DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Una serie di fatti recenti, sgranati lungo l’arco dei mesi e delle settimane tra 2009 e 2010, proclama una volta di più il fallimento del capitalismo e di tutte le ideologie che vorrebbero riformarlo, renderlo più umano e sostenibile, sempre (per carità!) conservandolo in vita. Lasciamo per il momento da parte (perché ne abbiamo già scritto e ancora ne scriveremo) l’evolvere della crisi economica, ben lungi dall’essersi conclusa come vorrebbero gli “esperti” borghesi, e il progressivo e sotterraneo gonfiarsi di altre bolle mostruose (dal debito pubblico ai futures, dalle materie prime ai credit default swaps, dai fondi sovrani ai titoli tossici ancora abbondantemente circolanti), che non tarderanno ad esplodere con effetti ancor più distruttivi di quelli che hanno caratterizzato il 2008-2009. Soffermiamoci invece in particolare su alcuni altri aspetti.

Innanzitutto, è evidente l’incapacità politica di tutti i governi (di destra, di “sinistra”, di centro, in questo o quel paese) di far fronte alla crisi. Tutte le misure adottate – negli USA come in Cina, in Gran Bretagna come in Italia, ecc. – sono solo momentanei palliativi, e in realtà non fanno altro che accumulare ulteriore materiale esplosivo, limitandosi a spingere appena più in là nel tempo, e solo in qualche modo, la conflagrazione. Su questo scenario, è sempre più evidente l’affanno dell’imperialismo tuttora dominante ma da tempo in declino (quello USA), incalzato sia dai suoi concorrenti diretti (una Cina sgradevolmente necessaria, un’India che fa da terzo incomodo, una Germania che stringe accordi con la Francia a ovest e con la Russia a est, un Giappone intento a leccarsi le ferite dei propri disastri economici... ) sia da una disastrosa situazione interna che s’avvia a replicare la Grande Depressione degli anni ’30 (fallimento ormai di più di 140 banche, disoccupazione intorno al 10% ufficiale e al 17% reale, debito pubblico stratosferico, una riforma sanitaria destinata a rivelarsi altro fumo negli occhi per milioni di americani senza risorse... ). Dal canto loro, i concorrenti diretti degli USA in Asia ed Europa, sebbene abbiano momentaneamente reagito appena un po’ meglio degli altri alla crisi, procedono comunque a ritmi molto inferiori a quelli esaltati negli anni trascorsi, e sono comunque legati a filo doppio – in una dialettica che gli “esperti” borghesi non possono assolutamente vedere e comprendere – a una situazione che non conosce né compartimenti stagni né isole felici.

Quanto all’Europa, essa dimostra in maniera sempre più evidente il fallimento totale di ogni reale e credibile prospettiva di integrazione e creazione di un polo in grado di resistere alle “macchine da guerra” messe in campo dagli imperialismi più forti, nei confronti dei quali è il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro. Come entità economica e politica a sé stante, l’Europa infatti non esiste né potrà mai esistere, e non è certo bastata l’introduzione dell’euro come moneta unica a far uscire il coniglio europeo dal cappello del capitalismo mondiale. Già Lenin, nel 1915, dichiarava senza mezzi termini che “Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali ‘progredite’ e ‘civili’, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari” [1]. Da allora, l’imperialismo ha compiuto passi da gigante (soprattutto grazie a due guerre mondiali!) nel superamento della fase “puramente” coloniale della spartizione del mondo: a maggior ragione, la prospettiva degli “Stati Uniti d’Europa” risulta “o impossibile o reazionaria”. Impossibile, perché – come ancora Lenin ricordava – in regime capitalistico non si può spartire il mondo, od organizzarne la spartizione, “se non ‘secondo la forza’” (dunque, attraverso lo scontro armato fra capitalismi necessariamente in concorrenza), “non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico, né delle singole aziende né dei singoli Stati. [...] non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi nell’industria e o della guerra nella politica” [2]. Reazionaria, perché essa equivarrebbe se mai a un accordo temporaneo tra alcuni paesi, volto a contrastare l’ascesa di altre potenze economiche (preparando dunque conflitti di vasta portata), ma soprattutto a “schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa” – dunque, con funzione apertamente anti-proletaria e contro-rivoluzionaria.

Gli Stati Uniti d’Europa, l’Europa Unita, l’Unione Europea, “la pacifica federazione dei tanti storici Stati, così vari e diversi nelle loro vicende e nelle loro strutture, in continuo conflitto da secoli, sotto il reggimento feudale come sotto quello borghese, nel clima del dispotismo come in quello della democrazia elettiva”, sono dunque (come scrivevamo nel 1950 su quella che era allora la nostra rivista teorica) “un miraggio” [3] – un miraggio che nasconde la vera natura di quell’eventuale “accordo temporaneo”, che droga una piccola borghesia sempre pronta a farsi prendere per il naso e che mira essenzialmente a paralizzare il proletariato, se non con le idee, con l’aperta violenza poliziesca e repressiva – questa sì, unita.

D’altra parte, la realtà è sotto gli occhi di tutti. La situazione della Grecia (cui dedichiamo un articolo in altra pagina di questo stesso numero) e, in probabile prospettiva, quella della Spagna, entrambe chiuse nella morsa di una esplosiva crisi economica e (soprattutto la prima) sociale, dimostrano la correttezza di quest’analisi materialista. Tutta l’Eurozona è d’altra parte strappata da spinte centrifughe. Con la sua appendice austriaca, la Germania (seconda agli Stati Uniti in volume di esportazioni) ha stretto accordi con la Francia e con la Russia, si muove per controllare i corridoi di materie prime che viaggiano tra est e ovest (North Stream) e sempre più cerca un affaccio sul Mediterraneo (attraverso i Balcani, il legame forte con la Turchia, l’intervento come mediatrice nel campo minato medio-orientale). La Polonia e la Repubblica Ceca fanno da cuscinetto filo-USA tra Germania e Russia (e a esse potrebbe aggiungersi l’Ucraina, la cui candidatura alla Nato è apertamente osteggiata, non a caso, ancora dalla Germania). L’Italia continua la prassi tradizionale dei giri di valzer con gli Stati Uniti e con la Germania. La Francia cerca di proiettarsi fuori dei troppo angusti confini europei, provando a stringere rapporti con il Brasile e allargando la propria storica influenza in Africa (dove si scontra duramente con Cina e India)... In tutto ciò (e nelle tendenze future sempre più centrifughe), dove sta l’Europa? E’ ancora possibile illudersi – come fanno tanti riformisti... non allineati – di poter creare un polo alternativo in grado di competere unitariamente con Stati Uniti da una parte e India-Cina-Giappone (e altri “emergenti”) dall’altra?

In verità, il procedere per crolli vertiginosi della crisi economica, l’arrabattarsi dei singoli governi alla ricerca di una ricetta (o più ricette: tante quanti sono gli “esperti”!) per uscirne “definitivamente”, il declino degli Stati Uniti e l’acuirsi dei contrasti commerciali e strategici a livello mondiale, il protrarsi di guerre sanguinarie in aree critiche del globo, le spinte centrifughe in atto in Europa, e – in tutto questo scenario – il crescere vertiginoso della disoccupazione ovunque e l’ampliarsi drammatico della forbice, non solo fra “paesi ricchi” e “paesi poveri”, ma fra le classi sociali in termini di condizioni (e aspettative) di vita, la polarizzazione sempre più evidente di ricchezza e miseria all’interno delle singole nazioni, tutto dimostra il totale fallimento (economico, sociale, politico) del capitalismo.

Ora, questo fallimento (che data non da oggi: è da metà ‘800 che esso ha raggiunto il suo limite storico, trasformandosi in modo di produzione distruttivo e superfluo) va di pari passo con il fallimento di ogni ideologia mirante a riformarlo tenendolo in piedi. Il recente summit sul clima di Copenhagen ne è un esempio lampante. Il commento che ne offre il Corriere della Sera del 20 dicembre u. s. è illuminante: “Quello che è stato chiamato ‘Copenhagen Accord’ è un documento di nemmeno tre pagine, risultato di un processo di negoziati durato due anno e terminato con due settimane di iperbolica Conferenza nella capitale danese. Minimo nei contenuti: di concreto promette [?] denaro ai Paesi più poveri per aiutarli a mitigare le emissioni e adattarsi [!] alle catastrofi provocate dal climate change. Per il resto è generico.  Inoltre, non è vincolante [...] I punti lasciati fuori sono i più importanti: la portata dei tagli, sia per i Paesi sviluppati che per quelli in via di sviluppo; il tipo di accordo, decisivo per capire quali impegni formali prende ogni Paese; se e quando si potrà arrivare a un trattato vincolante (le speranze sono ufficialmente per il 2010 ma sembra molto improbabile, vista la distanza tra le parti). Anche l’accordo sulla protezione delle foreste, che sembrava cosa fatta, è stato ‘dimenticato’ dal documento”. Da parte sua, Le Monde dello stesso 20 dicembre rincara la dose, intitolando: “Lo scacco di Copenhagen, o i limiti del governo mondiale”, commentando sui “dodici giorni di psicodramma mondiale [...] sulle grandi dichiarazioni e sulle piccole manovre che hanno portato il summit dalla speranza alla disillusione”, e ricordando con amarezza che si trattava (ma guarda!) di prendere per le corna nientemeno che “il riscaldamento climatico – vale a dire, la preservazione dello stato del pianeta per le generazioni future”. Niente male, come fallimento!

La montagna ha dunque partorito un topolino cieco e paralitico. Non solo: il summit è stato piuttosto l’occasione per riaffermare, da parte di USA e Cina (gli amici-nemici superpotenti, il primo in declino, il secondo in ascesa), il proprio ruolo dominante: cosa che hanno fatto in maniera esplicita e arrogante, con la Cina che, rileva ancora Le Monde, “per motivi di competitività economica, [...] non intende imporre alle proprie industrie normative ambientali troppo restrittive [e] soprattutto non sopporta l’idea di un controllo internazionale a casa sua”; quanto a India, Brasile e Sud Africa, altre potenti economie emergenti, i tre si sono subito messi a rimorchio di USA e Cina; e di nuovo, l’Europa, entità fantasma, ne è uscita... cornuta e mazziata, incapace e impotente a far fronte a concorrenti così forti: emblematico il fiasco delle grandi manovre diplomatiche verso Brasile e Africa messe in campo da Sarkozy (si sa: la grandeur francese!), che non riesce a portare a casa nessun risultato... In realtà, più che di un summit sull’ambiente preoccupato del destino delle generazioni future, s’è trattato (a scorno di tutte le illusioni riformiste e ambientaliste, di creazione di istituti super partes) di un’altra tornata di abboccamenti sotto banco, di manovre fra le quinte, di tastamenti di terreno, fra banditi internazionali, chi più forte e chi più debole, chi armato di portaerei e chi di fionda, tutti attanagliati da una crisi economica che non cessa di far sentire i propri effetti, tutti impegnati a farsi le scarpe reciprocamente, e tutti alla ricerca di qualche “accordo temporaneo” (per dirla ancora con Lenin) prima di dover infine ricorrere alla guerra guerreggiata.

Ma il fallimento del capitalismo e delle varie illusioni di riformarlo non sorprende certo noi comunisti: sono cose che sappiamo dal 1848. Lavorare all’abbattimento del primo significa anche, necessariamente, lavorare alla neutralizzazione del nefasto e paralizzante influsso delle seconde sul proletariato.



 

[1] Lenin, “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa” (1915), in Opere scelte, Vol. II, pp.412-413. [back]

[2] Idem, p.413, 414. [back]

[3]United States of Europa”, Prometeo, n.14, 1950. [back]

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2010)

 

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