracciata dall'eroico popolo islandese: si farà a colpi di referendum. Quello che sorprende in tutto questo protestare non è certo la sacrosanta repulsione per banche e governi servi, ma da un lato l'approccio assolutamente superficiale al problema (come se la questione fosse isolabile da un contesto generale carico di implicazioni), dall'altro la pretesa che sarà una rivoluzione democratica a invertire la direzione del corso politico in atto: "Bisogna non pagare questo debito e far invece cadere, finalmente, i costi della crisi su chi l'ha provocata... Dalla Grecia, che ha inventato la parola democrazia, deve partire la riscossa democratica di tutti i popoli d'Europa" (6) . Difficile dire se simili tromboni ci fanno o ci sono; fatto sta che viene seminata a piene mani l'illusione che un movimento di protesta, rispettoso delle regole democratiche, per il semplice fatto di manifestare “indignazione”, sia in grado, per quanto numeroso, di ribaltare rapporti di forza consolidati, che vedono il grande capitale industrial-finanziario manovrare agevolmente a proprio vantaggio, con l'appoggio determinante dello Stato democratico, e il proletariato subire al momento inerme le iniziative dell'avversario di classe. Non pretendiamo certo che personaggi, che possono passare per "estremisti di sinistra" solo nei talk show, maneggino categorie marxiste, ma questi sono completamente fuori dal mondo. Seguire questi pifferai, talvolta prestati dal cabaret alla politica, significa perdersi nel nulla. Essi si aggrappano all'idea della democrazia sospesa: la democrazia, questo bene irrinunciabile e imperituro dei popoli liberi, sarebbe stata sospesa clamorosamente a Genova 2001 quando i manganelli sono calati sulle teste di ragazzi inermi (inermi perché ignari della natura profonda dello Stato democratico) e sarebbe sospesa oggi perché i governi tecnici in Italia e Grecia non si sono insediati in seguito elezioni politiche, ma sono stati imposti dai "poteri forti". In realtà, sono stati democraticamente votati, pur con qualche mugugno e distinguo, dai più rappresentativi partiti in Parlamento: in Italia con unanime soddisfazione dei benpensanti per la sostituzione di un personaggio un po' imbarazzante con un compito signore dai modi educati (tanto… fine da esibire, come titolo di merito, la comparazione tra il numero dei suicidi nel proprio Stato e quello nello Stato pecora-nera!), in Grecia nell'assoluta indifferenza dei parlamentari a quanto accadeva fuori del palazzo, alla rabbia impotente dei giovani, dei disoccupati, dei pensionati, tutti condannati alla miseria.

 

A sentire i “No debt” - chiamiamoli così per semplificare - , questo disastro sociale sarebbe originato da una cricca di politici al servizio di gruppi finanziari internazionali. Mandata a casa la cricca, e ristabilita la Santa Democrazia, i Popoli Liberi saranno in grado di affermare la loro volontà su una politica finalmente al servizio dei comuni mortali. Anche i No debt sono vittime del pregiudizio della colpa, colpa che addebitano a qualcuno, a una frazione parassitaria del capitale, a un governo, a un complotto internazionale (oggi ,si vocifera della Trilateral; ieri della finanza... ebraica). Clamorose balle! Il debito pubblico è, lo ripetiamo, connaturato al capitalismo. Quando i tecnici se ne andranno a casa, non prima di aver fatto diligentemente i loro compiti, arriveranno altri figuri (il mercato propone un bel bestiario!), che racconteranno una nuova storiella, adatta alla nuova congiuntura, ed eserciteranno ancora una volta l'arte dell'inganno democratico sui proletari alle prese con difficoltà ancora maggiori di quelle di oggi, ma ben nutriti di illusioni. E non è improbabile che tra i candidati a manovrare la barcaccia dello Stato si potranno trovare alcuni degli attuali “ribelli al debito”. A meno che la frustrazione e l'incazzatura crescenti non trovino i modi di manifestarsi in forme finalmente classiste, e perciò stesso aperte ad una visione più cosciente della posta in gioco: che non è la democrazia, ma la conservazione o meno del dominio del capitale.

 

Non c'è stata mai alcuna "sospensione" della democrazia, perché manganelli e tecnici di macelleria sociale sono - per chi li sa interpretare - semplicemente rivelatori della natura di classe dello Stato democratico – natura che decenni di controrivoluzione hanno malamente mascherato dietro le parvenze benevole del welfare. Né questo macello che si giustifica con la necessità di finanziare gli interessi sul debito pubblico è semplicemente risultato di una volontà politica o addirittura di "complotti" internazionali, ma dell'aggravarsi delle contraddizioni in cui si dibatte il sistema capitalistico, che impone "salvatori della Patria" e "sentinelle dell'ordine": oggi in veste di tecnici, ieri di capipopolo alla Luigi Napoleone. Tutte le democrazie prevedono democraticamente la propria autosospensione quando è in gioco la... democrazia, e questa bella regoletta democratica, scritta nell'articolo 48 della Costituzione di Weimar, ha permesso la democratica affermazione dell'Adolfo, il "Grande dittatore". Con la stessa logica, il Fascismo viene interpretato come una sgradevole parentesi nella continuità dello Stato liberal-democratico, quando ne è stato piuttosto il salvatore. Democratica ingratitudine!

***

E qui viene il bello, in veste di paradosso rivelatore: che cosa chiedono in definitiva i No debt? Chiedono di "non pagare questo debito e far invece cadere, finalmente, i costi della crisi su chi l'ha provocata". Ebbene, a leggere i libri di storia, si apprende che chi in passato è stato in grado di consolidare il debito pubblico italiano, facendone ricadere i costi sulle banche, non è stata Santa Democrazia ma… il buon Benito, campione della pratica di tenere a freno il fatto economico attraverso lo strumento dello Stato (7). Lo fece in nome degli interessi nazionali, degli interessi del "popolo italiano", quello stesso cui si richiamano gli evocatori di una "rivoluzione economica e sociale dei popoli europei". Quando si parla in nome del "Popolo" e della "Nazione", si finisce per approdare a lidi inaspettati, in compagnie insospettate, perché gli interessi nazionali sono in definitiva gli interessi del capitale nazionale. La contrapposizione che emerge in questa ultrademocratica ribellione al debito è tra capitale nazionale e capitale internazionale, tra i Popoli e la Finanza mondiale, tra Stato regolatore e Mercato senza regole. Si tratta della stessa logica cui si ispirava il Fascismo in camicia nera dei tempi che furono. Non è allora affatto incongruo che la lista di Beppe Grillo incassi il sostegno di "Fiamma tricolore" alle elezioni amministrative in Liguria, né che lo stesso Grillo accolga le tesi anti-immigrazione della Destra. Quanto ai vari sindacalisti, in prima fila in questa sfilata di indignados, essi appartengono a pieno titolo alla fascistissima tradizione corporativa, riadattata alle condizioni della Repubblica antifascista con lo stesso scopo fondamentale: subordinare il proletariato agli interessi della Nazione.

 

In questo circo Barnum che accomuna neofascisti, antifascisti, sindacalisti, operaisti (uniti al grido di "posti di lavoro! posti di lavoro!"), cabarettisti ai quali ammicca qualche partitaccio della ghenga parlamentare, troviamo anche i degni rappresentanti della tradizione  "nazionalcomunista" italica. Diamo un esempio del loro contributo alla causa No debt nel passo che segue, dove l'autore, fatto sfoggio di familiarità con le categorie marxiste nella lettura del debito pubblico, conclude:

"Da tempo andiamo sostenendo che la sola alternativa alla catastrofe economica e sociale è l’annullamento del fardello del debito, la sua pura e semplice cancellazione. Una simile misura è esecrata dalla pletora degli economisti liberali e liberisti, i quali sostengono che sarebbe un attentato alle leggi di mercato, al cui spontaneo gioco occorrerebbe continuare ad affidarsi. E’ fin troppo facile far notare che sono proprio queste leggi di mercato (in un mercato dominato dalla rendita e dalla speculazione finanziaria) che ci hanno condotto al punto in cui siamo, e che lasciare il cosiddetto ‘mercato’ libero di fare i fatti suoi, non significa solo affidarsi alla finanza predatoria, ma andare dritti verso il baratro. Altri sostengono che una tale misura è irrealizzabile senza rompere le compatibilità del capitalismo-casinò. Ciò è esatto, ma la questione è appunto che non si uscirà dal marasma senza fuoriuscire dal sistema, senza tagliare i condotti con cui la rendita e i settori parassitari e rentier della borghesia pompano ossigeno e ricchezza a spese del paese.
“L’annullamento del debito, ci rispondono, implica fare a pezzi il sistema bancario attuale e certamente uscire dall’Euro. Anche questo è esatto: l’annullamento del debito implica infatti tre misure complementari, la riconquista della sovranità monetaria, la nazionalizzazione di Bankitalia e quella del sistema bancario. Le ‘persone di buon senso’ ritengono che tali misure sono rivoluzionarie, e quindi quanto proponiamo è ‘assurdo’. Comunque sia le masse popolari hanno davanti l’inferno: esse debbono decidere non se fare durissimi sacrifici o no, ma per quale finalità, se farli per cambiare sistema o se farli per tenersi questo col rischio di ritrovarsi alle prese con altre e peggiori catastrofi."
(8)

Osserviamo solo di passaggio la non casuale sottolineatura della speculazione finanziaria e del liberismo economico come origine dei guasti del presente, come se non fossero essi stessi prodotti necessari dell'evoluzione del Capitale, ma del prevalere di una sua frazione parassitaria. Bene, annulliamo dunque il debito. Ma se chiediamo loro chi dovrebbe farsi carico di queste misure "rivoluzionarie", quale governo dovrebbe essere in grado di vararle, la risposta non sarebbe dissimile da quella di tutti gli altri acrobati del Barnum: un bel governo nazionale nato per volontà popolare, che rinazionalizzi la moneta, nazionalizzi il sistema bancario, sottoponga a controllo i flussi di capitali e di merci, rilanci l'occupazione e l'industria con investimenti produttivi, dalle opere pubbliche all'edilizia, dalle energie alternative agli armamenti, in poche parole che rilanci il ciclo di accumulazione che si è inceppato avvitandosi nella speculazione finanziaria. Patria e Lavoro! Coesione sociale! Democrazia (se proprio necessario, sospesa)!

Questi "rivoluzionari" guardano indietro, al buon vecchio welfare, all'armamentario keynesiano, alla concertazione, a tutto ciò che la potente dinamica del capitalismo ha già ampiamente sperimentato e esaurito. Queste le grandi "finalità", il "nuovo sistema" che dovrebbe nascere dalla dissoluzione dell'area Euro e dal collasso del credito: per di più con la pretesa di un ritorno forzato del capitalismo a una dimensione di mercato interno, con inevitabile ricorso a massicce misure protezionistiche, e tutto ciò che ne consegue. C'è bisogno di sottolineare come tutto questo odori di vecchio e stantio?

Contro questa logica tutta interna al campo borghese, che tende a mobilitare il proletariato in una battaglia di conservazione del dominio di classe della borghesia minacciato dallo stesso sviluppo capitalistico, siamo con Marx quando affermiamo che i liberisti sono obiettivamente più rivoluzionari di questi moderni protezionisti. E' per noi una conferma che la crisi porti a maturazione un processo di obiettiva convergenza tra forze "popolari" di destra e di sinistra, le une legate alla tradizione plebea del fascismo storico, le altre alla tradizione nazionalcomunista del PCI e dei suoi figliastri, tutti accomunati dall'idea di una "rivoluzione nazionale" che si pretende anticapitalista perché intende sottoporre a controllo la dinamica anarchica del capitalismo e i suoi riflessi distruttivi, senza rimuoverne le basi: l'azienda e il lavoro salariato.

Tutto questo collima perfettamente con la nostra tesi classica: che il fascismo realizza storicamente gli obiettivi della socialdemocrazia. Noi auspichiamo, all'opposto, che il treno del Capitale, col macchinista impegnato a riempire la caldaia, si schianti contro il muro eretto dal proletariato rivoluzionario prima di portare alla rovina, nella sua folle corsa, la specie umana. Solo allora si cancelleranno tutti i debiti tra gli uomini, anche se rimarrà purtroppo quello dei lasciti devastanti dell'"economia demente" sugli equilibri del Pianeta Terra.

***

 La battaglia contro il parassitismo del capitale finanziario ovviamente ci appartiene, ma è per noi un aspetto della più generale lotta sociale e politica contro il sistema capitalistico, e non può esserne l'aspetto principale. Essa da un lato è legata indissolubilmente alla ripresa della lotta di classe nelle forme consacrate da una tradizione ormai più che secolare, e non certo a iniziative referendarie o a rappresentazioni di impotente indignazione, dall'altra può essere soltanto una battaglia internazionale, non equivocabile come difesa delle condizioni nazionali minacciate da un'aggressione esterna – nel caso attuale, in forma di guerra finanziaria. Viene in mente a questo proposito un paragone con la lotta contro Versailles che caratterizzò lo scontro politico e sociale in Germania negli anni di Weimar. Allora la lotta di classe infuriava davvero, animata dalla prospettiva internazionalista della Rivoluzione d'Ottobre; tuttavia, il movimento comunista tedesco, nonostante la messa in guardia di Lenin, giunse a intendere le condizioni vessatorie di Versailles come in qualche modo centrali nello scontro in atto, ad assumere come proprio l'obiettivo del loro rifiuto, finendo poco a poco per dar credito alla prospettiva di una "rivoluzione nazionale" di tutto il popolo tedesco, oppresso dai vincitori dell'Intesa. Fu, questa, una delle chiavi di volta della sconfitta. Sappiamo che la prospettiva della "rivoluzione nazionale" tedesca fu invece praticata con successo da ben altre forze che, una volta al potere, provvidero a cancellare unilateralmente i debiti per le riparazioni di guerra. Sotto questo profilo, Hitler fu indiscutibilmente un no debt autentico.

Rischiano di trovarsi simili antenati nell'album di famiglia quanti non adottano il criterio marxista della lotta di classe rivoluzionaria e internazionalista nell'interpretazione (e quindi nella trasformazione) del mondo: perché non esistono vie mediane, o "terze vie", tra Rivoluzione e Controrivoluzione.

 

 

NOTE

 

1-  “America”,  in Prometeo n. 7, 1947

2-  “America”, cit. In un altro nostro articolo di quegli anni, “Imprese economiche di Pantalone” (Battaglia comunista, n.20, 1950, si legge: " Signor Pantalone de' Bisognosi, de te fabula narratur, si tratta di te, delle decorose toppe con cui copri l'antica miseria. In te il buonsenso popolare ha ben personificato l'immagine marxista del popolo, cui di statale e di pubblico appartiene solo il debito, mentre la ‘ricchezza nazionale’ è appannaggio di lor signori".

3- Marx, Il 18 brumaio di Luigi Napoleone, Ed. Riuniti, 1991, p.118.

4- Marx, Il 18 brumaio, cit., p.118

5- Riportato da Marx nel 18 brumaio, cit., p.118.

6- Così Giorgio Cremaschi su Liberazione, 16.04.2012, in Http://rebusmagazine.org/fuori-traccia/la-rivoluzione-in europa-non-pagare-il-debito/

7- D. Fausto, “Lineamenti dell'evoluzione del debito pubblico italiano (1861-1961)”, pp. 97-98, www.delpt.unina.it/stof/15_pdf/15_6.pdf.

8- M. Pasquinelli, “Mission impossible”, controinchiesta sul debito pubblico, sito del Movimento Popolare di Liberazione, MPL.

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°03 - 2012)

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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