DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nella prima parte di quest’articolo, comparsa nel numero scorso di questo giornale, avevamo richiamato alcuni punti fermi della dottrina marxista in tema di protezionismo e liberismo. Li riportiamo sinteticamente qui di seguito.

Il protezionismo è connaturato al capitalismo fin dalle origini. Consentendo la creazione di un mercato interno, esso ha costruito la serra entro cui hanno germogliato i semi dell'industria nazionale che sarebbe stata soffocata sul nascere senza il sostegno dello Stato borghese, dei dazi, del debito pubblico: sotto questo aspetto, esso ha svolto una funzione storicamente rivoluzionaria, contribuendo allo sradicamento violento dei rapporti feudali. Nella fase successiva, il protezionismo si converte in generale in strumento di conservazione degli equilibri sociali: intervenendo sui prezzi, esso attenua gli effetti della concorrenza internazionale sui sistemi produttivi nazionali e concorre al mantenimento di condizioni salariali relativamente stabili, alla creazione di un'aristocrazia operaia, alla sopravvivenza di ceti altrimenti destinati a scomparire sotto la pressione dei moderni sistemi di produzione basati su rapporti pienamente capitalistici (contadiname, mezze classi). La coesione sociale e politica interna è fattore indispensabile alla conquista dei mercati esteri, che a sua volta la rafforza, consentendo di utilizzare così una parte dei profitti che ne derivano ai fini della pace sociale.

Se è vero che, senza il rapporto organico con lo Stato nazionale, il capitalismo non avrebbe potuto affermarsi come sistema generale di rapporti economici e sociali, è altrettanto vero che la sua stessa origine (1) è connessa all'apertura dei traffici internazionali e alla creazione di un mercato mondiale fin dal XVI sec. Storicamente, essa crea le condizioni per la piena sottomissione della nazione ai rapporti capitalistici, cui fa seguito il sostegno dello Stato alla conquista dei mercati esteri, alla predazione delle risorse, alla riduzione delle popolazioni coloniali in manodopera salariata (si veda a proposito Il Capitale, Libro Primo, “La teoria moderna della colonizzazione”).

Nel suo evolversi determinato dalla dinamica della concorrenza, il capitalismo, distrutti i vecchi rapporti sociali entro i confini nazionali, sviluppa pienamente i rapporti borghesi fino alla concentrazione della produzione in pochi grandi gruppi monopolistici. Nella fase imperialistica, lo Stato si fa agente degli interessi delle concentrazioni finanziarie e industriali nazionali per la conquista dei mercati esteri, il controllo dei flussi di materie prime, dell'energia e delle sue fonti, in competizione con gli omologhi gruppi dei capitalismi nazionali concorrenti. Il protezionismo è dunque uno degli strumenti a sostegno del capitale nella competizione internazionale, in un quadro che si può chiamare “di concorrenza” se vi comprendiamo non solo i fattori immediatamente economici che convergono a determinare i prezzi, ma anche quelli politici, quali il ricatto politico militare e la violenza diretta.

Lo svolgersi di questa fase aggressiva, che procede storicamente dalla “politica delle cannoniere” di metà Ottocento al crollo, dagli anni Ottanta in poi, degli ultimi muri che impedivano la piena e libera circolazione dei capitali e delle merci su scala planetaria, ha portato alla completa sottomissione del mondo alle leggi capitalistiche e alla sua integrazione in un unico spazio mercantile. Un risultato storico che l’ideologia neoliberista ha raccontato come definitiva affermazione del mercato, ma che Marx ed Engels avevano già descritto con potente sintesi nel Manifesto del Partito Comunista del lontano 1848, caricandola di ben altre implicazioni.

In questa seconda parte, ripercorreremo sommariamente i precedenti storici che hanno visto l'alternarsi di fasi di integrazione dei mercati e di contrazione del commercio mondiale come conseguenza della crisi del meccanismo di accumulazione e dell'accentuarsi della competizione tra imperialismi. Quindi, ci soffermeremo sui segnali del profilarsi di una prossima deriva protezionistica, in cui gli imperialismi concorrenti si fronteggeranno a colpi di sanzioni, dumping e ricorsi al WTO, sulla fine del multilateralismo e sulla tendenza ad aggregazioni di area, presupposti dell'aperto conflitto politico militare come unica via d'uscita possibile (per il capitale) dalla crisi di sovrapproduzione.

 

1. Continuità del protezionismo nell'alternarsi di fasi di espansione e contrazione del commercio mondiale

Perfino i manuali economici riconoscono che il protezionismo costituisce la regola, il liberismo l'eccezione, e che non vi fu mai nella storia un periodo di generale liberalizzazione degli scambi. La questione si pone storicamente solo con il capitalismo, con la formazione di un mercato mondiale e con lo sviluppo dei trasporti che permette di superare gli ostacoli naturali al commercio. Il liberismo come corrente di pensiero nasce solo nel Settecento e si afferma politicamente in Inghilterra intorno al 1840 con l'abolizione del protezionismo agricolo e del Navigation Act, che riservava alla flotta inglese il commercio da e per l'isola. Con la crisi del secondo Ottocento, l'Inghilterra fu la sola eccezione (assieme alla Danimarca e, fino al 1887, al Regno d'Italia) alla generale adozione di politiche protezioniste. L'epoca del protezionismo “classico” coincide con quella dell'imperialismo studiato da Lenin (1873-1896). Nel 1873, i prezzi cominciarono a crollare colpendo le economie più aperte al mercato estero, e il protezionismo fu la risposta alla deflazione, caUSAta dalla crisi di sovrapproduzione mondiale agricola e industriale, legata sia ai progressi tecnologici (aumento delle rese grazie alla meccanizzazione) che ad una corsa agli investimenti e alla rivoluzione dei trasporti. Macchine, concimi e nuove varietà di grano permettevano di produrre a miglior costo nelle grandi pianure del Nordamerica, in Argentina o in Ucraina, e di trasportare a buon mercato tutto il prodotto per cargo o ferrovia. Il contadino francese e prussiano perdeva così il suo "vantaggio comparato" e chiedeva restrizioni all'import agricolo.

L’industria continuava la sua crescita, ma più lenta, dato che si era esaurita la fase legata allo sviluppo della rete ferroviaria e con essa cadeva la domanda di acciaio.

Lasciar fare alla mano invisibile del mercato avrebbe significato assecondare la trasformazione in senso industriale di molti paesi, specie Francia e Germania, con la conseguente rottura degli equilibri sociali, l'inurbamento di masse rurali, la trasformazione di milioni di contadini in operai, Così, a partire dal 1879 tutti i paesi che avevano intrapreso la via dell'industrializzazione, tranne la Gran Bretagna, presero misure protezionistiche, difendendo i loro produttori da importazioni a buon mercato. La Gran Bretagna dominava ancora sui mercati mondiali nel tessile e nel siderurgico, il suo capitale finanziario sosteneva tanto l'export quanto gli investimenti all'estero, nolo marittimo e assicurazioni erano al servizio dei traffici, l'agricoltura iniziava la sua trasformazione in senso capitalistico.

Il liberismo colpiva invece l'aristocrazia fondiaria minacciata dai cereali di importazione nei suoi interessi in campo agrario, ma questa aveva già ampiamente investito in industria e finanza e non era più una classe distinta dall'alta borghesia finanziaria-industriale.

La questione si poneva diversamente in Germania, dove gli Junkers (grandi proprietari terrieri) sostenevano il protezionismo a salvaguardia dei vecchi equilibri sociali nelle campagne. Bismark perseguì l'alleanza tra Junkers e borghesia industriale, i cui interessi però, in materia di protezionismo, erano esattamente opposti (2). Negli USA, solo le importazioni industriali furono sottoposte a diritti doganali, e i piccoli agricoltori, costretti a comprare da settori protetti e a vendere su un mercato libero, ne pagarono le conseguenza maggiori, trovandosi contro sia gli interessi degli industriali sia quelli degli operai.

Le reazioni protezionistiche di fine secolo annunciano la conclusione della fase iniziata nel 1840, che si caratterizza per un'espansione senza precedenti del commercio internazionale, sotto la spinta data dal capitalismo alla produzione e all'innovazione in tutti i settori, dai trasporti alle comunicazioni, agli oggetti di consumo. Il livello raggiunto dalle esportazioni mondiali di merci in percentuale del prodotto lordo mondiale (7,3%) fu eguagliato solo alla fine degli anni Settanta del Novecento.

Alla fine del XIX secolo, già esisteva un mercato finanziario globale, con epicentro Londra, sostanzialmente libero da restrizioni e dotato di grande efficacia nel raccogliere e collocare capitali da tutto il mondo per investirli nelle attività più disparate. Negli ultimi trent'anni del secolo, le migrazioni verso l'America interessarono il 12% della popolazione europea (3). La prima guerra mondiale interruppe bruscamente quella fase espansiva e nella fase d'interguerra la crisi del '29 pose fine ai processi di integrazione finanziaria e commerciale riavviati tra USA ed Europa (Germania in particolare).

A seguito di quella crisi, numerosi governi – Inghilterra compresa – fecero ricorso a misure protezionistiche, attraverso aumenti delle tariffe all'import (in USA con la Smooth-Hawley Tariff Act del 1930) e svalutazioni competitive. Quelle misure accentuarono la contrazione dei flussi commerciali internazionali, che tra il 1929 e il 1933 scesero del 66%.

Nel secondo dopoguerra, fino agli anni Sessanta, gli USA, in posizione dominante sui mercati mondiali, sostennero l'apertura dei mercati alle merci e ai capitali, e allo scopo promossero la creazione del GATT e del FMI. Dalla fine degli anni Sessanta e soprattutto dalla metà del decennio successivo (crisi del '74-'75), il protezionismo riprese vigore sia in forme tradizionali (tariffe, dazi, contingentamenti) che in quelle meno palesi delle barriere non tariffarie, non vietate dalle normative GATT o da queste limitate a casi specifici. Si aprì così la fase del cosiddetto neoprotezionismo. Rientravano tra le nuove barriere i VER (Voluntary Export Restrains, accordi di limitazione all'export) adottati soprattutto dai produttori di auto giapponesi nei confronti del mercato USA, le quote all'importazione, i monopoli di Stato e altre. A metà degli anni Ottanta, queste restrizioni interessavano il 16% delle importazioni dei paesi industriali. La forma più diffusa di neoprotezionismo era diventata il ricorso alle cause antidumping e antisussidio, limitate dagli accordi internazionali a singoli casi e in realtà largamente utilizzate (4).

L'onda liberalizzatrice, iniziata approssimativamente a metà degli anni Ottanta, con la piena libertà di movimento dei capitali, la delocalizzazione, l'esplosione dell'export cinese, si è conclusa con la crisi in atto, e ne è stata un fattore di accelerazione. Segnali di ripresa del protezionismo hanno attraversato tutto l'ultimo decennio, e dopo la crisi del 2008 si sono fatti via via più numerosi.

 Ciò “preoccupa” gli studiosi di economia, secondo i quali per rilanciare l'economia mondiale va evitata la “cattiva politica” del protezionismo. Basterebbe dunque, per questa “congrega di sapientoni”, non farsi attrarre dalle sirene dl protezionismo che hanno ripreso a cantare alla grande, per superare una crisi di cui nessuno di loro dimostra di capire granché. Dovrebbero infatti spiegare come può una crisi di sovrapproduzione risolversi... aumentando la produzione, in un mercato che ristagna nonostante il credito (dopo lo scoppio, tutto ripiegato su se stesso a gonfiare nuove bolle), né con stimoli statali che non potranno essere prolungati oltre un certo limite, pena un indebitamento pubblico fuori controllo e votato alla bancarotta, né con l'aumento della produttività, che vuol dire mandare sul lastrico altri milioni di proletari espulsi dalle fabbriche, ad ingrossare la massa dei dannati senza lavoro, e a intensificare lo sfruttamento dei dannati nei luoghi di produzione (Pomigliano insegna). Difficile ammettere, per tutti costoro, che non c'è soluzione che non sia di corto respiro, perché equivarrebbe a riconoscere che il capitale è giunto al limite storico. Ecco allora che per tutti lo sport è prendersela col protezionismo – mostro antiliberista per eccellenza – come se fosse quello il freno alla ripresa a pieno regime della macchina tritatutto e sputamerci a go-go. Anche dopo la crisi del '29, un migliaio di economisti si oppose inutilmente alla ripresa del protezionismo, e altrettanto contano oggi le “opinioni” unanimistiche dei free traders: zero. Se il protezionismo come indirizzo politico dovesse in effetti generalizzarsi, ciò sarebbe risultato, non causa, dell'aggravarsi della crisi, e dell' impossibilità di mantenere i precedenti assetti mondiali nei flussi di merci e di capitali. Ma sarebbe solo la conferma della regola, non l'eccezione. La tendenza protezionistica è connaturata alla dimensione necessariamente nazionale del capitalismo e continua ad agire in tutto il suo percorso storico, con fasi di maggiore o minore intensità in ragione delle posizioni di forza nei rapporti internazionali, delle fasi di crescita e contrazione dei commerci e in definitiva della contraddizione ineliminabile tra la dimensione nazionale del Capitale e la sua spinta a superarne i confini.


2. Contrazione del commercio mondiale post-crisi

Nel quarto trimestre 2008, subito dopo il manifestarsi della crisi finanziaria, riflesso della crisi di sovrapproduzione di merci e capitali, l'interscambio mondiale era sceso del 6% sul trimestre precedente. Il 2008 si era chiuso con l'interscambio tornato ai livelli della metà del 2006.

Il grafico che segue (Figura A, dal Bollettino Bce, marzo 2009), relativo ai volumi degli scambi mondiali di merci con base 2005=100 (dati mensili), evidenzia un iniziale rallentamento nel primo trimestre 2008 e poi una caduta verticale.

Il grafico successivo mette in evidenza lo stesso andamento riferito alla produzione industriale e ai volumi delle importazioni mondiali (Figura B, dal Bollettino Bce, marzo 2009).

 


 

 

La contrazione è stata determinata dalla minore domanda globale di beni di investimento (principalmente semilavorati) e consumo (soprattutto durevoli), che hanno un alto contenuto di beni importati .

Nel corso del 2009, secondo dati WTO, la contrazione del commercio mondiale è stata attorno al 10%, molto superiore di quella prevista, più alta percentualmente di quella del 1930 (- 4% ca.), come si vede dalla seguente tabella.

 

Andamento del commercio mondiale (in milioni di $ USA, prezzi 1934) di esportazione e importazione:

1929: 61.000

1930: 58.400 (- 4%)

1931: 47.600

1932: 37.600

1933: 37.400

1934: 37.047  

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( Da “Il corso del capitalismo mondiale nell'esperienza storica e nella dottrina di Marx”, Il programma comunista, n.22/1957)

 

La caduta si è accompagnata alla restrizione del credito commerciale, soprattutto nei paesi emergenti in Asia; all'affacciarsi della crisi, i capitali internazionali hanno infatti rapidamente imboccato la strada del rientro verso i centri finanziari europei e americani.

Il rallentamento dell'interscambio dell'area Euro, tra settembre 2008 e febbraio 2009, è stato dell'11% per le importazioni e del 21% delle esportazioni, ed ha riguardato soprattutto i beni di investimento e intermedi che coprono circa il 70% dell'interscambio dell'area con l'estero.

I commenti degli “esperti” attribuiscono in genere le cause alla contrazione della domanda e all'aggravante della contrazione del credito. Anche in questo caso, come per il protezionismo, per loro gli effetti diventano le cause, e di conseguenza la parola d'ordine è stimolare la domanda e sostenere il credito (salvare le banche, abbassare il tasso di sconto, aumentare la liquidità). Ma se il mercato mondiale si impaluda, è per un eccesso di capacità produttiva globale. L'apparato produttivo planetario lavora al 60,70% delle sue capacità, e sul rilancio dei consumi grava l'indebitamento delle famiglie americane e di altri paesi occidentali che non sono più in grado di supportare con i loro acquisti una ripresa della produzione globale: si calcola che nella sola Europa già nel 2005 si producessero 7 milioni di auto in più rispetto alle potenzialità del mercato (negli USA 6 milioni) e ancor prima della crisi risultavano sovradimensionati settori portanti come il petrolchimico, la raffinazione e la cantieristica, e anche alcuni servizi, ad esempio molte compagnie aeree, pagano un eccesso di capacità strutturale (5).

 

Ciò significa che è in corso un eccezionale ridimensionamento, una distruzione enorme di capacità produttiva, di mezzi di produzione e capitale, che non potrà non avere effetti ulteriori sui livelli di disoccupazione e sulla cosiddetta “stabilità sociale” e che, sulla base di una più elevata composizione organica, accelererà la tendenza alla caduta del saggio medio del profitto.

 

3. Ripresa del protezionismo e nuova organizzazione globale della produzione

La portata dell'attuale spinta al protezionismo non è facilmente misurabile, sia per la difficoltà di reperire dati sistematici sul periodo precedente, sia per l'esistenza di barriere non tariffarie di sostegno, in forme le più diverse e difficili da individuare, alle produzioni nazionali o locali. I dati più recenti del Global Trade Alert (riportati su Il Sole 24 Ore del 25/6/2010) quantificano in 689 le misure protezionistiche di vario tipo prese nel mondo da novembre 2008 a metà 2010, di cui 459 ad opera di Paesi del G20 – quegli stessi che nel summit del 2008 si erano solennemente impegnati a non adottarle e che in occasione dell'incontro di Toronto hanno accolto senza difficoltà (in ossequio all'ipocrisia multilateralista) la proposta canadese di prolungare l'impegno al 2013, a riprova della distanza abissale fra chiacchiere diplomatiche e fatti (6).

I dati segnalano in effetti il riaccendersi di una tendenza protezionista, anche se non ha ancora assunto il carattere generale di quella degli anni Trenta del Novecento. Le iniziative antidumping dei paesi del G20 non sono aumentate nei primi sette mesi del 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008 e non sono mancate misure di liberalizzazione, per quanto inferiori a quelle di segno opposto. Il grafico successivo (Figura C) indica una diminuzione delle misure restrittive del commercio dopo i picchi di marzo e maggio 2009, coincidenti con i salvataggi di compagnie finanziarie.

 

Figura C: Numero di misure commerciali implementate e numero di paesi che le hanno implementate (istogrammi: paesi discriminatori e liberalizzatori; linee: misure discriminatorie e liberalizzatrici)

 

Fonte: Elaborazione su dati del Global Trade Alert (tratto da lavoce.info, “La crisi del protezionismo” del 2.02.2010)

 

L'assenza del ricorso generale al protezionismo aperto, che fu invece caratteristico degli anni Trenta, dipende in parte dall'esistenza oggi di strumenti di relativa tutela del mercato del lavoro che allora non esistevano, e che hanno permesso di attenuare, almeno finora, l'impatto della crisi sul livello della disoccupazione e sulle possibilità di una ripresa dello scontro di classe.

Le ragioni della relativa tenuta dell'apertura al commercio estero sono da attribuire soprattutto alla struttura della produzione mondiale, oggi assai più integrata che negli anni Trenta, che fa sì che le produzioni nazionali, anche soltanto rispetto a vent'anni fa, dipendano assai più dalle importazioni di semilavorati (che costituiscono il grosso dell'interscambio mondiale). Questo stesso fattore spiega i motivi di una caduta del commercio mondiale così rapida e sincronizzata .

 

Un altro aspetto è legato al ricorso alla delocalizzazione produttiva da parte non solo delle classiche multinazionali, ma anche da parte di un numero crescente di aziende trasformatesi in altrettante mini-multinazionali con sedi all'estero. Tutto ciò ha attribuito alla produzione industriale mondiale un carattere sempre più orizzontale e transnazionale, che riduce vantaggi ed efficacia di interventi protezionistici generalizzati (7).

 Nel periodo 1990-2006, i dazi sono diminuiti sia nelle principali economie avanzate sia in quelle emergenti (BRIC) dove sono rimasti più elevati, ma con il differenziale in calo. Ma poiché i dazi sono sottoposti a limitazioni dal WTO, le iniziative protezionistiche, come già detto, assumono spesso altre forme più difficilmente controllabili: sussidi all'export, sostegno ai produttori locali contro la concorrenza estera. Anche queste forme, comunque, nel periodo considerato sono rimaste sostanzialmente stabili (Cfr. Bollettino Bce, febbraio 2009, pag.95).

 Dallo scoppio della crisi, la situazione si è andata evolvendo verso una intensificazione delle iniziative mirate in vario modo a sostenere le produzioni nazionali. Forme di protezionismo più o meno nascosto sono implicite negli interventi pubblici anticrisi. All'interno della UE gli interventi sono stati pari al 3-4% del Pil dell'area, ma frammentati tra gli Stati (8). L'esplosione degli aiuti pubblici alle imprese nazionali, già messi al bando per 20 anni dall'Antitrust europeo, indica che la crisi sta in effetti disgregando la fragile unione monetaria, duramente colpita dalla speculazione che per ora ha attaccato il debito pubblico greco minando la stabilità dell'intera area Euro, e che continua ad aleggiare come un corvo su un numero crescente di Paesi a rischio default.

Contemporaneamente, sono cresciute le iniziative pubbliche connotate in senso protezionistico (9). La clausola "Buy American" è stata probabilmente l'annuncio in tal senso di cui si è più parlato nel corso del 2009, ma ha anche rivelato la contraddittorietà degli indirizzi politici in materia economica. Se da un lato la spinta al protezionismo è forte, dall'altra è altrettanto forte il freno all'adozione di misure generalizzate, vuoi per il rischio di ritorsioni vuoi per il carattere transnazionale della catena produttiva. La clausola era contenuta nel “piano Obama” di provvedimenti anticrisi: gli 850 miliardollari di investimenti pubblici dovevano servire solo ad acquistare prodotti Made in USA, a sostegno soprattutto dei produttori di acciaio nazionali, le cui lobbies spingevano perché i soldi andassero a sostegno dell'offerta più che della domanda (gli USA importano il 30% dell'acciaio dalla Cina). La clausola avrebbe dovuto poi estendersi a tutti i manufatti oggetto di commesse pubbliche del piano di investimenti anticrisi (in violazione agli accordi WTO sugli appalti pubblici dell'Uruguay Round del 1995, sottoscritti anche dagli USA). Gli effetti del provvedimento, secondo uno studio del Peterson Institute, avrebbero sì salvato 9000 posti di lavoro "American", ma le probabili ritorsioni sarebbero costate 32000 posti causa la contrazione dell'export USA, nel caso in cui i paesi concorrenti avessero reagito con l'esclusione delle imprese USA dal 15% delle commesse pubbliche. Va considerato anche l'aumentato costo dell'acciaio per gli stessi produttori USA che lo acquistano come semilavorato. Si conferma così che l'ostacolo maggiore al ricorso aperto al protezionismo sta proprio nel primato, nel volume degli scambi internazionali di manufatti, dei semilavorati, il cui aumento di prezzo va a caricare il costo del capitale costante e incide sul saggio del profitto (non era nemmeno chiaro se la clausola valesse anche per l'outsourcing USA, ma c'è da dubitarne; in ogni caso, la questione si faceva complessa anche per l'aspetto non secondario della delocalizzazione).

 Le minacce di ricorso al WTO da parte di UE e Canada indussero gli USA ad ammorbidire le posizioni. Le critiche europee trovarono alleati nella grande industria statunitense, decisa a far sparire la misura dalla proposta di legge finale. Fra le aziende che si erano esposte figurano alcune importanti multinazionali come la General Electric e la Caterpillar. Entrambe scatenarono le loro lobbies a Washington per convincere i parlamentari americani a cambiare idea.

 Sempre in tema di acciaio, nel corso del 2009 si è profilato anche il contenzioso tra Cina e UE. Uno studio dell'Eurofer (Associazione europea del ferro e dell'acciaio) di inizio 2009 accusava il dumping cinese sull'export di acciaio (con agevolazioni fiscali, prestiti sovvenzionati, interventi nei mercati di capitali) di essere all'origine della trasformazione di quel paese da importatore netto a primo esportatore mondiale, col 20,7% della produzione globale e il 36% dell'acciaio grezzo. Dal 2004 al 2007, la produzione cinese di acciaio grezzo è salita da 1 milione di tonnellate a 11 milioni e continua a crescere (+20% a maggio 2010 su maggio 2009). Per contro, la siderurgia UE lavora attualmente al 40% della potenzialità e l'export italiano di acciaio da gennaio 2008 a gennaio 2009 è calato del 30%. Più della pressione internazionale, è l'eccesso di capacità produttiva in alcuni settori a spingere la Cina a limitare il sostegno all'export; il raddoppio nei primi cinque mesi di quest'anno dell'export cinese di prodotti siderurgici ha indotto il governo ad annunciare la fine delle agevolazioni fiscali da luglio 2010.

 Che la spinta all'adozione di misure protezionistiche sia assai forte ovunque e su vari fronti (10) è confermato dal fatto che nello stesso periodo in cui si proponeva la clausola “Buy American”, il governo francese si muoveva nella stessa logica di quello USA annunciando la possibilità di legare lo stanziamento di fondi al settore auto al ricorso all'indotto francese, che occupa 2,5 milioni di addetti, ed esprimendosi contro le delocalizzazioni verso l'Europa dell'Est delle fabbriche francesi di auto.

 I sindacati europei e statunitensi sono tra i più attivi difensori delle prerogative delle rispettive economie nazionali, scoraggiando le lotte che potrebbero danneggiarne la competitività e, laddove esplodono con più forza, lavorando al loro contenimento: in una logica prettamente nazionalistica, invocano la priorità del mantenimento delle produzioni in patria. La vicenda dell'accordo di Pomigliano è a questo proposito emblematica: con il ricatto della delocalizzazione, si costringono gli operai ad accettare orari bestiali e salari da fame. Se, negli USA, i razzisti del sindacato Coalition for American Workers chiedono apertamente che l'immigrato ispanico se ne torni a crepare in miseria a casa sua, i nostri sindacati democratici e multietnici chiedono “lavoro” per gli operai in Italia, a qualunque prezzo. In Italia, il lavoro costa meno che in Polonia e non si sciopera! E' questo l'unico destino possibile della miserabile richiesta di mantenere in patria i “posti di lavoro”: più sfruttamento e più miseria per tutti, mentre l'unica prospettiva realistica è oggi più che mai l'unione del proletariato mondiale... Non c'è “protezionismo” che tenga nemmeno sul mercato del lavoro, quando salario e condizioni di lavoro dell'operaio italiano sono messi a diretto confronto con quelli dell'operaio polacco, cinese, russo, coreano, brasiliano. Questa base materiale della divisione del proletariato – il differenziale salariale – è messa in crisi dai grandi scioperi operai in Cina che annunciano il livellamento tendenziale del salario operaio mondiale, mentre inizia a manifestarsi la consapevolezza del ricatto cui il proletariato è sottoposto in ogni angolo del pianeta.

Vedi anche:

                                                                                                            

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2010)

                                                                                                                                             

 

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