Dunque, la farsa elettorale si è consumata. Escono di scena i rappresentanti di una frazione della borghesia nazionale e vi rientrano quelli di un’altra frazione, tutti pronti a scambiarsi di nuovo di posto non appena lo richiedano le necessità del “controllo sociale”. Scompaiono poi le frattaglie di quell’altro schieramento di partiti e partitini che ha sempre nascosto dietro una vuota demagogia la propria unica smania di rimediare un posto (ben retribuito) al sole del parlamento borghese.

Con la caduta del secondo governo Prodi, si chiude la quindicesima legislatura durata appena due anni, la settima sciolta anticipatamente dal 1948 ad oggi. I proletari e la società italiana in generale sono stati chiamati alle elezioni politiche in media ogni quattro anni e – tra un’elezione politica e l’altra – per le elezioni comunali, di circoscrizione, provinciali, regionali, europee e infine per i referendum.

In sessant’anni di repubblica democratica e antifascista (sempre e solo capitalista), la classe dominante italiana ha sperimentato ben 54 tipi di governo, che per durata vanno dai nove giorni del “primo governo Andreotti” (“governo lampo”) ai cinque anni del “secondo governo Berlusconi”. Dotata com’è di fervida fantasia e immaginazione, la borghesia italiana ha inventato tutta una serie di formule, neologismi e metafore per designare questi governi e le maggioranze che li hanno sostenuti: “governo di centro”, “governo di centro-sinistra”, “pentapartito”, “governo lampo”, “governo balneare”, “governo dei tecnici”, “governo tecnico”, “governo degli onesti”, “governo del presidente”, “governo di solidarietà nazionale”, “governo di unità nazionale”, “con appoggio esterno”, “di non sfiducia”, “governo di decantazione”, “governo traghettatore”, “governo delle convergenze parallele”, “governo di transizione”, “governo di destra”, “governo di sinistra”, fino al “governo per le riforme” e al possibile, futuro “governo di grande coalizione”, in cui maggioranza e opposizione si mettono insieme per governare – e tutto in barba alle chiacchiere di cui si nutrono la democrazia e la politica elettorale (secondo cui i partiti politici o alleanze di partiti si alternerebbero al governo con programmi politici ed economici diversi).

E la democrazia?

Con la vittoria degli Stati imperialistici democratici su quelli fascisti alla fine del secondo conflitto mondiale, l’evoluzione delle democrazie occidentali, grazie all’apporto dei partiti stalinisti oltre che all’uso sempre più pervasivo dei media, ha reso da un lato sempre più pestifera l’atmosfera dell’imbonimento democratico e dall’altro sempre più sterile e di pura facciata il ruolo degli istituti rappresentativi (in primis il parlamento), mostrando ancora più chiaramente che negli anni ’20 del secolo XX l’inapplicabilità di una tattica di “parlamentarismo rivoluzionario”. Inoltre, le democrazie hanno ereditato dal fascismo sconfitto i suoi caratteri fondamentali: la sempre più accentuata centralizzazione statale, il controllo di settori sempre più vasti della vita economica e sociale, la costituzione di apparati finanziari e militari sopranazionali, l’inserimento sempre più evidente del riformismo politico e sindacale nei gangli dello Stato attraverso il finanziamento pubblico dei partiti e il riconoscimento giuridico dei sindacati, il ricorso periodico a forme nazional-popolari di propaganda e mobilitazione, l’abile uso del bastone e della carota... Non basta: questa progressiva “fascistizzazione” della democrazia si accompagna (il che è tutt’altro che una contraddizione) all’esaltazione – spinta fino alla demagogia – dei diritti, della libertà, della sovranità dell’individuo, che troverebbero la propria massima espressione nel voto – quindi, alla moltiplicazione e celebrazione rituali di simili appuntamenti. Si assiste insomma a due processi apparentemente antitetici, in realtà convergenti: svuotamento della democrazia borghese elettoralesca come fatto reale, sua continua apologia come fatto illusorio. E l’influenza di questo insieme di fattori sulla classe operaia è stata tanto più diretta e perniciosa proprio perché uno degli agenti più premurosi e servili nella diffusione del mito democratico è stato quello che si presentava come partito “comunista” (il PCI di Gransci, Togliatti, Longo e Berlinguer) e, proprio in virtù di questa “autoproclamazione”, godeva di un forte seguito fra le masse.

Quanto più il corpo sociale viene frammentato, atomizzato e disperso in individui-particelle, a loro volta schiacciate da enormi apparati statali, finanziari, militari, tanto più le particelle vengono vezzeggiate e incoraggiate a esprimere quello che si vuole sia il loro parere, alimentando in esse la sottile illusione che ciascuna, nel proprio io isolato, chiusa in sé e, per giunta, bombardata da mille e mille sollecitazioni contrastanti, sottoposta a pressioni e condizionamenti di ogni tipo, possa davvero farsi un quadro completo, chiaro, preciso, totale delle poste in gioco. E quindi, grazie all’occasione offertole della scheda, sia in grado di influire in modo decisivo sul corso degli eventi. D’altra parte, giungendo a compimento un processo già percepibile agli inizi del secolo scorso, la sede reale del potere economico e politico ha abbandonato il parlamento e le amministrazioni locali per trasferirsi definitivamente nelle camere di compensazione delle banche, nei consigli d’amministrazione delle industrie, delle multinazionali, nelle sale di riunione degli organismi finanziari internazionali. I parlamenti e le amministrazioni locali sono sempre più luoghi di ratifica di decisioni prese altrove, di chiacchiere e risse fra parlamentari, come può verificare chiunque abbia voglia e stomaco di seguire i vani discorsi che risuonano in aule per lo più vuote. Anche come pure e semplici tribune, casse di risonanza della lotta politica, e veicoli di propaganda di partito, hanno perduto ogni valore: sopravvivono esclusivamente come strumento di mistificazione e di imbonimento, oltre che di mediazione e spartizione fra gruppi e interessi dell’ordine costituito.

Lungi dal contribuire a prolungarne l’esistenza, valorizzandoli per ciò che storicamente non possono più dare neppure in via indiretta, i comunisti hanno quindi tutti i motivi non solo per disertare simili organismi e le procedure del loro periodico rinnovo, ma per denunciarli come strumenti fra i più perversi ed efficaci di conservazione dello status quo. Sono caduti uno dopo l’altro gli argomenti a favore di una tattica d’intervento, a scopi anche di sola propaganda, nelle elezioni e negli organismi legislativi o amministrativi; assumono forza tanto più persuasiva quelli a favore dell’astensione – un’astensione che non significa “disinteresse per la politica”, ma che al contrario assume i caratteri di un intervento attivo nella vita politica e sociale contro l’attacco del capitale, “fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco e a contatto con la classe operaia”.

Intanto, avanza la crisi che, prim’ancora di essere “finanziaria”, è crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, e nei prossimi anni non farà che approfondirsi, attaccando ancor di più le condizioni di vita e di lavoro dei proletari, indigeni e immigrati – e anche di coloro che si sono illusi che questo o quello schieramento potesse davvero “cambiare le cose”. Si profila così all’orizzonte l’unica soluzione nota al capitale per “risolvere” la propria crisi: la preparazione di una nuova guerra mondiale, che significherà sofferenze e morte per tutti.

Saranno i fatti materiali a far comprendere ai proletari:

 

 

  • che non è la via parlamentare e democratica quella che può rispondere alle necessità della loro sopravvivenza quotidiana;
  • che solo tornando alla lotta, aperta e senza quartiere, fuori e contro ogni logica politico-sindacale di “concertazione” e preoccupazione per l’economia nazionale, potranno alleggerire la crescente oppressioni sul luogo di lavoro e nella vita di ogni giorno;
  • che nell’atto di riprendere a lotta davvero si troveranno contro tutti i falsi amici della cosiddetta “sinistra”, i democratici e i riformisti, oltre allo Stato, rappresentante degli interessi superiori del capitale;
  • che questa lotta di resistenza da sola non può bastare, ma deve trasformarsi in lotta politica rivoluzionaria, mirante all’abbattimento del potere borghese e all’instaurazione della dittatura proletaria;
  • che per tutto ciò – per le lotte immediate come per la preparazione rivoluzionaria – è necessario l’organo politico rivoluzionario, il partito comunista.

 

Questo è l’ennesimo epitaffio parlamentare. Questa e solo questa può e deve essere la prospettiva dei comunisti.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2008)

 

 

 

 

 

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