DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Negli articoli usciti nei numeri scorsi di questo giornale, che descrivevano e analizzavano gli avvenimenti egiziani dei primi mesi di quest’anno, sulla scorta del marxismo abbia-mo individuato nelle classi medie la rete degli interessi che hanno frenato e depotenziato la lotta intrapresa negli ultimi anni dalla classe operaia egiziana e sfociata poi nella rivolta genericamente popolare. Gli scioperi e le manife-stazioni, gli scontri nelle campagne e in tutte le aree indu-striali, la lotta per il pane nelle città, per anni hanno assunto un carattere nazionale e di massa. E’ da queste lotte che sono partiti la deflagrazione e poi l’incendio, attivamente cavalcati dalla piccola borghe-sia e avviati naturalmente verso ideologie democratiche e nazionaliste.

Abbiamo messo in rilievo che non siamo stati in presenza di moti a sfondo religioso, né di qualche tardo sussulto di moti anticoloniali o antimperialisti; il movimento di rivolta (e non la rivoluzione) è nato nel profondo del sottosuolo sociale ed è stato scatenato dal progredire della crisi economica internazionale, quella stessa che sta mordendo in sequenza la Grecia e il Portogallo, l’Irlanda e la Spagna, etc., che sta alimentando la guerra in Libia, la concorrenza commerciale e politica fra Stati, l’attacco for-sennato ai migranti, ai fuggiaschi e al proletariato mondiale. L’ampiezza del sommovimento e la sua intensità, manifestatesi in quest’area e nel Medioriente, ci permettono dunque di riconfermare che la crisi di sovrapproduzione che attraversiamo è di prima grandezza.

Qui vogliamo porre l’accento in particolare sulla funzione avuta dalle classi medie, da quel ceto corteggiato dalla grande borghesia e dai media internazionali, che in Europa manda in visibilio il ceto corrispondente, fatto di riformisti e internauti di tutte le specie. Nel grande calderone piccolo-borghese ci sta di tutto, declassati e aspiranti alto-borghe-si (avvocati, medici, ingegneri, professori, ecc.), artigiani, commercianti e contadini, arrampicatori sociali, giovani brillanti e sottoproletari, anziani prestati a tutte le cause, fratelli mussulmani e laici. In questa efflorescenza delle classi medie, possiamo valutare anche il grado di senescenza del capitalismo, che pur impoverendo, dal punto di vista economico, queste sottoclassi, ne esalta il numero e quindi la funzione reazionaria. Gli scontri violenti nelle grandi e piccole città (Cairo, Suez, Mahalla, Alessandria) si sono concentrati in piazza Tahrir in un vero e  proprio raduno, sovraesposto alle telecamere di Al-Jazeera, ben controllato dall’esercito e attaccato di tanto in tanto dai servizi di sicurezza ben pagati e addestrati (le baltagiya, cui è da tempo “appaltata” la gestione dell’ordine pubblico a carattere cri-minale). Il marxismo insegna che tutte queste sottoclassi non possono avviare alcun movimento, né di rivolta né altro; possono allargarlo, enfatizzarlo, e soprattutto deviarlo: sono utili alla bisogna, in quanto, seminatrici d’illusioni, di-stolgono le masse proletarie dalla difesa dei propri interessi di classe e dalla lotta contro il nemico di classe, la borghesia. Ciò non vuol dire che non paghino e non pagheranno care anch’esse le illusioni che nutrono su se stesse e su vicende di cui non riescono ad afferrare il senso e la direzione. In assenza del partito di classe, del suo programma e dei suoi obiettivi immediati e storici, la lotta tra vari interessi settoria-li discordanti induce il proletariato a incastrarsi inconsapevolmente nei dilemmi ine-sistenti tra fascismo e democrazia, tra burocrazia e partecipazione democratica, tra corruzione e onestà distri-butiva. La risultante di tutte queste lotte è il corso dittatoriale del Capitale, la cui forma politica, democratica o fascista, laica o religiosa, monarchica o repubblicana, infarcita delle più strane combinazioni di passato e presente, gli è indiffe-rente: esso avanza a passi chiodati, spinto senza tregua verso l’accumulazione, che precipita poi nelle crisi di sovrapproduzione. I guai sorgono quando si pensa di adottare, per ogni minuta combinazione (particolarità nazionali, locali, politiche ed economiche) una strategia che non sia quella della violenza rivoluzionaria, culminante nella dittatura del proletariato. La democrazia nell’epoca imperialista, in quanto sistema statale fondato sul suffragio universale (il vomitorium), è il luogo in cui si esprimono gli interessi dei diversi settori della borghesia in forma così per dire parlamentare (in realtà, la vera forza risiede altrove). Ma per la piccola borghesia, che occupa massicciamente i seggi, a causa del suo numero, quello stesso luogo, dove “dovrebbero” esprimersi, consolidarsi ed emergere i suoi interessi economici e sociali, è in realtà di più: è un feticcio da adorare e da benedire urbi et orbi. Il fascismo a suo tempo, ma anche la socialdemocrazia e lo stalinismo, resero evidente la natura invertebrata delle sottoclassi, arruolandole nelle diverse situazioni tra le loro file contro il proletariato. Tanto più giovani storicamente sono queste sottoclassi, tanto più sono virulente, nel senso biologico del termine. Questa loro capacità invasiva è più facile da osservare (l’ideologia è chiara e limpida) in quest’area ancora molto giovane per quanto riguarda la lotta di classe. Ovviamente, proprio per questo, proprio per l’esperienza storica del proletariato nelle metropoli, dove la stessa aristocrazia operaia ha una funzione reazionaria non indifferente, il marchio a fuoco alle mezze classi non deve avere mezze misure. Baste-ranno pochi esempi.

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Cominciamo dal gruppo extraparlamentare Kifaya (Ba-sta: movimento egiziano per il cambiamento) costituito da una cerchia d’intellettuali e attivisti politici. Nasce nel 2004 e si espone con un documento che si batte contro la ricandidatura alle elezioni di Mubarak e la successione del figlio Gamal; si definisce organizzazione non partitica, non politica, non sindacale e a-ideologica; è dunque un’associazione che accomuna tutte le opposizioni, nasseriani, libe-rali, islamisti, ma anche socialisti e stalinisti. Un vero revival sessantottino all’europea, cui manca però l’arrabbiata presenza anarcoide, autonoma, sinistrorsa, con il suo carattere “distruttivo” e la festaiola rivendicazione dell’immaginazione al potere. Come le vie del Signore, le varianti piccolo-borghesi sono infinite: ma pur sempre di brodaglia bor-ghese si tratta.

Il testo, reso pubblico il 21 dicembre 2004 e intitolato Documento alla nazione (vedi “La vittoria dei giovani e di Facebook”, Limes, n°1/2011), così espone il suo credo programmatico: “I personaggi della politica, del pensiero, della cultura, del sindacalismo e della società civile, firmatari di questo documento, si sono accordati nel riunirsi, nonostante le divergenze politiche e ideologiche, per affrontare due questioni legate tra loro, ognu-na delle quali è causa e risultato dell’altra. Prima questione: i pericoli e le enormi sfide che circondano la nostra Nazione rappresentati dall’invasione e dall’occupazione statunitense dell’Iraq, dalla continua violenza e aggressione sionista ai danni del popolo palestinese e dai progetti che mirano a ridi-segnare la carta della Nazione araba di cui ultimo il progetto del ‘Grande Medio Oriente’. Tutto ciò minaccia la nostra identità nazionale: per questo motivo si richiedono grandi sforzi per intavolare un confronto diretto a tutti i livelli- politico, culturale e civile – per salvaguardare gli arabi dal progetto sion-americano. Se-conda questione: la dittatura che ha colpito la nostra società è la causa principale dell’incapacità dell’Egitto di affrontare questi pericoli: per questo motivo si necessita una riforma globale, politica e costituzionale, portata avanti dai cittadini e non imposta sotto qualsiasi denominazione. Questa riforma deve toccare i seguenti punti: 1. La fine del monopolio del potere e l’apertura all’alternanza a partire dalla carica di presidente della Repubblica; 2. La promozione della legge, l’indipendenza della magistratura, il rispetto per le sentenze, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; 3. La fine del monopolio delle risorse che ha diffuso la corruzione e l’ingiustizia sociale aumentando la disoccupazione e i prezzi; 4. Il ripristino del ruolo regionale dell’Egitto perso dopo gli accordi di Camp David con Israele. [ …] Que-sta è l’unica via per costruire un paese libero che creda alla democrazia e al progresso e realizzi lo Stato sociale per il nostro popolo, nel nostro amato Egitto” (i corsivi sono nostri – NdR)

Aggiungete poi: “la libera circolazione dei partiti, quotidia-ni e associazioni, che liberi i sindacati della tutela governativa, lo svolgimento di elezioni parlamentari regolari e vere”, e il minestrone è servito. Come si può capire, si tratta di un chiaro programma borghese all’occidentale, dove il misero piatto riservato ai proletari è la presenza di liberi sindacati (immaginiamo… come in Europa!). Queste scimmiottature ideologiche, queste americanate (finanziate anche dall’estero) cresciute all’ombra della globalizzazione imperialista, che si osa chiamare “rivoluzioni”, con nomi di fiori e di colori, le conosciamo, sono all’ordine del giorno ormai ovunque. In epoca di crisi, la gigantesca pressione proletaria spinge dalle profondità e si trascina dietro, lo sappiamo da tempo, tutta la sotto-umanità impotente della piccola borghesia: nazional-democratici, alternativi, movimenti per il cambiamento, protestatari, libertari informatici, sempre pronti a mettersi al servizio della cosiddetta “vera democrazia”, in nome dell’Egitto, in nome della Nazione araba, in nome della Patria e della Libertà. In sintesi: spazzatura.

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Il secondo gruppo che ha riscosso un notevole consenso è il Movimento giovanile 6 aprile 2008, il cui nome deriva dal “giorno della disobbedienza civile”: un movimento aggregatosi allo sciopero gene-rale del 6 aprile per sostenere gli operai di Mahalla al-Kubra, la zona industriale alle porte del Cairo, sciopero che si era esteso spontaneamente a live-llo generale. Abbiamo riassunto in precedenza alcune delle posizioni di questo gruppo (e delle sue dichiarazioni nel corso della lotta), dimostrando che esso è venuto a spegnere, e non a rafforzare, gli scioperi portati avanti per diversi anni dai lavoratori tessili. Abbiamo scritto degli scontri con la polizia, degli arresti di massa, delle grandi manifestazioni nel piazzale di fronte alla fabbrica, della so-lidarietà straordinaria degli altri lavoratori; abbiamo raccontato delle lotte in difesa dei salari e dell’ottenimento degli arretrati, ma insieme a questo abbiamo riportato anche la battaglia delle organizzazioni di difesa economica costitui-tesi in forma indipendente e attaccate duramente dai sindacati di Stato ufficiali. Comunque, per chiarire l’apporto del tutto insignificante di questo movimento, basta la descrizione che esso fa di sé: “E’ diritto della nostra generazione provarci: può andare bene, oppure può essere un’esperienza di cui beneficeranno le gene-razioni future. Siamo un gruppo di giovani egiziani, uniti solo dall’amore per questo paese e dalla voglia di riformarlo. Ci appelliamo a tutti gli egiziani per realizzare un solo obiettivo: risvegliare questo popolo, fermare l’ingiustizia ed eli-minare la banda corrotta e dittatoriale. […] Cosa vogliamo? Vogliamo ciò su cui tutti gli intellettuali e le forze politiche concordano e cioè la necessità per l’Egitto di un periodo di transizione in cui il potere passi in mano ad un personaggio pubblico o a un gruppo di modo che si possa preparare il clima per un governo democratico. Come ottenerlo? Con due metodi paralleli: 1.Trovare una buona alternativa la cui possibilità il governo dispotico ha negato in tutti questi anni, che sia la testa di ponte nella battaglia della trasformazione democratica dell’Egitto; 2. Ridare alla popolazione egiziana la fiducia nella possibilità di poter decidere il proprio de-stino e spronarla alla partecipazione per poterlo definire. Il movimento utilizza la resistenza pacifica, la guerra non violenta e il nostro obiettivo è il cambiamento pacifico”.

Ecco dunque una nuova lista di giovani che farà carriera in politica. Le credenziali ci sono tutte: lotta pacifica, non violenta, democratica, nazionale. Presto, quando la nazione e lo Stato chiameranno, li troveremo in prima fila: posto ce n’è nelle amministrazioni pubbliche e soprattutto nell’eser-cito, “gloria dell’Egitto”, che dopo le batoste subite da parte di Israele si è talmente impigrito che da più parti si grida allo scandalo, per colpa degli aiuti americani.

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Non parliamo poi della troupe di Facebook, di Google, di YouTube, dello sciame di studenti che durante la rivolta gironzolava per le strade, per i quartieri proletari e le piazze, a scattar fotografie da piazzare su Internet. Le ditte, il mercato (di telefonini, computer, iPod), testavano così l’orgoglio nazionale ed economico dei giovani clienti che si faranno ben presto strada: sempre che quell’esercito, quella patria da loro esaltate, gli diano il tempo di crescere. Figura di alto rilievo tra questi è il fondatore della pagina di Facebook in Egitto, che si trova a recitare la doppia parte di responsabile delle violenze e collaborazionista (a detta di alcuni). Dice di sé ai giornalisti che lo intervistano dopo 12 giorni di detenzione: “Io non sono un eroe, io scrivevo solo al computer. Ero il portavoce. Ci sono persone che si sono trovate faccia a faccia con la morte. Sono loro i veri eroi”. E poi, pian-gendo: “Noi non siamo al servizio di alcuna agenda, c’è gente fra noi ricchissima, vi-viamo in case bellissime, abbia-mo macchine all’ultimo grido. Personalmente non ho bisogno di niente da nessuno. Tutto quello che facevamo ci metteva in pericolo, quanto grande nessuno lo sa. Ma ci siamo detti: che sia, combattia-mo. Riprendiamoci quello che ci spetta, questo è il nostro paese. Se fossi un traditore, ora mi troveresti nella mia villa negli Emirati a divertirmi e a vivere la mia vita con l’ottimo stipendio che ho. Direi: vada in malora l’Egitto. Questo non è il mio paese. E’ il loro”.

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Questo è uno spaccato delle ideologie “liberali” dei nuovi protagonisti, che i giornali del mondo intero hanno messo in primo piano. Pericolosi? Suvvia! La grande borghesia, che nessuno in Egitto ha meno che mai sfiorato, ci ride sopra e dopo un piccolo buffetto sulle guance potrebbe dire loro: “Avevamo proprio biso-gno di questa nuova generazione, della vostra giovanile esuberanza e delle vostre… illusioni. Grazie!”. La rivista da cui abbiamo tratto i brani (Limes, n°1/2011) ci fa un pienone di pagine e consegna queste figurine alla storia romanzata. A seguito dell’intervento di queste sottoclassi, la rivolta proletaria si ritrova davanti, ancora in piedi, gli e-serciti egiziano e tunisino, i restaurati corpi di polizia e i sindacati, cui si dà ora mandato di riportare i lavoratori nelle fabbriche-galere. Riusciranno a liberarsi della speculazione, delle cricche, del malaffare, contro cui hanno preteso di lottare? Ci vorrebbero scope d’acciaio: per adesso, cessata l’esplosione proletaria, ci si potrà contentare di una riverniciata. Nel frattempo, l’immensa massa di piccola e media borghesia, sognando i prossimi sorprendenti sviluppi del Pil, della crescita industriale, commerciale e finanziaria, non aspetta altro che di essere impiegata. E tuttavia mala tempora currunt, son tempi duri: altro che finita, è appena cominciata. La crisi continuerà per molto tempo a mietere le sue vittime e tra queste, non ultime, la stessa piccola e media borghesia che ha gridato oggi al miracolo.

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Diamo ora uno sguardo all’altro settore politico, a quello di sinistra (lo facciamo sulla base di quanto scrive Il Manifesto del 10 maggio 2011, da cui traiamo anche tutte le citazioni). Lasciati da parte i Fratelli mussulmani e il vecchio partito di Mubarak, il Partito nazionale Democratico, il mondo delle forze politiche delle cosiddette sinistre egiziane è altrettanto colorato di promesse elettorali. La loro conferenza del 10 maggio 2011 si è posta, infatti, nell’ottica di “proteggere la rivoluzione” (sic!) del 25 gennaio. In perfetto stile democra-tico moderno, le forze (elettorali) si sono incontrate per esibire la propria candidatura davanti alla stampa e indivi-duare le possibili alleanze. La preoccupazione, hanno dichiarato durante la conferenza stampa, è che, mentre si prospetta un’alleanza delle forze liberali e laiche in contrapposizione al partito dei Fratelli mussulmani, la frammentazione delle forze di sini-stra, che si sono formate nel corso della rivolta contro Mubarak, è massima. C’è di tutto e di più (lo sciame di insetti pregusta già lo zuccherino parlamentare): il Partito democratico dei Lavoratori, il Partito democratico socialista, il Partito socialista rivoluzionario, tutti di formazione recente, che si aggiungono al vecchio partito Tagammu (il Partito Unionista Progressista nazionale, accreditato come parte della sinistra egiziana e tollerato dal regime di Mubarak per il suo annacquato “socialismo”, innestato sulla tradizione repubblicana e panarabista e considerato da sempre come una costola del partito al potere), che pur dissociatosi dalla rivolta, più o meno come i Fratelli mussulmani, vorrebbe rientrare in gioco, e infine il Partito comunista egiziano (nato nel 1922, in clandestinità dal 1924 al 1960, scioltosi in quell’anno e rinato nel 1975), il più organizzato a sinistra, emerso dalla illegalità proprio durante le mani-festazioni e il 1° Maggio a piazza Tahrir. A questa moltiplicazione di pani e pesci, di vecchi e nuovi figuranti, si è unito e ha fatto il suo primo Congresso a maggio un altro raggruppamento, l’Alleanza popolare socialista, che s’è unita al coro, caratterizzandosi per un programma che prevede: “Un forte ruolo dello Stato, fine del liberalismo in economia e del programma di privatizzazioni e proprietà collettiva dei mezzi di produzione” (sic!).

La conferenza stampa ha dimostrato soprattutto grande sconcerto per le norme fissate dal Consiglio Supremo delle Forze armate in previsione delle elezioni di settembre, che prevedono l’obbligatoria fissazione del numero di tesserati per raggruppamento (5.000) per partecipare al voto. La preoccupazione di tutti è stata chiara: “la riorganizzazione della sinistra egiziana è neces-saria per dare un contributo allo sviluppo del paese, costruire ponti tra i vari settori della società e limitare le divisioni alimentate dalle religioni. […] Per essere credibili e inseriti nel tessuto sociale dobbiamo unire le forze politiche con programmi e ideologie simili. Andare al voto di settembre divisi in tanti partiti sarebbe un suicidio”. La possibilità che i Fratelli mussulmani, secondo le previsioni, possano ottenere il 50% dei seggi in parlamento è vista dai più come la più grande jattura, un’estorsione del significato della lotta, anche perché essa si è svolta quasi del tutto senza la loro presenza. “I partiti marxisti propongono un Egitto con ‘diritti per tutti, giustizia sociale e parità fra uomo e donna’, ma questi programmi resteranno dei pezzi di carta se andranno al potere le forze conservatrici; l’unità tra laici e socialisti non è solo una possibilità da considerare, ma un obbligo”. Il rappresentante del Partito comunista egiziano, sicuramente vecchia volpe stalinista, non si smentisce e propone un patto “comunislamico” sui temi della giustizia sociale e del lavoro. E aggiunge: “Spero che la sinistra riveda alcune sue posizioni troppo ideologiche e faccia i conti con l’Egitto che abbiamo davanti agli occhi, non serve a molto avere uno o due deputati nel nuovo Parlamento quando il paese rischia di precipitare all’indietro”.

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Le centinaia di morti, i cadave-ri per le strade, sono scomparsi, non c’è più traccia di loro. Delle carceri strapiene di proletari, alimentate dalla mi-seria, si è persa la memoria. Le lotte per il pane e l’assalto ai forni, l’inflazione, il controllo sociale, la repressione, i salari di fame, la corruzione: spariti. La “festa della liberazione” oggi riunisce la variopinta efflorescenza di destra e di si-nistra, giovanile e stravecchia, in attesa delle elezioni di settembre. L’obiettivo comune è di coprire con strati di duro basalto le cause vere della rivolta iniziale: lo sfruttamento di una classe che ha tentato, nella solitudine ancora dominante, di strapparsi di dosso le catene.


Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2011)

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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