DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Che in Cina viga un capitalismo pienamente sviluppato sono in pochi ormai a negarlo, magari mugugnando e dicendo che è pur sempre il… Partito comunista a dirigere l’economia e “dunque” siamo in presenza di una “sistema misto” (per la serie: “anche gli asini volano – basta impiantargli le ali”). Che invece in Cina si sia comunque “costruito socialismo” a partire da Mao e che solo poi (per qualche strano motivo) si sia presa una strada… un po’ diversa fa parte integrante della grande mistificazione che regge dalla metà degli anni ’20: la possibilità di “costruire socialismo in un paese solo” di marca staliniana, in tutte le sue varianti – da quella russa a quella cinese, e in seguito da quella cubana a quella albanese, da quella romena a quella nord-coreana, e via mistificando [1]. Su questi temi, sull’analisi della situazione economico-sociale cinese, dovremo tornare in futuro. Qui vogliamo segnalare come la classe operaia cinese (che ha una grande tradizione di lotte, anche politiche, come dimostrano le Comuni di Shanghai e Canton nel 1927) non accetti passivamente i diktat dell’economia capitalista, globale e nazionale. I segnali sono numerosissimi, ed è difficile sia seguirli nella gragnuola di informazioni che si susseguono sia per la difficoltà stessa di comporle in un quadro unitario. Ma di alcune lotte si può parlare, proprio per il carattere esplosivo che hanno assunto.

Partiamo da un dato impressionante. Il Corriere della Sera del 6 dicembre 2011 c’informa che sarebbero 150mila l’anno gli “incidenti di massa”: vale a dire, “scioperi, proteste contro funzionari corrotti, fabbriche chiuse e/o spostate e così via”; e, basandosi sul China Labour Bulletin, ricorda i più recenti: “mille operai di una ditta di Singapore a Shanghai, centinaia a Taicang nel Jiagsu, gli autisti di bus di Hainan e del Guagxi”. Di fronte a quest’ondata impressionante di dissenso operaio, parrebbe che la classe dominante borghese sia preoccupata e impreparata: Zhou Yongkang, membro del comitato permanente del Politburo, avrebbe ammesso che “non abbiamo ancora messo a punto un maturo sistema per la gestione sociale”. Chi ha orecchie per intendere intenda! Da parte sua, Le Monde del 29 novembre 2011 annotava che “i conflitti sociali si moltiplicano nelle fabbriche cinesi” e che “le delocalizzazioni suscitano proteste, mentre rallenta la domanda mondiale”; e ricordava (oltre alla catena di suicidi verificatisi in primavera presso ditte di elettronica che lavorano per la Foxconn) lo sciopero sulle linee di produzione della Honda, quello che il 22 novembre ha bloccato la produzione alla Jingmo (tastiere e accessori per Apple e IBM) in risposta all’introduzione di lavoro notturno, dalle 18 a mezzanotte, dopo una giornata iniziata alle 7,30 (fate il conto: 16 ore abbondanti di lavoro!), l’agitazione (il 14 novembre) di migliaia di operai in cinque impianti della Pepsi e (il 17 novembre) quella dei lavoratori della città-fabbrica di Donguan appena a nord di Shenzhen e dei 7mila di Yuecheng (subappaltatori per New Balance e Nike) di fronte alla minaccia di spostamento della fabbrica verso lo Jiangxi – stessa minaccia che, a fine ottobre, aveva indotto a scendere in lotta i lavoratori della fabbrica di orologi Citizen di Shenzhen (cfr. www.labornotes.org, www.chinalaborwatch.org, www.reuters.com). Come si vede, le delocalizzazioni (alla ricerca di manodopera più a buon mercato e meno sindacalizzata) non sono un fenomeno solo euro-americano: fanno parte della prassi normale del capitalismo.

A questo sintetico ma eloquente panorama, vanno aggiunti i “fatti di Wukan”, paese di contadini, pescatori e operai nella contea di Shanwei, cuore del Guandong, regione particolarmente ricca (se ne parla come di quella più industrializzata del pianeta), ma già colpita dai sussulti della crisi e dalle devastazioni ambientali (inquinamento dei fiumi e delle regioni costiere). Qui, a partire da settembre 2011, si è assistito a un’autentica sollevazione dei tredicimila abitanti, suscitata dalla politica di brutali espropri attuata dai funzionari locali di regime a favore dei grandi speculatori immobiliari, calati come cavallette nella regione (il valore dei terreni è cresciuto, dal 1998, fino al 155% in più): nel giro di poche settimane, qualcosa come oltre la metà del territorio del comune è stato trasformato da agricolo in edificabile, con indennizzi irrisori e soprattutto sottraendo alla popolazione quel retroterra contadino che in molti casi permette ancora di far fronte alla crisi dilagante (secondo dati dell’Accademia delle scienze sociali di Pechino, negli ultimi 30 anni qualcosa come 50 milioni di contadini hanno perso la casa e altri 60 li seguiranno nei prossimi due decenni: cfr. www.AsiaNews.it del 15/12). Le cose sono precipitate nella prima metà di dicembre, quando la morte a seguito di un arresto e interrogatorio di uno dei leader della protesta ha acceso la miccia di un’autentica rivolta: per giorni interi, il paese è stato letteralmente circondato dalle forze dell’ordine (mille agenti!), è stato attuato un blocco dei viveri e dei movimenti delle persone in entrata e uscita, è stata imposta una censura alla stampa, si sono avuti ripetuti, quotidiani scontri violenti con arresti e feriti. Dopo aver nominato un nuovo consiglio comunale, l’intero villaggio si è auto-organizzato per resistere e rispondere agli attacchi (cfr. La Repubblica, 16/12; www.AsiaNews.it del 20/12). A fine dicembre, le autorità municipali del Shanwei hanno ceduto, riconoscendo l’errore commesso dai funzionari e promettendo compensazioni: ma mancano notizie recenti sugli sviluppi successivi. Certo è che la prova di forza di Wukan può diventare il punto di riferimento per altre agitazioni simili, in altre regioni della Cina dove sussistono situazioni analoghe, andando a sommarsi al resto delle già vaste e profonde turbolenze sociali.

Intanto, il malumore cresce fra i lavoratori della Guangzhou Aries Auto Parts Corp., ditta di componentistica a proprietà giapponese, che rifornisce la Honda e la Toyota… “Grande è il disordine sotto il cielo”, diceva Mao. Eh, già: in tutti i sensi e in tutti i paesi, il capitalismo è disordine.

 


[1] Alla realtà cinese, allo svilupparsi di rivoluzione e controrivoluzione in Cina negli anni ’20, al maoismo e ai suoi epigoni, abbiamo dedicato numerosi lavori di partito. In particolare, ricordiamo le serie di articoli usciti su Il programma comunista: “Riprendendo la questione cinese” (nn. 5, 8, 9, 10, 11, 13, 16, 17, 22/1970; 1, 4, 6/1971), “La questione cinese nel corso del nostro lavoro di partito” (n.7/1970), “Il maoismo è figlio dello stalinismo” (n.7/1971), “Dove va a finire il marxismo nel ‘pensiero di Mao’?” (nn.13, 14, 16, 19, 20, 21, 22/1971; 5, 6, 7, 8, 9, 10/1972), “Rivoluzione culturale” (n.16/1971), “Ancora sul ‘pensiero di Mao’” (nn.17, 19, 20, 21, 24/1973). A essi rimandiamo chi sia interessato ad approfondire la nostra analisi e critica della “questione cinese”.

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