“La storia rivoluzionaria non definirà l’era capitalistica età del razionale, ma l’età della magagna. Di tutti gli idoli che ha conosciuto l’uomo, sarà quello del progresso moderno della tecnica che cadrà dagli altari col più tremendo fragore”.

(Politica e “costruzione”, in “Prometeo”, 1952, n.3/4).

 

Il “febbrile” sviluppo edilizio in Italia, dal primo dopoguerra ad oggi, ha profondamente modificato le città fino a metterne in pericolo la vivibilità mediante la distruzione sistematica del territorio e dell’equilibrio naturale. La politica urbanistica fondata sul prelievo di rendita fondiaria ha favorito il moltiplicarsi di licenze edilizie a fini speculativi ma, come abbiamo sempre detto, l’intreccio tra affarismo, politica e speculazione non rappresenta una patologia del corpo sociale borghese ma costituisce la sua vera natura; fa parte integrante del capitalismo.

Del resto in questo tipo di economia la legge del “risparmio sul capitale costante” enunciata da Marx agisce nel senso di ammassare gli uomini in poco spazio, particolarmente nelle metropoli. Non possiamo in questo articolo tratteggiare gli effetti dell’urbanesimo in tutto il suo sviluppo sociale, ma il cosiddetto “consumo del suolo”, derivante dalla tecnica di organizzazione della crosta terrestre conduce inevitabilmente ad una perdita immensa di calorie.

“L’abolizione dell’antitesi tra città e campagna non è un’utopia, né più né meno di quanto lo sia l’abolizione della antitesi fra capitalisti e salariati. Essa diventa ogni giorno di più una esigenza pratica della produzione agricola e industriale. Nessuno l’ha sollecitata di più di Liebig nei suoi scritti sulla chimica applicata all’agricoltura, nei quali egli affaccia continuamente l’esigenza che l’uomo restituisca alla terra ciò che le prende, e nei quali dimostra che l’unico ostacolo a far ciò è dato dall’esistenza delle città, e specialmente delle grandi città”. (1)

Aumento della popolazione e deficit alimentare quindi, che turbano il sonno dei borghesi e dei loro lacchè, non sono altro che due aspetti della stessa demente economia; questioni che troveranno soluzione nel nostro programma immediato post-rivoluzionario.

Quanto segue riguarda la Capitale, ma potrebbe valere anche per Napoli (si pensi al Piano della Via Marittima), sia per tutto il tessuto urbano italico (2).

***

Sin dai tempi dell’appropriazione dei centri urbani europei da parte della borghesia industriale e finanziaria, le città sono tumultuosamente rimodellate, dando al centro un ruolo di rappresentanza. A Roma questa borghesia non c’è. L’Apparato Pontificio, avverso alla crescita degli apparati imprenditoriali, cede il passo alla burocrazia sabauda, meno propensa a stabilirsi a Roma e che dunque esegue sventramenti estemporanei, dettati dalla speculazione fondiaria più che da una nuova idea di città (sulla scorta dei progetti Napoleonici su Roma, vengono impostati i grandi boulevard di via Cavour, via Nazionale, Corso Vittorio Emanuele II).

E’ quindi nel 1922 che ha inizio il vero e proprio mutamento urbanistico e dunque sociale-antropologico di Roma; e per un decennio (1922-1932) tra continui cambi di progetto viario e difficoltà insormontabili – data la grande differenza di quota dei piani di calpestio – viene spianata la collina Velia, la Meta Sudans e quella che era la Suburra, e l’antico tessuto urbano Medioevale, Rinascimentale e Barocco eretto sulle rovine della Roma Imperiale viene man mano raso al suolo e scompare per sempre. I musei diventano il ricovero dei reperti trovati durante i raschiamenti e la costruzione dei nuovi quartieri; diventano magazzini, lontani dalla funzione scientifica di studio storico-artistico dei musei inglesi, tedeschi e americani. La funzione sociale del patrimonio culturale è declinata in un'unica versione: l’archeologia è il travestimento che il potere fascista, come erede dell’Impero romano, usa al fine di suscitare il consenso. E’ solo retorica facciata: non un rilievo documenta gli scavi, niente documentazione di ciò che è stato distrutto, definito solo “vecchiume”.

Le persone, in stragrande maggioranza proletari e sottoproletari, che in quegli anni abbandonarono le case in demolizione furono migliaia (3): i primi sloggi del 1924 investono i mercati traianei e la zona occupata dal monumento a Vittorio Emanuele II, è un vero e proprio esodo. Solo in quella zona i vani abitabili complessivi furono indicati in 5.500 e dato che la densità media era calcolata a 1,25 abitanti/vano si trattava di 7000 persone. Questi settemila andavano a raggiungere gli sfollati da via della Bocca della Verità (1925) Teatro di Marcello e via del Falcone (1926) del futuro Largo Argentina e via discorrendo per un totale mai calcolato, ma solo giustificato con le seguenti motivazioni:

  • I quartieri demoliti erano malsani e sovraffollati; moralmente e socialmente condannabili
  • In periferia le stesse persone trovano quartieri sani, puliti, gradevoli.

Nelle zone più povere di Roma il fascismo eredita una situazione già pesante. Il censimento del 1911 annotava agglomerati di baracche al Mandrione, Porta Portese, Stazione San Pietro, Valle Aurelia, Casal Bertone, Portonaccio, Pigneto, Via Etruria dove “risiedono” soprattutto lavoratori immigrati dal centro-sud che lavorano nei cantieri edili dei quartieri abitati dalla media borghesia romana.

Decisamente migliori erano le condizioni dei lavoratori dipendenti dei servizi pubblici (gas, acqua, elettricità, trasporti) nelle abitazioni costruite appositamente per loro a Testaccio, San Saba, Tor Pignattara, Centocelle.

Nel 1920 il Comune stimava intorno a 45.000 le persone che occupavano le baracche più malsane che arrivavano a 100.000 se si aggiungevano quelle che non abitavano nelle baracche ma in case fatiscenti e in condizioni comunque inaccettabili.

Si apre la questione delle abitazioni e la questione delle baracche: un’ordinanza della prefettura del 20 febbraio del 1929 vieta l’immigrazione a Roma a chi fosse sprovvisto di un certificato di lavoro.

Sempre tra il 1929 e il 1931 si demolirono le baracche che erano a via Doria, viale Angelico, via Tuscolana, ai prati dietro al Policlinico, Tor Fiorenza, Casal Bertone, via Flaminia, Batteria Nomentana, via Trionfale, Pigneto, lungo il raccordo ferroviario con il Vaticano creando alberghi suburbani alla Garbatella e i Ricoveri Comunali anche “se questi non erano ben accetti dagli sfrattati”.

Nel 1930 si comincia dunque a costruire “BORGATE LIETE” con piccole casette in muratura a uno o due vani con cucina e accessori e annesso piccolo orto alla borgata Prenestina, a Primavalle. Casette a due piani modello “PATER” vengono costruite a via delle Sette Chiese, a via Botero presso l’Appia Nuova.

Ma dove reperire i fondi necessari alle grandi opere urbanistiche e soprattutto alla costruzione di alloggi per gli sfollati e i baraccati immigrati dalle campagne laziali e dal Meridione? Alla fine degli anni venti il governo Fascista, con l’appoggio delle forze industriali e finanziarie, si rivolge al mercato internazionale dei capitali per avere i mezzi con cui attuare le opere pubbliche: nel 1925 J.P. Morgan concede agevolazioni di credito per 100 milioni di dollari a tre banche italiane guidate dalla Banca d’Italia. Il prestito americano utilizzato negli sventramenti per aumentare il prestigio della Capitale, con l’isolamento del teatro di Marcello e del Campidoglio, viene gestito dal Governatore Boncompagni Ludovisi per le opere celebrative del decennale della marcia su Roma: Boncompagni è figlio del Principe Ugo che morirà religioso in odore di santità, deputato del partito Popolare, era uomo del Banco di Roma e aveva nel cuore e nel portafogli tutti i segreti e i misteri del latifondo.

L’utilizzazione di questi fondi passò attraverso due protagonisti: l’SPQR e Iacp, il cui uomo chiave si chiama Alberto Calza Bini: Fondatore del Sindacato Fascista Architetti nel 1925 e dunque personalità di primo piano nel gestire i proventi derivati dall’urbanistica romana e nazionale durante il fascismo e subito dopo. Il governatorato fu prima affidato a Cremonesi (poi costretto alle dimissioni) e quindi passato agli esponenti dell’aristocrazia Ludovico Spada Varalli Potenziani e poi a Francesco Boncompagni Ludovisi e infine alla svolta con Giuseppe Bottai (che diventerà uno degli esponenti di spicco delle Lega Fascista del Nord America). Quest’ultimo però fu impiegato nella Guerra di Etiopia (occasione che incrinò i rapporti negli Stati Uniti) e dunque passò l’amministrazione di Roma a Virgilio Testa che coprirà la carica di segretario generale durante tutta la fase fascista e poi dal 1951 al 1973 sarà commissario straordinario dell’Eur, come massimo responsabile dell’urbanistica di Roma dalla fine degli anni ’20 all’inizio degli anni ’60. Argomenti centrali della svolta Bottai-Testa sono proprio gli sfollamenti e le baracche.

L’Istituto Autonomo Case Popolari all’epoca si chiama IFACP (Istituto Fascista Autonomo Case Popolari) assume l’amministrazione delle casette e baracche di carattere provvisorio fatte costruire dal Governatorato Spada/Boncompagni (con un indice di affollamento che Cremonesi indica teoricamente come 1,34, ma arriva a 2,56 abitanti/vano) per la costruzione di casette minime e popolarissime, costruendo bene ordinati nuclei estensivi alla periferia della città, destinati essenzialmente alle famiglie povere sfrattate per demolizione di Piano Regolatore o per sbaraccamento.

Nel 1933 la demolizione delle baracche - ex casette comunali chiamate “casette e ricoveri di carattere temporaneo”, fa confluire gli sbaraccati negli alberghi di massa costruiti in quegli anni alla Garbatella densità di 5,23 abitanti/vano.

Nel 1936 le case popolari ed economiche vantano 73.945 inquilini; casette e ricoveri 17.899. 1443 persone sono ancora a Porta Metronia e l’Iacp comincia a costruire le tre borgate post governatorato Boncompagni: Pietralata, Tiburtino III, Donna Olimpia. E’ quindi chiaro che oltre alle baracche sorte su iniziativa degli immigrati, fu il Governatorato stesso a costruire le baracche per le famiglie provenienti dalle distruzioni del centro storico tra gli anni ’20 e il 1935, per un totale di oltre 10.000 persone, per poi passare la palla all’Iacp.

“Sono ghetti lontanissimi, fatti di case, non di baracche, e quindi a un livello edilizio certamente superiore a quello degli anni precedenti. Per il resto le borgate restavano sempre più isolate nell’estrema periferia, in mezzo alla campagna, con servizi scadenti e insufficienti, indici di affollamento paurosi, povertà e disoccupazione croniche.” (4)

La svolta di palazzo del 1935 infatti è solo un passaggio di consegna: il fascismo aristocratico e filo-vaticano ormai inutile dopo la Conciliazione, passa le redini speculative ad uno più giovane e spregiudicato, ma le “borgate liete” furono sempre più isolate, i servizi primari scadentissimi e insufficienti, quelli secondari assenti del tutto, gli indici di affollamento paurosi, povertà e disoccupazioni croniche.

1936-1976. Il lungo sonno delle amministrazioni e soprintendenza non investe palazzinari e imprese immobiliari che distruggono abusivamente, sistematicamente e velocemente intere aree archeologiche, a cominciare da quella che verrà definita “la guerra dell’Appia” con il primo scandalo della Pia Casa S. Rosa. Ma non resta dimenticato Laurentino 38, costruito nel 1976, mentre era sindaco Giulio Carlo Argan, distruggendo l’antica città protostorica in Località Acqua Acetosa con necropoli e tombe principesche dai carri d’oro…il cui corredo è scomparso dopo la mostra del Giubileo del 2000.

Nel 1949, precisamente con la legge n. 43 del 28 febbraio 1949 (meglio nota come Piano Ina Casa o Piano Fanfani) si approva la costruzione di alloggi di edilizia residenziale pubblica in diversi quartieri d’Italia. L’intervento mira ad incrementare l’occupazione operaia nel settore edile. La gestione del piano viene affidato all’Ina Casa con gestione separata e con formale autonomia giuridica rispetto all’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni).

La legge, secondo il suo promotore, il democristiano Amintore Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza dal 1947 al 1950 “rappresenta il tentativo di affrontare in modo congiunto due settori centrali della ricostruzione: quello edile, tradizionalmente contenitore di manodopera sottoccupata, con bassi livelli salariali e assenza di protezione sindacale e quello abitativo, gravato dai processi migratori verso le città e dalle distruzioni belliche che avevano colpito soprattutto alcune zone del paese.” (5)

A Roma “il Tuscolano rappresenta uno dei più grandi interventi costruiti dal piano in Italia – due milioni di metri cubi, 3.071 alloggi, circa 18.000 abitanti, in un’area di oltre 35 ettari – ed è il quartiere romano più ampio realizzato dall’Ina Casa, preceduto in termini temporali, dai quartieri di Valco San Paolo e Stella Polare di Ostia, coevo al quartiere Tiburtino e precedente ai quartieri di Villa Gordiani, Ponte Mammolo, Acilia, Colle di Mezzo e Torre Spaccata.” (6)

L’assegnazione inizialmente sarebbe dovuta avvenire per sorteggio. Cosa che trova l’opposizione dell’allora PCI che ribattezza le procedure “Totocasa”. Successivamente il sorteggio viene sostituito da alcuni criteri che un comitato apposito deve valutare. Viene stabilito un contributo a fondo perduto da prelevare dal salario mensile del lavoratore richiedente che varia tra l’1,47% al 0,40% a seconda della situazione familiare. Ricordiamo che gli alloggi sono destinati solo ai lavoratori che contribuiscono alla realizzazione del piano selezionati in base a determinate classi di bisogno, con possibilità di scegliere il canone di locazione o il riscatto a 25 anni.

La concezione keynesiana del pieno impiego (l’aumento di occupazione stimola la domanda di beni e servizi, generando quindi nuova occupazione) viene rivista anche alla luce di quel solidarismo cattolico incarnato da Fanfani e dalla sua corrente nel gran partitone di De Gasperi ed anche il tentativo di favorire la proprietà privata viene presentata con lo slogan “non tutti proletari, ma tutti proprietari”!

 Ma rispondiamo con Engels: “Poniamo che in una data regione industriale sia diventato normale che ogni operaio possegga la sua casetta. In questo caso la classe operaia di quella regione abita gratuitamente; del valore della sua forza lavoro non fanno più parte le spese per l'abitazione. Ma ogni riduzione dei costi di produzione della forza lavoro, cioè ogni durevole deprezzamento dei bisogni vitali del lavoratore, "in forza delle ferree leggi dell'economia politica", si risolve nel ridurre il valore della forza lavoro e finisce quindi per l'avere come conseguenza una corrispondente caduta del salario. Quest'ultimo, quindi, verrebbe decurtato in media del valore medio della pigione risparmiata, vale a dire che il lavoratore pagherebbe l'affitto della sua propria casa non più, come prima, in denaro al padrone, ma in lavoro non retribuito all'industriale per cui lavora. In tal modo i risparmi dell'operaio investiti nella casetta diventerebbero si, in un certo qual modo, capitale, ma non per lui, bensì per il capitalista che gli dà lavoro.” (7)

Durante l’immediato dopoguerra si va sempre di più enucleando un compatto fronte costituito da SPQR-proprietari- Ministero Lavori Pubblici-imprese-palazzinari, coinvolti nello scandalo Immobiliare-Espresso del 1955-56, in quello della Magliana del 1971-76 e Caltagirone 1979-80. A questo fronte si oppone poco o nulla e ancora oggi si specula a spese del patrimonio archeologico così come delle condizioni di vita e di lavoro di migliaia di proletari.

Negli anni ’80 arriva il degrado dei monumenti per via dell’attacco delle piogge acide e del continuo passaggio di automobili; viene rimossa la statua equestre di Marco Aurelio, le statue della Colonna Traiana e dell’arco di Costantino sono pericolosamente deteriorate. Lo stupro insopportabile del patrimonio storico va di pari passo con l’allargarsi progressivo della massa dei miserabili che vivono in periferie sporche e abbandonate a sé stesse dove, nei giovani proletari, la piaga dell’abbandono scolastico va di pari passo con problemi di tossicodipendenza e alcolismo. Intrappolati di continuo nei meccanismi che spingono gli emarginati verso comportamenti delinquenziali e di ribellismo individuale e non collettivo sempre più spesso i giovani delle periferie degradate fanno la conoscenza degli istituti per minori e delle patrie galere.

 Si assiste, infine, allo scivolamento verso il proletariato anche delle fasce piccolo borghesi depauperate e impoverite.

***

Per allargare il discorso, possiamo rimandare alla “Nota” contenuta nella Parte Prima del nostro testo “Proprietà e capitale” (). A proposito della famigerata “Legge Fanfani”, che si proponeva di incrementare l'occupazione operaia agevolando la costruzione di case per lavoratori, avvio di un piano per la realizzazione di alloggi economici (piano INA-Casa), ecco come scrivevamo nell’immediato secondo dopoguerra:
“Descriviamo la società Fanfani, la Città dell'Ombra, in cui tutti sono muratori. Un milione di abitanti di Fanfània, coll'indice italiano anteguerra, abbisognano di 650.000 stanze. Supponiamo che una casa duri 50 anni; è già un ritmo moderno, superato solo in America, a cui aspirano in Francia; noi abitiamo in case vecchie di secoli e secoli. Ma al ritmo di una casa su 50 all'anno ci troviamo bene col programma italiano di 600.000 vani annui contro i circa 29 milioni di stanze che ospitano 45 milioni di italiani.

“Il milione di fanfànici costruisce dunque ogni anno 13.000 stanze. Quanti lavoratori occorrono? Se una stanza costa 340.000 lire e per manodopera la metà, ossia 170.000, possiamo calcolare 200 giornate lavorative medie, e l'impiego al massimo di un lavoratore annuo. Dunque del milione lavorano solo 13.000 persone. Le altre 987.000 non lavorano, ma stanno in casa. Mangiare non mangiano, e del resto nessuno mangia, in Fanfània.

“Veniamo alla conclusione che i cantieri Fanfani, a pieno ritmo, ossia dopo il primo ciclo settennale, impiegheranno per fare 100.000 stanze annue 100.000 lavoratori. A sua difesa dalle mende americane Pella ha rilevato che il solo incremento demografico gettò sul mercato ogni anno 200.000 nuovi lavoratori. Il piano Fanfani, dunque, non spianta né la peste edilizia, né la peste sociale.

“Il più bello è che, mentre si vanta che finalmente si avranno case che saranno in effetti occupate da operai, il calcolo conduce ad un affitto talmente forte che un operaio coi salari attuali non lo può pagare.

“Quando poi si tocca l'apice della casa in proprietà all'operaio, a parte il labirinto delle disposizioni per prenotare, assegnare, smistare, ereditare, cambiare se si cambia lavoro e residenza, ecc. ecc., si vede che l'assegnatario dovrà, per 25 anni, pagare una rata enorme. Essa corrisponde al costo di costruzione, maggiorato delle spese generali della Gestione Fanfani-case, diminuito del valsente del contributo statale dell'1% annuo, che sarà distribuito in rate costanti, oltre a tasse, contributi e spese condominiali. Provvisoriamente si è annunziata una rata di 1.100 lire mensili, ma un computo che per brevità omettiamo conduce alla previsione sicura di almeno 1.500 lire mensili per stanza, e quindi per una casa operaia modestissima 5.000 o 6.000. Nei nostri computi sul salario netto di meno di mille lire, a giornate non tutte lavorative, anche col francese 12%, il lavoratore non dovrebbe e non potrebbe spendere per la casa più di tremila lire, a parte le categorie privilegiate e specializzate.

“Ne seguirà che, poiché le case pronte saranno sempre poche, e molti i lavoratori contribuenti, l'operaio italiano pregherà al mattino: Dio di De Gasperi, fammi vincere alla Sisal, ma non ai sorteggi delle case Fanfani.

“Se, come per il blocco, si tiene conto che l'onere statale è onere della classe attiva e non dei ricchi, ben si vedrà come il lavoratore, se il piano avrà effetto, avrà forse una casa sua, ma la avrà pagata il buon doppio del suo valore di mercato, in rinunzie, sacrifizi e tagli sulla sua remunerazione reale.

“Questi i miracoli dell'intervento dello Stato nell'economia, che sono poi gli stessi con la formula mussoliniana, hitleriana, rooseveltiana, con quella laburista e quella ‘sovietista’ di oggi.

“Non solo fino a che lo Stato è nelle mani della classe capitalistica, ma fino a che nel mondo vi saranno Stati capitalistici potenti, la pianificazione economica è una chimera, una fanfània universale. Ovunque e da chiunque sia essa tentata, non riuscirà a governare i fatti dell'umana soddisfazione e benessere, ma costruirà piedistalli al privilegio, allo sfruttamento e al saccheggio, al "tormento di lavoro" cui sottopone le popolazioni” (8)

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Contro la demente economia che domina la società attuale valga il monito di Marx che dal 1848 appartiene, allora come oggi, al programma rivoluzionario dei comunisti: ABBANDONO DELLE CITTA’ ED ARMONICA DISTRIBUZIONE DELLA POPOLAZIONE SULLA TERRA.

NOTE

  • Engels, La questione delle abitazioni, Roma, Samonà e Savelli, 1971, p.103
  • Fra i molti testi dedicati a questi argomenti, cfr. “Specie umana e crosta terrestre” (il programma comunista, n.6/1952, “Spazio contro cemento” (il programma comunista, n1/1953), “Questa friabile penisola si disintegrerà sotto l’alluvione delle ‘leggi speciali’” (il programma comunista, n.22/1966).
  • Questi fatti furono talmente dolorosi che lasciarono traccia perfino nella tradizione canora romana, in particolare nella canzone “Casetta de Trastevere”, che racconta con tono accorato lo stato d’animo dei proletari romani di fronte ai grandi sventramenti urbanistici che cambiarono il volto della città.
  • Insolera, Roma fascista, Editori Riuniti, 2002, p. 15
  • Sotgia, INA Casa Tuscolano. Biografia di un quartiere romano, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 9
  • Ivi, p. 13
  • Engels, La questione delle abitazioni, Roma, Samonà e Savelli, 1971, p. 61
  • La “Nota”, intitolata “Il problema edilizio in Italia”, fa parte del testo “Proprietà e capitale”, uscito in varie puntate fra il 1948 e il 1950, su quella che allora era la nostra rivista teorica, “Prometeo” (ora in Proprietà e capitale. Inquadramento nella dottrina marxista dei fenomeni del mondo sociale contemporaneo, Editrice Iskra, 1980).

 

 

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