Dalla temporanea grande espansione del 2° dopoguerra imperialistico al ritorno alla decrescenza.

 

Trattando della produzione industriale, abbiamo visto come, per effetto della seconda guerra imperialistica e per tutto un insieme di altri fattori che non stiamo qui a ripetere, il capitalismo mondiale riceva un nuovo poderoso impulso espansivo, un relativo ringiovanimento, da un lato nelle vecchie metropoli imperialiste, dov’è crollato miseramente dopo circa un trentennio con la crisi del 1975, e dall’altro nell’impetuosa espansione di quel che abbiamo chiamato per comodità “Resto del Mondo”, in cui si sono venute a definire aree e giovani capitalismi a sviluppo accelerato di sempre più relativo peso specifico, in via di altrettanto rapido invecchiamento.

L’orgia produttiva del secondo dopoguerra non può che generare e richiedere una ancor più ampia espansione del mercato mondiale e dunque del commercio internazionale, che nel periodo tra le due guerre ha subito un vero e proprio tracollo, in particolare dal 1929 (ancora nel 1950, il volume del commercio internazionale di quell’anno non risulta ancora superato).

L’espansione del mercato mondiale, al di là delle ragioni fondamentali su accennate che ne sono alla base, richiede a sua volta la riduzione progressiva di tutti quei lacci protezionistici, dazi, barriere, contingentamenti, sovvenzioni all’esportazione, che in particolare la Grande Depressione aveva imposto a tutto il mondo industrializzato. E tale richiesta (ovvero, necessità) non può che essere espressa, sulla scena mondiale, in primis dal capitalismo imperialista che la seconda guerra mondiale ha consacrato egemone anche sul piano politico, quello statunitense [22]. Tuttavia, ciò non è che il prodotto necessario e imposto dalla spinta propulsiva del sottosuolo produttivo che, se trae alimento in prima battuta dalle immani distruzione del conflitto, è poi determinato da ben altre forze, come abbiamo esposto, per sommi capi, nel capitolo precedente. Del resto, data la natura antitetica del capitale, il decantato libero mercato (che il grande capitale persegue a scapito del piccolo e lo stato potente a scapito del debole, e che non di meno il piccolo reclama quando è oppresso e fagocitato dal grande) non era e non è che una faccia della medaglia: non in negazione, bensì in commistione con la faccia protezionistica, a seconda della congiuntura economica e dei mutevoli rapporti di forza fra i singoli capitali, fra le singole fazioni della classe capitalistica e fra gli Stati [23].

Di conseguenza, alla poderosa accelerazione produttiva del secondo dopoguerra (che in termini di incremento medio annuo raggiunge il 7,14% nel periodo 1949-1974) corrisponde un altrettanto formidabile incremento delle esportazioni mondiali, che nello stesso periodo si attesta al medio annuo del 9,11%. Al successivo rallentamento dei ritmi di incremento della produzione industriale mondiale, determinata dai paesi occidentali e dal Giappone (che nel periodo 1974-2003 si riduce al 2,97%) corrisponde la decrescenza al 4,7% dell’incremento medio del commercio estero – decrescenza che, per l’insieme dei big six (il nostro G6, esclusa l’Urss/Russia e inclusa l’Italia), risulta più marcata, passando, per gli stessi periodi, dal 8,94% al 4,06%.

La dinamica sopra esposta viene evidenziata nella Tabella 12 [24], composta sulla base della sequenza annuale degli indici delle esportazioni dal 1948 al 2005, di cui alla Tabella 11, sebbene gli incrementi annui siano riferiti a due periodi diversi dalla suddivisione sopra operata per un mero raffronto con la produzione industriale. Come termine del primo periodo sono stati scelti gli anni di massimo degli indici precedenti alla crisi degli anni ’80: ciò perché in tali anni si verifica una crisi commerciale generalizzata, forte e prolungata, che investe sia tutti i paesi industrializzati che l’Urss e, se non tutto, almeno la maggior parte del Resto del Mondo, mentre così non avviene in concomitanza della crisi di sovrapproduzione del 1975. In tale anno, a differenza della caduta produttiva, la battuta di arresto nel commercio estero avviene per un solo anno e solo, significativamente, nei due paesi industrializzati con maggiore e continuativa crescita dall’inizio del secondo dopoguerra (la Germania e il Giappone), tocca limitatamente la Gran Bretagna e pure gli Usa (che però non vanno a segno negativo), mentre Francia e Italia, in diversa misura, incrementano. Dal 1980-81, per i membri del G6, ad esclusione del Giappone, la crisi commerciale perdura a seconda dei casi da 3 a 5 anni consecutivi e con riduzioni apprezzabili: - 26,1% per gli UK, -27,4% per la Francia, - 24,1% per la Germania; - 19,2% per gli Usa, -21,7% per l’Italia. Per il Giappone, la battuta di arresto si verifica nel 1979 (- 7,5%) per poi ripresentarsi nel 1982 (- 10,5%) riportandolo sotto il livello del 1978. Per l’Urss, che, ben immersa da tempo nel mercato mondiale, ne subisce i poderosi contraccolpi nell’ambito del suo spazio vitale in progressivo sgretolamento, il 1981 rappresenta, dal lato che stiamo esaminando, il punto di esplosione in superficie del suo inesorabile quanto verticale declino, dopo il 1987, verso la ben nota catastrofe economica e politica.

In sostanza, per il commercio estero, l’anno di svolta del ciclo ascendente avviatosi alla fine della seconda guerra mondiale appare dunque, con qualche anno di ritardo ma quale diretta conseguenza, il 1980 più che il 1975. In tale fase espansiva, sono il Giappone e la Germania e poi l’Italietta che mettono a segno le migliori performances, sebbene siano poi solo i primi due imperialismi e soprattutto la Germania, come vedremo in seguito, a tallonare e contendere sempre più da vicino la supremazia commerciale statunitense in progressivo declino. Tanto è vero che nel 1971, anche se, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, non solo per questo fattore e per la grande espansione commerciale mondiale verificatasi, gli Usa, non più in grado di sostenere la parità del dollaro con l’oro sancita con gli Accordi di Bretton Wood appena 25 anni prima, ne decretano unilateralmente la fine, con il ritorno al sistema o non-sistema dei cambi flessibili a partire dal 1973.

Il periodo successivo, dal 1980 al 2005, mette in evidenza, per quasi tutti i grandi e vecchi imperialismi, un calo del ritmo di incremento ancor più vistoso di quello medio mondiale. In termini di puro rapporto tra il tasso del secondo periodo e quello del primo, la graduatoria, partendo dal massimo decremento, è la seguente: Giappone –74,60%; Germania –67,10%; Italia –66,26%; Francia –60,30%; UK –46,36% e USA –40,13%. E’ significativo che la tale graduatoria in negativo corrisponda a quella degli massimi incrementi del periodo precendente, salvo l’inversione degli ultimi due Stati che restano sulla media del decremento mondiale.

Scomponendo quest’ultimo periodo in sottoperiodi, si osserva che: 1) gli Usa nel anni 1990-2000 mettono a segno una temporanea inversione di tendenza, le cui ragioni vedremo in seguito, con un tasso medio del 5,7%, per poi piombare a – 0,44% medio dal 2000 al 2005. Pure l’Inghilterra e l’Italia negli anni 1992-1998 invertono modestamente la traiettoria discendente, che per la prima, maggiormente legata agli Stati Uniti, nel periodo 1998-2004 si attesta all’1,53%, sempre medio; 2) il Giappone mostra anche qui di essere giunto al capolinea verso la fine degli anni ’80: il decremento dei suoi ritmi è progressivo e non raggiunge l’1% negli anni 2000-2005. La Francia ha invece un blando ritmo di decrescenza. L’andamento della Germania si presenta inverso e in particolare rispetto a quello del suo più diretto concorrente mondiale: negli anni ’90, per gli effetti della riunificazione e anche per il crollo sovietico e della grande crisi che investe tutto l’ex “blocco socialista”, subisce un calo significativo, quasi quanto quello giapponese, mentre i restanti imperialismi, a parte la Francia, crescono. Ma negli anni 1998-2005, dopo la grande ristrutturazione avvenuta e la conquista di nuovi mercati, in particolare dell’Europa dell’Est, a danno dei concorrenti, mentre gli altri grandi diminuiscono anche vistosamente, di pari passo alla maggior vitalità produttiva la Germania mette a segno un bel 5,08%, tra l’altro superiore di circa mezzo punto all’incremento medio del periodo 1979-1990.

Per la Cina, il processo è al momento in fase ascendente: una volta gettate le basi dello sviluppo capitalistico al proprio interno, e sviluppatosi questo tanto impetuosamente quanto in maniera squilibrata, altrettanto prorompente è stata l’accelerazione progressiva del commercio con l’estero: 1981-1995, +12,67%; 1995-2005, +15,03%.

Anche a livello mondiale, il periodo 2000-2005, significativamente per il contributo di Germania e Cina (vedi Tabella 14), è in temporanea controtendenza alla decrescenza mostrata fino a quel momento dall’inizio del secondo dopoguerra, come mostrato dai seguenti risultati: 1980-1992, incremento medio annuo del 5,87%; 1992-2000, 5,33%; 2000-2005, 6,44%.

Tuttavia, ciò non viene a contraddire quella che è la traiettoria di lungo periodo; anzi, l’insieme di quanto fin qui constatato mette in evidenza e conferma ciò che abbiamo già riscontrato esaminando l’andamento della produzione industriale: pertanto, anche il rallentamento assai marcato del commercio mondiale è ulteriore conferma dell’attuale fase di crisi storica del capitalismo mondiale apertasi dal 1975. L’impetuoso sviluppo di aree e paesi cosiddetti emergenti, sebbene rappresenti una ulteriore proroga di vita alla forma capitalistica storica mondiale, non permette di invertire la rotta, non solo in quanto il tasso di incremento della produzione mondiale ciò nonostante declina storicamente, ma anche perché, come abbiamo già anticipato – e qui troviamo ulteriormente confermato – , non vi sono le possibilità materiali capitalistiche per tale inversione: ossia, per un’ulteriore poderosa espansione del mercato mondiale, ad esempio pari o simile a quella della cosiddetta golden age. E’ sufficiente considerare che, affinché il tasso di incremento medio del commercio estero del periodo 1980-2020 eguagli quello del periodo 1949-1980 (e cioè l’8,20%), il mercato mondiale dal 2006 al 2020 dovrebbe crescere alla media annua del 14,85%: cioè, senza che si verifichi alcuna crisi, a un grado quasi doppio del periodo espansivo del secondo dopoguerra, in cui esistevano condizioni opposte a quelle attuali (vale a dire, quelle stesse che tale espansione ha irreversibilmente determinato). Se dunque questo è da escludere, in quanto ciò potrebbe verificarsi solo per effetto di una poderosa crescita della produzione manifatturiera (la quale per verificarsi abbisogna di una distruzione massiccia dell’attuale crescente sovrabbondanza di capitale e di merci rispetto alle sue possibilità, relativamente più ristrette, di impiego adeguato nell’industria), potrebbe invece proseguire per i prossimi anni, salvo accelerazioni della crisi, il trend ascendente di quest’ultimo periodo 2000-2005, oppure mantenersi stabile, in quanto espressione non di una “nuova era” di accumulazione – per cui si avrebbero elevati tassi di incremento produttivo mondiale – , ma di crescente sovrapproduzione che il mercato estero deve assorbire, e dunque a sua volta come fattore di accelerazione verso l’esplosione catastrofica del processo di sovrapproduzione cronica in atto da oltre un trentennio. Tale processo non è solo determinato dalla quantità esuberante di capitali e di merci, ma da un insieme di fattori contrastanti, fra i quali il rapporto di forza tra i vecchi e nuovi imperialismi, che tra breve andremo ad esaminare riguardo all’argomento qui trattato.

 

Rimando ad ulteriori approfondimenti

 

Come è desumibile da quanto abbiamo premesso, l’analisi che andiamo svolgendo prende in considerazione il solo commercio estero dei beni, e non anche quello dei servizi, in quanto non solo e non tanto di gran lunga superiori come valore (non potrebbe essere altrimenti, alla faccia della cosiddetta fase “post-indutriale”), ma anche perché esso è direttamente connesso con la produzione di beni, base reale su cui poggia la ricchezza materiale, la potenza economica degli Stati e i rapporti di forza fra gli stessi. Inoltre, in tale ambito prendiamo in considerazione le sole esportazioni, tralasciando le importazioni, in quanto a livello generale o complessivo non vi sono andamenti differenti e un’esposizione relativa a quest’ultima sarebbe ripetitiva a livello globale, fatta salva la particolarità per singoli paesi (tra cui meritano attenzione gli Usa). Ma, al riguardo, si rimanda alle successive trattazioni sia sulle materie prime, energetiche e agricole, sia sulla Bilancia commerciale e dei pagamenti, onde meglio individuare anche su questo fronte i punti di debolezza o di forza delle singole potenze in competizione, la dinamica degli attriti e dello sgretolamento dell’instabile equilibrio mondiale. Tuttavia, non possiamo che annotare qui brevemente alcune considerazioni, del resto ben conosciute, riguardo agli Usa e ai rapporti monetari, base su cui avvengono gli scambi commerciali.

Sul fronte delle importazioni, gli Stati Uniti d’America ne incamerano, nel 1950, il 15% del flusso mondiale, e sono esportatori netti in crescita, ad esclusione del 1959, fino al 1967. Dal 1968, il trend si inverte irrimediabilmente (una delle cause della fine del Gold Standard e degli accordi di Bretton Wood). Da allora, la loro Bilancia commerciale dei beni è in progressivo deficit, a parte il 1970 e il 1975, e nel 2005 tocca, per tale anno, la cifra astronomica di 825 miliardi di dollari. Se gli Usa assorbono il 16,2% delle importazioni mondiali (toccando il massimo storico nel 2000 con circa il 19%), il deficit commerciale rappresenta circa 8% delle esportazioni mondiali (detto di passaggio, l’altro parassita in deficit crescente è l’alleato inglese). Ora, quale incidenza avrà questo deficit sull’incremento della produzione industriale mondiale è difficile dire: ma senza ombra di dubbio, se gli Usa da grandi creditori sono divenuti il più grande debitore del mondo e continuano a consumare più di quanto producano vivendo da parassiti, al tempo stesso, assorbendo una quantità sempre più ampia di beni, scremano la sovrapproduzione mondiale, attenuano e posticipano il prorompere della crisi e così accrescono, loro malgrado, il potenziale produttivo altrui, soprattutto dell’Asia orientale (Cina in testa), verso la quale hanno il debito maggiore. D’altra parte, rinviando gli approfondimenti al riguardo alla futura indagine specifica sulla questione monetaria, basti dire qui che il deficit americano è sorretto unicamente dalla posizione preminente del dollaro, come valuta mondiale di scambio e di tesaurizzazione (riserve), dietro cui stanno il capitale finanziario e il pilastro principe della forza militare. Così, gli Usa non solo battono carta straccia per consumare più di quanto producano, ma ricevono nuovamente i loro dollari provenienti sia dai paesi produttori di petrolio (come depositi nelle loro banche che per acquisto dei loro beni, in particolare armamenti) sia dai suoi maggiori creditori (come Giappone e Cina) sotto forma di finanziamento del loro debito pubblico. Il dollaro, dunque, in particolare quando è forte nei confronti delle altre monete, ha un movimento tendente ad autonomizzarsi rispetto al proprio valore, alla competitività delle merci americane, alla bilancia dei pagamenti in progressivo deficit. Ricordiamo che la base che determinata i rapporti di cambio è la produttività del lavoro (e la bilancia commerciale americana mostra quanto questa in generale sia inferiore ai concorrenti); poi, intervengono altri fattori, quali la domanda/offerta della moneta nazionale come mezzo di scambio internazionale, di tesaurizzazione, di speculazione, e non ultima la potenza militare, a sostegno di tutto il resto. Per gli Usa, è questo secondo insieme di fattori che prevale sul primo, falsificando tutti i rapporti (allo stesso modo, la legge del valore, su cui si basa il modo di produzione capitalistico, appare “non reale” per effetto della concorrenza e, nella fase imperialistica, sembra addirittura scomparire per effetto della predominanza del capitale finanziario, della droga del credito e di tutto quello che questo dominio comporta). Tuttavia, questi fattori gli Usa non sono in grado di falsificarli costantemente, in quanto alla base vi sono pur sempre le condizioni economiche reali e i conseguenti rapporti di forza che alla fine dicono l’ultima parola. Il trend declinante, in senso relativo, della potenza economica americana, a cui gli Usa oppongono tutta la propria forza extraeconomica, si riflette nelle ricorrenti fasi di debolezza del dollaro, di cui l’attuale è in corso dal 2001-2002. La debolezza del dollaro è teoricamente favorevole alle esportazioni e alla riduzione delle importazioni e quindi all’esposizione debitoria statunitense: e ad esempio, dato che è l’unica valuta su cui si regolano e avvengono gli scambi petroliferi 25 [xxiv], si riflette in un aumento del prezzo del petrolio (a parte i movimenti speculativi che lo investono) permettendo quindi agli Usa di sfruttare i propri pozzi petroliferi precedentemente fuori mercato e ai concorrenti con valute agganciate al dollaro o svalutatesi di riflesso di subire un aumento della loro “bolletta” energetica, ossia dei costi di produzione. D’altra parte, ciò non è favorevole per i Paesi creditori, tesaurizzatori e investitori in dollari, produttori di petrolio che vedono i loro portafogli assottigliarsi mano a mano che il biglietto verde perde valore – perdita che, se diviene consistente e repentina, per determinate cause in rapida evoluzione (quali una forte crisi finanziaria in terra americana) può determinare una fuga in massa dal dollaro e quindi innescarne il crollo – un crollo che sarebbe la catastrofe americana e, con effetto a catena, mondiale. Nessuno, e tanto meno i maggiori detentori di dollari e i maggiori creditori degli Usa, ha interesse a che il dollaro crolli, ma nessuno è in grado di evitarlo.

Rimandando quindi a specifici approfondimenti su tale argomenti, torniamo al nostro tema, che come vedremo mostra, nel dipanarsi della serie storica delle quote di ripartizione del commercio estero mondiale, i dialettici rapporti con quanto ora accennato.


L’evoluzione delle ripartizione delle quote del commercio mondiale

 

a) I sei grandi e la Russia

Osserviamo in primo luogo, dalla Tabella 13, il peso complessivo dell’insieme dei sei paesi più industrializzati della terra in rapporto al mercato mondiale, ponendo a confronto i due anni estremi del periodo 1948–2005. Il trend è declinante e già questo è significativo. Ma a ben guardare, la traiettoria discendente è tutt’altro che una linea costante prima del 1992.

La fine della guerra impone un forte ridimensionamento soprattutto agli Usa e secondariamente all’Inghilterra. Il 1950 rappresenta il punto più basso da cui risalire la china. La traiettoria è ascendente, in concomitanza con la grande espansione produttiva, fino a toccare il punto massimo nel 1970 e preannunciando a partire dall’anno successivo la crisi del 1974/75, i cui effetti si riverberano fino al 1976. Il recupero è però breve. Nel 1979, si ha nuovamente un calo che segna il riproporsi della crisi degli anni 1980: come insieme, i sei briganti restano più o meno stazionari per i successivi quattro anni, recuperando però fino alla crisi del 1991, anno in cui toccano il punto massimo di tutto il periodo in esame, con circa il 49% dell’esportazione mondiale. Da tale punto massimo, la quota del G6 lentamente quanto progressivamente, senza soluzione di continuità, decresce fino al 2005 e, perdendo dal 1991 ben oltre 13 punti percentuali, si attesta col 35,41% sotto la quota del 1950. Per converso, è il “Resto del mondo” che guadagna quanto perdono i big six. Ma, per quanto riguarda il “Resto del mondo”, classificato sviluppato (Australia e Nuova Zelanda) e in via di sviluppo, mentre Oceania, Africa e America Latina perdono progressivamente posizioni (nel 1948, detengono il 25,09% delle esportazioni mondiali, mentre nel 2005 il 9,56%, in lieve recupero rispetto al punto minimo del 7,88% toccato nel 1995), è l’Asia in via di sviluppo che accresce progressivamente la sua quota, dall’11,65% nel 1948 al 27,58% nel 2005 – crescita che è poi dovuta essenzialmente all’Asia Orientale (sempre Giappone escluso), che nello stesso periodo aumenta di quasi tre volte, passando dal 5,74% del 1948 al 20,97% del 2005. Tuttavia, la grande riscossa dell’Asia avviene dopo il 1970, anno che segna il punto minimo e di svolta della traiettoria discendente continua dalla fine del secondo conflitto imperialistico. La grande espansione del secondo dopoguerra dei paesi occidentali vede conseguentemente aumentare la loro quota fino al 1970, mentre è soprattutto l’Asia Orientale che, anche a causa delle lotte nazionali contro il giogo imperialistico e dello sviluppo del capitalismo nel suo stesso seno, subisce il dimezzarsi della sua quota rispetto al punto massimo del periodo, registrato nel lontano 1951. Lo sviluppo impetuoso del capitalismo asiatico si riversa a partire dagli anni ’70 anche nel mercato mondiale. Dal punto minino del 1970 al 2005, la quota dell’Asia Orientale quasi quadruplica, mentre l’insieme dei Sei Grandi, dopo il colpo di coda degli anni ’80, decresce progressivamente a partire dal 1992, confermando chiaramente quanto abbiamo già indicato in precedenza: da un lato, la fasce discendente dell’Occidente e, dall’altro, la contemporanea ascesa dell’Oriente. Due traiettorie irreversibili, fonte del mutamento dell’equilibrio mondiale uscito dal secondo conflitto imperialistico, che prima o poi devono entrare in collisione. Ma fin qui siamo rimasti a livello di grandi insiemi o aree e, per quanto sia questa l’indicazione di carattere generale, occorre scendere al livello particolare, ai singoli stati capitalistici, in quanto l’equilibrio capitalistico, che non è un equilibrio statico, bensì dinamico, fatto di continue oscillazioni con insanabile tendenza alla rottura, è determinato dai rapporti di forza tra i maggiori capitalismi nazionali tra loro concorrenti per la spartizione del bottino mondiale. Tali rapporti sono determinati dalla potenza economica, finanziaria, politica e militare che ogni imperialismo mette in campo: ma tale potenza muta e conseguentemente mutano i rapporti di potenza, in quanto nel capitalismo non può darsi sviluppo uniforme sia a livello di tutte le singole imprese, sia a livello di rami d’industria, monopoli, trust, e di singoli paesi ed aree, e «non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza?» [26].

Rivolgiamo dunque l’attenzione in primo luogo all’imperialismo egemone anche politicamente, uscito dal secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti d’America, e per converso ai suoi diretti, vecchi e nuovi, concorrenti. Nel 1948, gli Usa detengono circa il 25%del commercio mondiale, e ciò grazie alla guerra imperialistica che ha innalzato loro e ridotto al lumicino vinti e vincitori (vedi precedente nota 213). Tuttavia, tale quota è ben al di sotto del 50% e oltre della produzione industriale detenuta: il che mostra che al commercio mondiale concorrono anche paesi meno sviluppati industrialmente. Nel 1950, con la ripresa economica (che per i paesi europei supera in tale anno, dal lato produttivo, il livello pre-guerra), la quota mondiale americana si ridimensiona notevolmente, non tanto per effetto di una diminuzione significativa del volume delle esportazioni (che a parte la contrazione nel 1950, dal 1948 al 1951 resta invariato, mentre l’attività produttiva è sostenuta dalla guerra di Corea), quanto invece per il maggior aumento delle esportazioni degli altri paesi e conseguentemente del volume mondiale – ridimensionamento che, con il progredire dell’espansione economica, prosegue inesorabile verso il basso, mentre al contempo gli Usa devono assistere al risorgere della concorrenza dei vecchi paesi europei e in particolar modo della Germania e del Giappone.

Se nel 1973, a ridosso della crisi del 1975, gli Usa perdono quota passando dal 16,16% del 1950 al 12,14% del commercio mondiale (il che non è poco dal punto di vista assoluto), essi perdono assai più nel rapporto relativo, in quanto nel frattempo la Germania e il Giappone hanno grandemente aumentato il loro mercato estero: il Giappone ha allargato la sua fetta di mercato di quasi 4 volte e la Germania di oltre 2,5 volte, ed è soprattutto quest’ultima che soffia sul collo al sempre più traballante primato americano, detenendo l’11,58% del commercio estero mondiale, massimo storico mai più successivamente raggiunto fino ad oggi.

La crisi del 1975 interrompe temporaneamente il trend da un lato di diminuzione degli Usa (che restano più o meno stabili per molti anni a venire grazie ad aver preceduto i concorrenti in forti ristrutturazioni, concentrazioni e soprattutto nella compressione del salario, oltre ad avere un dollaro debole) [28], e dall’altro di crescita della Germania, che subisce maggiormente la successiva crisi degli anni ’80, mentre il Giappone continua la sua espansione industriale e con essa quella commerciale (la sua quota cresce ininterrottamente fino al 1986, anno in cui USA, Germania e Giappone si fronteggiano più o meno in egual misura, sebbene sia la Germania a strappare per la prima volta, anche se di poco, il primato agli Usa, mentre il Giappone raggiunge la quota massima del 9,82%).

Dal 1986 al 1990, con la sola eccezione del 1989, la Germania mantiene il primato mondiale delle esportazioni (ricordiamo qui l’effetto sull’apprezzamento del marco sul dollaro perdurante fino al 1995, dovuto non soltanto all’Accordo del Plaza nel 1985), mentre il Giappone decresce lentamente, sia per la forte rivalutazione subita rispetto al dollaro con l’Accordo sopra citato, determinante una stagnazione delle esportazioni verso gli Usa che sono il suo principale cliente e debitore, sia per l’avvicinarsi della crisi del 1991 e della fine del tanto osannato e copiato “modello” di sviluppo.

Con la caduta del muro di Berlino e dell’impero sovietico e la crescita drogata americana degli anni ’90, gli Usa si riprendono e mantengono il primato delle esportazioni mondiali per il restante periodo dell’ultimo decennio del XX secolo. La Germania è senza dubbio quella che subisce maggiormente gli effetti sia della sua riunificazione sia del crollo dell’Urss, sia infine del più marcato rallentamento dell’economia europea, verso cui si rivolge oltre il 60% della sua esportazione, a cui va ad aggiungersi una diminuzione già iniziatasi dal 1987 delle esportazioni verso l’America del nord (di cui una concausa è qui probabilmente il marco forte, come sopra accennato). Mentre gli Usa, dal 1991 al 2000, sono nuovamente i primi esportatori mondiali, mantenendosi mediamente sul 12% con un recupero di circa due punti percentuali rispetto al punto più basso del 1987, la Germania dal 1995 scende sotto quota 10% toccando il punto minino di quest’ultimo periodo nel 2000 con l’8,57%.

La stagnazione-recessione che colpisce il Giappone dal 1991 trova sul fronte del commercio estero una progressiva diminuzione relativa delle sue esportazioni. La quota del 9,60% del 1993 si riduce progressivamente al 7,05% nel 1998 e, con la crisi del 2001, va in caduta libera fino al 2005, riducendosi di oltre un terzo rispetto a 12 anni prima.

La Russia risale lentamente la china dalla dissoluzione dell’impero sovietico, dal tracollo degli anni ‘90 e dalla crisi del 1998. La sua quota è di gran lunga la più bassa rispetto ai Sei Grandi e anche ad altri paesi minori (Corea del Sud, Belgio) e sia la sua fetta di mercato che la lenta risalita del suo peso relativo sono legate principalmente agli armamenti e in particolare alle esportazioni energetiche, su cui gioca favorevolmente in questi anni la crescita del prezzo del petrolio. Tuttavia, pur restando relegata a queste produzioni, l’essere la Russia il secondo e il primo produttore/esportatore mondiale di idrocarburi liquidi e gassosi, il più grande (per estensione) stato mondiale e la seconda potenza militare (più come forza deterrente che effettiva, se si esclude la potenza atomica), per citare i fattori principali e senza approfondire ulteriormente i collegati aspetti geo-storici ed extraeconomici, permette alla sua relativamente limitata potenza economica di avere un peso maggiore nei rapporti di forza interimperialistici, come sta mostrando in questi ultimi anni, e così di influenzare la contesa tra i grandi competitori sul mercato mondiale.

La crisi del 2000, che colpisce in primo luogo gli Usa, segna anche la fine del cosiddetto secondo miracolo economico statunitense. Dopo tale anno, gli Usa riprendono la traiettoria di discesa o di declino, frenata dalla reaganomics degli anni ’80 e interrotta temporaneamente dagli eventi dell’ultimo decennio del XX secolo. A differenza della prima guerra del Golfo, la seconda non apporta alcun temporaneo benefico alla loro Bilancia dei pagamenti in caduta libera. Nel 2005, la loro quota, con l’8,69%, è al punto più basso dal 1950, mentre la Germania, digerita la riunificazione e attuate le imponenti ristrutturazioni e delocalizzazioni, torna a recuperare progressivamente e dal 2003 al 2005 è nuovamente il primo esportatore mondiale. Tuttavia, anche la quota tedesca non è più, nel suo valore assoluto, quella raggiunta in passato e ciò vale ancor più per Inghilterra, Francia e Italia, che dal 1990 vedono progressivamente ridurre le loro quote: ciò in quanto, sulla scena mondiale, i principali storici attori non devono fare i conti soltanto fra loro, ma anche con i nuovi paesi emergenti, in particolare dell’Asia Orientale, tra i quali sempre più si fa largo il gigante cinese.

b) La Cina

Osservando sia la Tabella 11 che la Tabella 13, si può bene riscontrare come l’andamento delle esportazioni cinesi sia significativamente collegato con quanto abbiamo evidenziato a proposito della produzione industriale. La quota del commercio estero regredisce in concomitanza con gli avvenimenti del “Grande Balzo in avanti” (sul finire degli anni ’50) e della “Rivoluzione Culturale” (nella seconda metà degli anni’60), e dal 1968 al 1980 resta al livello più basso della sua storia, mentre il capitalismo cinese è ancora dedito a rafforzarsi al suo interno e soffre della mancanza di capitali. Nel 1977, con l’annuncio delle “quattro modernizzazioni”, dietro cui sta la spinta del capitale cinese a scrollarsi di dosso quei vincoli che erano stati prima necessari per formarsi le ossa, la Cina si avvia a fare il suo “nuovo” ingresso sempre più prorompente nel mercato mondiale. A partire dal 1978: riforma agraria con smantellamento delle improduttive comuni; accelerazione dello sviluppo capitalistico nella campagna con conseguente aumento della produttività ma anche liberazione di forza-lavoro per l’industria; liberalizzazione dell’economia con politica della “porta aperta” per attrarre capitali stranieri (legge 1979 sulle “imprese miste”) [29]; creazione a tal fine nel 1980 di quattro zone economiche speciali nel sud costiero, designate come motori dello sviluppo, ecc. – tutto ciò è espressione dello sviluppo del capitalismo in Cina e al contempo della necessità di espandersi nel mercato mondiale, al prezzo di notevoli squilibri interni.

Dal 1981 al 1995, il ritmo annuo di incremento delle esportazioni è del 12,67%, quasi triplicando rispetto al periodo 1959-1980, e la quota mondiale aumenta di oltre tre volte rispetto al livello minimo del 1977. Dopo la battuta d’arresto del 1996, per effetto dell’approssimarsi dell’esplosione della crisi asiatica, la marcia cinese continua inarrestabile e, dal 2001 (anno di ingresso nel WTO dopo circa 15 anni dalla richiesta avanzata nel lontano 1987) al 2005, mette a segno un incremento medio annuo del 25%, distanziando notevolmente la Germania (incremento medio di circa il 10%) e soprattutto gli Usa (un misero 1,5%). Così, dal 2000, brucia posizioni su posizioni sul mercato mondiale e nel 2004 soppianta il Giappone, portandosi al terzo posto nella graduatoria mondiale e sempre più a ridosso degli Usa e della Germania.

La Tabella 14 riassume da un altro punto di vista chi scende e chi sale. Dal 1980, la Cina contribuisce progressivamente e a grandi balzi all’espansione delle esportazioni mondiali e nell’ultimo periodo 2000-2005 determina 1/6 della crescita mondiale, raggiunge il peso del 28% di tutto il Resto del Mondo industrializzato e in via di sviluppo, supera la stessa Germania (che pure concorre con un buon 11%), mentre i cinque grandi regrediscono, con gli USA che addirittura flettono negativamente.

La lotta per il primato è appena cominciata.

 

Il collimare delle coordinate tracciate

 

Posto che il trend produttivo dell’Asia orientale e in particolare quello del Celeste Impero si mantenga ancora sui livelli medio-alti di questi ultimi anni (e ciò è probabile che avvenga ancora per un certo periodo), condizione essenziale perché questo avvenga è che la Cina incrementi ulteriormente a grandi passi le sue esportazioni e dunque la sua quota mondiale. Ora, la Cina non esporta soltanto gadgets e cotillons; non detiene soltanto nel 2001-2003 il 20% dell’esportazione mondiale dell’abbigliamento. Dal 1987 al 2003, la quota delle sue esportazioni di beni primari sul totale delle esportazioni è diminuita dal 38% al 9%. La quota dei beni a cosiddetta alta intensità di lavoro (per noi, bassa composizione organica del capitale) è diminuita dal 36% al 28% sempre sul totale esportato, mentre è quasi raddoppiata quella a debole e media intensità tecnologica (dal 10,4 al 19,3) e soprattutto è decuplicata passando dal 3% è al 30% la quota dei prodotti elettronici (communications equipment, computer and office machines, parts and components) [30].

Sempre più la Cina sarà costretta a invadere il mercato dei prodotti cosiddetti ad alto valore aggiunto che sono ancora prerogativa dei maggiori paesi industrializzati e, in primo luogo, come diretto concorrente del Giappone, il quale dovrà riarmarsi, dismettendo dapprima la maschera pacifista impostagli alla fine della seconda guerra mondiale. E’ indiscutibile che ben presto la Cina sarà il primo esportatore mondiale, accelerando, con il contributo degli altri principali attori (tra cui la Germania), la disgregazione dell’equilibrio capitalistico già progressivamente incrinato nel corso degli ultimi 30-40 anni. Questo processo di disgregazione dell’economia mondiale, con i conseguenti prolungamenti politici e militari, in pari tempo ha e avrà i suoi effetti sui rapporti di classe all’interno dei singoli paesi capitalistici. Se l’Asia orientale e la Cina sono stati e sono un fattore di sostegno del mercato mondiale, via via che al loro interno si accentueranno le contraddizioni economiche e la lotta di classe, sempre più saranno al contempo un fattore disgregativo dell’instabile ordine mondiale e di accelerazione della crisi generale – non solo incrementando la sovrapproduzione e la competizione mondiale, ma anche provocando accelerati rimescolamenti della divisione internazionale del lavoro: aggiungendo ad esempio alla delocalizzazione sempre più spinta ampi processi di deindustrializzazione nelle metropoli imperialiste, con un aumento, da un lato, della disoccupazione industriale e della precarizzazione di vasti strati del proletariato e, dall’altro, della proletarizzazione di ampi strati della piccola e media borghesia intraprenditrice e non. Questo contesto di spogliazione e pauperizzazione generale si accompagna alla necessità del capitale di comprimere progressivamente, con forme dirette e indirette (riduzione delle guarentigie del welfare state), le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia occidentale verso i livelli della classe operaia dei paesi in via di sviluppo, sottoposta a uno sfruttamento che oltrepassa in ampiezza, e forse anche in profondità, quello dell’Occidente ottocentesco. Forme che vanno a sommarsi a ciò che il capitale ottiene senza ingaggiare alcuna lotta: ciò che i libero-scambisti borghesi riconoscono ad esempio nelle esportazioni cinesi come benefico contribuito a mantenere bassa l’inflazione nelle metropoli imperialistiche in realtà maschera quello che è sempre stato il portato del “libero commercio”, e cioè: riduzione del prezzo della forza-lavoro abbassandone il costo dei mezzi di sostentamento, compressione del salario medio al minimo, aumenti dei ritmi e dell’orario di lavoro.

 

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Gli auspici di Stapleton, di cui parlava Marx nella citazione riportata agli inizi, sono dunque sempre più in via di realizzazione. Ma al contempo si verificheranno anche altre situazioni: l’aristocrazia operaia (creata dall’imperialismo arraffando sovrapprofitti dal resto del mondo) si va e andrà ad assottigliare come quota in rapporto al resto della classe proletaria delle metropoli imperialistiche ancora alla mercè dell’oppio opportunista, e le diversità delle condizioni di vita e di lavoro delle varie parti della classe operaia mondiale tendono e tenderanno a ridursi, uniformandosi al peggio.

Un buon lavoro svolge dunque il cosiddetto neo-liberismo, il capitalismo selvaggio, il libero movimento del capitale, che ovviamente si attira gli strali delle mezze classi del mondo intero! Mentre il protezionismo è conservatore, il libero commercio è distruttivo: non solo dissolve gli antichi modi di produzione, sgombra il campo dai residui del passato, ma spinge all’estremo l’antagonismo fra borghesia e proletariato.

La globalizzazione del capitale è la globalizzazione del suo nemico e affossatore e solo il modo di produzione capitalistico è in grado, obtorto collo, di creare le condizioni oggettive per il risorgere politico del suo becchino.

 

 

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