Apprendiamo da “la Repubblica” del 31/01/2008 che, alla modica cifra di 70 milioni di euro (più 40 milioni di perdite per il fermo attività), lo stabilimento FIAT (ex AlfaSud) di Pomigliano d’Arco verrà ristrutturato per produrre i soliti nuovi modelli di automobile (ne sentivamo giusto la mancanza, nelle nostre strade scorrevoli e nelle nostre atmosfere d’aria pura). Fin qui niente di nuovo: solito lavoro di ingegneria tecnologica. Ma la grande novità c’è ed è nel campo dell’ingegneria gestionale, nell’organizzazione del lavoro: 5000 “addetti” (tale la definizione riportata dall’ingegnere che ha presentato il “piano” alla stampa) e 250 “capi” (idem) verranno invitati a un nuovo stile di vita sul luogo di lavoro, tale da ribaltare la leggendaria disaffezione al lavoro del personale dello stabilimento.

Leggendaria, e simbolica: il fatto reale che l’origine dell’AlfaSud ai tempi eroici in cui l’Alfa Romeo era una azienda dell’IRI fosse stato uno dei prototipi dell’industrializzazione “forzata”dell’Italia del Sud, ovvero una miniera di risorse ridistribuite da Nord a Sud a tutte le consorterie della borghesia italiana nonché fonte inesauribile di clientele politiche e sindacali, viene allegramente dimenticato e la “scarsa” produttività storica di quello stabilimento viene attribuita alla... “poltroneria” innata degli operai “terroni”.

Nella seconda metà degli anni ‘70, ai tempi di quel curioso modello d’automobile che era l’AlfaSud, perfino l’illustre Giorgio Bocca era riuscito ad attribuire un calo della produttività dopo l’ora di mensa alla pessima abitudine degli operai di riempirsi eccessivamente di pasta che (com’è noto e confermato dai migliori nutrizionisti) comporta un eccessivo processo digestivo e favorisce la pennichella (non erano ancora tempi di dieta mediterranea!)...

Il passo in più del 2008 è il solito uovo di Colombo, scodellato dritto dritto dalla cloaca dell’illustre studioso Hajime Yamashina (non si offenda, Hajime: negli uccelli, non esiste divisione tra “uscite” genitourinarie e digerenti – c’è una sola... porta), studioso di world class manifacturing (urca!): cioè, stimolare l’orgoglio operaio con il supporto in fabbrica delle tecniche della psicologia di massa. Copiamo pedestri dall’articolo della “Repubblica”:

“‘Ora, o noi risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta, fino alla disfatta’: le battute di Al Pacino in Ogni maledetta domenica vengono sparate a ripetizione in un video, proiettato su schermi ultra piatti. Buchette della posta, tra i carrelli elevatori, in cui scrivere le proprie paure [?!] e i suggerimenti. E ancora una donna incinta, un fiore del deserto, un bimbo che costruisce un palazzo e un pugile. Immagini rassicuranti, cartelli motivazionali, incontri domenicali con le famiglie e star dello sport come i fratelli Abbagnale”.

Tralasciando le dichiarazioni diplomatiche di un paio di operai, preoccupati più che altro del futuro e della stabilità del posto di lavoro (egoistoni!), non possiamo far altro che rimettere i piedi per terra e tornare alla realtà che nessuna ideologia borghese (soprattutto quando assume l’espressione asettica e neutra della tecnologia scientifica) riuscirà mai a mascherare e che l’esperienza viva di tutti i lavoratori, venditori di forza lavoro a tempo quotidiano, ha sintetizzato anni fa nella parola d’ordine di sopravvivenza: “Viva il compagno Assenteismo, il terrore dei padroni, che fa bene all’organismo!”.

Sempre “La Repubblica” (del 23 febbraio 2008) c’informa di un altro paradiso – non “fiscale”, ma “lavorativo” – , questa volta alla Elica di Fabriano, “leader mondiale delle cappe aspiranti (per cucina o altro)”: “Orgoglio, risultati e collettivo: la via italiana al ‘buon lavoro’”, ovvero “la fabbrica più amata dagli operai”. Qui, il giornalista s’è davvero speso molto per descrivere quest’autentico idillio: la “piazzetta di aggregazione” (!), il lungo bancone del bar dove l’operaio si può fermare a prendere un caffè (mica la macchinetta sputa-brodaglia), la mensa unificata operai-dirigenti (ohibò, ci si siede alla stessa tavola dei capi!), iniziative per borse di studio, per l’acquisto dei libri di scuola, per i disabili (forse in seguito a incidenti sul lavoro? Maligni che siamo!), corsi gratis d’inglese a Malta per i figli dei “dipendenti” (siamo pure in epoca globalizzata!), incontri periodici (“faccia a faccia”!) fra il singolo “dipendente” e il manager, coinvolgimento degli operai nell’ideazione di nuove soluzioni tecnologiche o di organizzazione del lavoro (ce l’aspettavamo!), “scambio di mansioni all’interno del singolo gruppo di dipendenti e la possibilità di eseguire, a turno, alcune operazioni seduti” (udite! udite!)... E i tre parametri fondamentali: “l’orgoglio dei dipendenti per il loro lavoro, il cameratismo fra i colleghi e la fiducia in un management, che sia insieme credibile, rispettoso delle aspirazioni ed esigenze dei dipendenti, ed equo nel premiarli”.

Ma che cos’è tutto questo lattemiele? siamo davvero nel paradiso in fabbrica? Veniamo anche a sapere che esiste una “multinazionale di consulenza in organizzazione aziendale”, chiamata “Great Place To Work Institute” (come dire, “Istituto del Gran Bel Posto in cui Lavorare”), che stila graduatorie annuali delle aziende in cui “è più bello sgobbare”, sulla base del concetto che, come le vacche che sentono Mozart producono più latte, così gli operai che in mensa mangiano accanto al dirigente producono di più e tornano a casa felici e contenti.

Infine, molto rilievo è stato dato, dalla stampa e dalla televisione, al documentario girato da Francesca Comencini e intitolato In fabbrica. Cucendo insieme vecchi servizi cinematografici e televisivi sulla condizione operaia (gli anni ’50 e ‘60, l’emigrazione al Nord e in Germania, il lavoro alla catena, le grandi fabbriche di Torino e Milano, fino ai “trenta giorni della FIAT” nel 1980) e interviste odierne a responsabili quadri sindacali e lindi rappresentanti dell’aristocrazia operaia in un’altra fabbrica-paradiso (la Brembo di Bergamo, azienda leader nella fabbricazione di freni a disco), la regista ha sfornato un polpettone di immagini sapientemente drammatiche e melodrammatiche, con una scelta accurata di situazioni cloroformizzate (qualche sciopero sparuto, e la lotta alla FIAT presentata attraverso i comizi di Trentin e Berlinguer, ma senza i fischi e le contestazioni alla firma del contratto) – il tutto all’insegna dell’orgoglio d’essere operai, del “se ne è fatta di strada da allora”, della bellezza del coinvolgimento del lavoratore nei processi produttivi a favore di un’accresciuta produttività e competitività delle aziende sul mercato mondiale... Insomma, l’azienda Italia oggi come sommatoria di tante aziende felici, in cui lavorare è bello, e soprattutto appagante.

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Il trucco è scoperto. Da un lato, un po’ di maquillage non fa mai male, specie dopo i pluri-omicidi alla Thyssen-Krupp di Torino e con lo stillicidio in atto di morti sul lavoro: l’immagine della fabbrica era alquanto appannata e bisognava riproporla in tutto il suo nitore, simbolo concreto del “migliore dei mondi possibili”, universo ronzante di felicità e soddisfazione. Dall’altro, è evidente che una strategia è in atto, e sempre più ce ne accorgeremo: di fronte alla crisi economica, di fronte alla possibilità di fratture sociali e dunque alle prevedibili reazioni proletarie miranti a riconquistare un’autonomia di lotta nei confronti del capitale (pubblico o privato poco importa), è urgente riproporre un’immagine armonica, “igienizzata” e “sedata”, del rapporto capitale-lavoro – un rapporto presentato come il convergere volonteroso di istanze diverse, il coinvolgimento di tutti nelle istanze supreme (oggi della fabbrica x o y, domani dell’economia nazionale, dopodomani dello sforzo bellico), l’affasciamento di tutte le componenti nazionali in un destino unico e superiore... Puzza di ideologia del ventennio? Già, guarda un po’: come scrivevamo nel 1945, “i fascisti hanno perso, il fascismo ha vinto”...

Di fronte a tutto ciò, noi comunisti avremmo buon gioco a ricordare su che cosa si fondi il modo di produzione capitalistico, le leggi che vi sottostanno, la questione della giornata di lavoro e della sua porzione non pagata, l’estrazione di plusvalore dal pluslavoro, la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, e via dicendo: l’ABC dell’analisi materialista della società di classe, di fronte al quale il folklore lattemiele di giornalisti, opinionisti e registi rivela la propria natura di “spazzatura storica”. Ci limitiamo invece solo a ricordare che cosa succede quando ci buttano nel processo produttivo per valorizzare il loro adorato Capitale:

“...una volta assunto nel processo di produzione del capitale, il mezzo di lavoro percorre diverse metamorfosi, l’ultima delle quali è la macchina o, piuttosto, un sistema automatico di macchinari… azionato da un automa, forza motrice che manovra se stessa; questo automa è costituito da numerosi organi meccanici e intellettuali, cosicché gli operai stessi sono determinati soltanto come sue membra coscienti. Nella macchina e ancor più nel macchinario come sistema automatico, il mezzo di lavoro è trasformato dal punto di vista del suo valore d’uso, cioè della sua esistenza materiale, in un’esistenza materiale, in un’esistenza adeguata al capitale fisso e al capitale in generale, e la forma in cui esso è stato assunto come mezzo di lavoro immediato nel processo di produzione del capitale stesso e a esso corrispondente. Da nessun punto di vista la macchina si presenta come mezzo di lavoro del singolo operaio. La sua differenza specifica non è affatto, come nel mezzo di lavoro, di mediare l’attività dell’operaio nei confronti dell’oggetto; piuttosto, quest’attività è posta in modo tale da mediare ormai soltanto il lavoro della macchina, la sua azione sulla materia prima, da sorvegliarlo e da preservarlo dalle interferenze. Non come nel caso dello strumento, che l’operaio anima, come un organo, con la sua abilità e attività, e il cui maneggio dipende quindi dalla sua virtuosità. E’ invece la macchina che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso che possiede una propria anima nelle leggi meccaniche che in essa operano e, per assicurarsi un moto autonomo continuo, consuma carbone, olio, ecc (materie strumentali), come l’operaio consuma mezzi di sussistenza. L’attività dell’operaio, ridotta a pura astrazione dell’attività, è determinata e regolata per tutti i versi dal moto del macchinario, e non viceversa. La scienza che costringe le membra inanimate del macchinario – con la sua costruzione – ad agire in conformità allo scopo come ‘automa’ non esiste nella coscienza dell’operaio, ma agisce su di lui, attraverso la macchina, come un potere estraneo, come potere della macchina stessa” [1].

 

PS: FIAT di Pomigliano d’Arco, Elica di Fabriano, Brembo di Bergamo... Fra le tante, teniamole presenti nei prossimi anni, quando la crisi colpirà ancor più duro: non sia mai che il paradiso si trasformi in inferno!

 

Breve nota aggiuntiva

Intanto, i proletari continuano a morire, in fabbrica, nei cantieri, nei campi, nelle miniere, in tutti i luoghi di lavoro: come al porto di Genova; come a Molfetta (Bari), dove sono asfissiati in quattro nell’atto di pulire un’autocisterna; o come nel porto di Tuzla, in Turchia, dove in sette mesi sono morti diciotto lavoratori (la strage di proletari non conosce frontiere). Oppure, sono sottoposti quotidianamente a un regime di soprusi, ricatti, intimidazioni, violenze, che fa del luogo di lavoro un autentico carcere (lo diceva già il... superato Marx): molto scalpore ha suscitato il caso della cassiera peruviana del supermarket Esselunga di viale Papiniano a Milano, costretta a restare inchiodata alla cassa nonostante un impellente bisogno fisiologico e a subire la pubblica umiliazione di farsela addosso – e poi, qualche giorno dopo aver denunciato la cosa, “misteriosamente” aggredita e picchiata dentro lo stesso supermarket. Sono ben note da tempo le condizioni di lavoro nei bagni penali della grande distribuzione e, quando parlando a vanvera si afferma che le concentrazioni operaie non esistono più, si farebbe bene a ricordare i proletari di queste moderne fabbriche! L’unica via d’uscita è tornare a organizzarsi dentro e fuori il luogo di lavoro, mettere in campo la propria forza organizzata e autonoma in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro e far sentire così al padrone (pubblico o privato che sia), allo Stato e a tutti i suoi manutengoli, che nessun attacco, nessun arbitrio, nessun crimine anti-proletario può restare impunito.

 

 
 
Note:

 
1. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica della economia politica, Torino, Einaudi, 1977, pag.706-707.
 

 

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