I riformisti di tutte le risme (oggi, tutti “ex” o “post”, visto che lo stalinismo ha concluso la sua funzione mistificatoria e ha infine confessato la sua vocazione democratica di conservazione borghese, riagganciandosi non solo ai socialdemocratici ma a tutte le corporazioni politiche che vogliono riempire di “umanità” il modo di produzione capitalistico) si sono sempre compiaciuti di presentare il rivoluzionario come un elemento più o meno agitato, violento per natura, portato all'impazienza, incapace di aspettare. Il partito rivoluzionario, secondo loro, sarebbe un'organizzazione di “sparafucile”, di coloro che, senza una teoria, senza un programma ben definito, senza una tattica, tenderebbero semplicemente a “rompere tutto”, a “bruciare tutto”, e via discorrendo.

E, nel propinare ai proletari (cioè a tutti coloro che per vivere possono solo vendere la propria forza-lavoro, fisica o mentale che sia) questa stupida e ignorante visione delle finalità e dei compiti del comunismo rivoluzionario,  i riformisti sfruttano la presenza tra le file proletarie, ieri, di raggruppamenti anarchici, e oggi, di ben più buffoneschi raggruppamenti la cui vocazione è effettivamente solo quella di creare confusione con richieste apparentemente ultra-radicali, argomenti capricciosamente antagonisti e addirittura l'uso e l'abuso del militarismo terrorista e della vendetta armata.

L'espediente di far passare il comunista rivoluzionario o per “anarchico” o per “velleitario” o per “terrorista” è dunque vecchissimo. “Anarchici” furono chiamati Lenin e il partito bolscevico dai socialdemocratici dell'epoca; e per “anarchici” i socialdemocratici e i riformisti di ogni risma tentano di far passare oggi noi. In realtà, il comunismo è rivoluzionario per ben altre ragioni: quelle stesse che incutono sacrosanto terrore in ogni sostenitore democratico (o fascista, poco importa) del modo di produzione capitalistico. È la visione scientifica della realtà sociale che porta il Partito Comunista a sostenere la necessità dello scontro violento fra le classi e della dittatura del proletariato; è la stessa visione scientifica che qualifica il riformista come un agente della classe dominante tra le file del movimento proletario.

Il Manifesto del Partito Comunista (1848) inizia con la dichiarazione che la storia è “storia della lotta fra le classi” e che finora questo lotta è sempre finita “o con una trasformazione rivoluzionaria della società o con la rovina comune delle classi in lotta”. Questo concetto è, per i veri comunisti, basilare: lo sviluppo delle forze produttive determina la divisione della società in classi, che non possono non essere in lotta fra di loro, perché i loro interessi materiali sono inconciliabili. Il modo di produzione capitalistico non solo non elimina la divisione della società in classi, ma anzi la porta al grado estremo: la società si divide in due campi antagonistici. Da una parte, i proletari che sono privati dei mezzi di produzione e possiedono solo la propria forza-lavoro: cioè, lo ripetiamo, la capacità fisica o mentale di lavorare; dall'altra, la borghesia che possiede i mezzi di produzione: cioè, il monopolio della proprietà delle aziende, sotto forma individuale, o di società per azione, o di trust (le multinazionali), o di cooperativa, o addirittura di proprietà statale. E, grazie a questo, sfrutta i proletari: estorce loro un sopra-lavoro (cioè, lavoro non pagato: tutto ciò che supera il costo di mantenimento e riproduzione sociale della classe proletaria, intesa come semplice dato economico) che si chiama profitto e che serve non solo alla “riproduzione” del capitale stesso, ma anche (e nell'epoca imperialistica ciò è sempre più evidente) a mantenere coloro che non esercitano un lavoro produttivo e alimentano la pletora delle mezze classi.

In termini molto semplici, una parte della società è costretta, per vivere, a vendere la sua forza-lavoro all’altra, che vive con il sopra-lavoro strappato alla prima. È chiaro che gli interessi delle due classi sono opposti: non possono esistere interessi comuni fra chi lavora e chi vive del lavoro altrui. E questa situazione non è propria della sola società capitalistica, ma è comune a tutte le formazioni sociali che l’hanno preceduta, almeno dopo la fase del comunismo primitivo che non conosceva né proprietà privata né divisione della società in classi.

Divisione della società in classi

Nell’epoca del comunismo primitivo, la società non era divisa in classi. Essendo Il lavoro umano scarsamente produttivo (caccia, pesca, raccolta), tutti i membri validi di una data comunità dovevano lavorare nel campo della produzione immediata: lavoravano i bambini, lavoravano i vecchi (ai quali, femmine e maschi, erano affidate le funzioni “culturali” ed “educative”, cioè la trasmissione delle esperienze produttive e riproduttive del gruppo alle nuove generazioni e, in molti casi, come accadeva ai più esperti, le decisioni di carattere generale), lavoravano le donne che non rimanevano confinate e subordinate nella loro funzione riproduttiva, come si potrebbe pensare superficialmente. Il lavoro era dunque svolto da tutti i membri del gruppo, secondo le loro capacità e possibilità naturali, e anche gli altri compiti erano eseguiti in comune da tutti quanti vi erano idonei.

Quanto al prodotto del lavoro, esso apparteneva a tutto il gruppo sociale, e ogni singolo ne consumava a seconda dei suoi bisogni e delle disponibilità totali. Quando ci si scontrava con un altro gruppo, cui si contendeva l’utilizzo di un terreno di raccolta (in senso lato), i membri del gruppo sconfitto o erano uccisi o erano assimilati al gruppo vincitore: tutto dipendeva dalla disponibilità immediata dei beni d’uso.

Quando il lavoro umano, grazie alla rivoluzionaria scoperta dell’agricoltura (presto seguita dall’addomesticamento di qualche specie animale), diventa capace di produrre qualcosa di più di quanto serve al consumo immediato, comincia ad apparire la divisione in classi. Da un lato, la maggiore disponibilità di prodotti permette l’immissione nel gruppo sociale di altri membri provenienti da tribù sconfitte in guerra, i quali non sono più uccisi, ma adibiti a un lavoro produttivo al posto dei vincitori (il relativo progresso tecnico permette loro infatti di produrre il necessario non solo per sostenersi, ma anche per mantenere i loro padroni); dall’altro, le funzioni generali, che precedentemente erano comuni, divengono appannaggio di una sola parte del gruppo: è ovvio, per esempio, che mentre i vinti saranno adibiti per tutto il loro tempo e per tutta la loro vita al lavoro immediatamente produttivo, l’uso delle armi sarà riservato al gruppo vincitore, e così pure le funzioni generali di direzione – il cosiddetto lavoro intellettuale.

A questo punto, nella storia umana appare lo Stato come organizzazione politica.

Lo Stato

Che cos’è lo Stato? Alcune funzioni di direzione e amministrazione generale del gruppo sociale esistevano già nell’epoca del comunismo primitivo, ma in generale erano svolte con scarsissime differenziazioni tra i membri del gruppo: per lo più, chi apparteneva a un determinato gruppo era, nello stesso tempo, raccoglitore e guerriero, contabile e sciamano, o almeno nessuna delle funzioni sociali utili gli era per principio negata. Una specie di Stato, in quest’epoca lontana, si può dunque identificare con il gruppo sociale stesso ed è l’espressione collettiva del coordinamento di tutte le “operazioni” produttive e riproduttive.

Ma, quando si verifica la divisione di cui si è detto, lo Stato non s’identifica più con la società,  coloro che svolgono il lavoro produttivo non sono più ammessi a prendere ed eseguire le decisioni generali, e lo Stato assume un altro compito, prima del tutto sconosciuto: oppressione e repressione di una parte del gruppo sociale a vantaggio di un’altra; ed è questa la caratteristica specifica di ogni Stato finora esistito, compreso lo Stato “democratico” borghese. Anzi, come c’insegna Engels, lo Stato esiste come entità separata dalla società, elevatasi al di sopra di essa proprio perché deve svolgere una funzione repressiva. Finché la società sarà divisa in classi, esisterà necessariamente lo Stato così come, quando non ci sarà più nessuno da reprimere, anche lo Stato scomparirà; o, meglio: le sue funzioni rientreranno di nuovo nella totalità delle funzioni puramente amministrative e di coordinamento della produzione e della riproduzione di specie.

La situazione è chiaramente comprensibile. Nel comunismo primitivo, tutti i membri validi di un gruppo usano strumenti vuoi per combattere, vuoi per raccogliere, vuoi per cacciare; il guerriero non è nulla di diverso o separato; la sua funzione non ha bisogno di particolari riconoscimenti; egli non dispone di alcun potere speciale sul resto del gruppo, tutti sono in grado di svolgere la sua stessa funzione, e la svolgono effettivamente. Quando invece una parte del gruppo è adibita esclusivamente a un lavoro produttivo, e un’altra vive di questo lavoro, la figura del guerriero diventa una figura a sé e la sua funzione si complica: da una parte, mantiene i vecchi compiti di difesa o di attacco contro gli altri gruppi sociali, dall’altra, si arroga il compito di difendere con le armi l’assetto sociale proprio del suo gruppo. L’organizzazione degli uomini armati serve d'ora in poi al mantenimento dei particolari rapporti sociali che permettono a una parte del gruppo di non lavorare, e costringono l’altra a lavorare per la prima.

Quello che succede per l’esercito, succede per tutte le altre funzioni.

Lo Stato diviene così un apparato di forza, che serve alla classe dominante per tenere soggetta la classe sfruttata e, secondo la definizione del Manifesto, è “il comitato di amministrazione degli interessi della classe dominante”. Lo Stato, qualunque ne sia la forma o la complessità, rappresenta perciò sempre la dittatura di una classe su un’altra; non può essere né “libero”, né “democratico”, né “di tutto il popolo”; è sempre dittatoriale e oppressore, e tanto più oppressore quanto più si proclama “libero” e “democratico”.

L’essenza della democrazia

Che cosa è allora la democrazia? La democrazia nacque in Grecia nel VI secolo a. C., e la realizzazione del primo Stato democratico della storia si ebbe ad Atene. In che cosa consisteva questa nuova formula di Stato, che i greci stessi elevarono a sinonimo di libertà politica? Essenzialmente in questo: essa garantiva la libertà a diverse frazioni della classe dominante, negandola alla classe dominata. Ad Atene, la divisione in classi, nel senso che abbiamo detto, si era già verificata: una parte della popolazione viveva in condizioni di schiavitù e svolgeva il lavoro produttivo; un’altra sfruttava il lavoro degli schiavi; ma a sua volta la classe dominante era formata da strati sociali diversi i cui interessi non coincidevano se non nei confronti della classe servile: così i grandi proprietari terrieri, i piccoli e i medi proprietari contadini, i commercianti, gli artigiani. Tutti questi ceti sfruttavano il lavoro degli schiavi, ma erano in contrasto circa la spartizione e destinazione del sovra-prodotto a quelli estorto, ed è a causa di tale disputa che sorse la necessità di una forma di Stato democratico. Ogni strato della classe sfruttatrice voleva partecipare alla direzione della società e, per assicurarsi questa partecipazione, doveva lottare contro gli altri, controllarli, ridurre il grado d’influenza: la forma di Stato che permetteva questa lotta reciproca per la spartizione della preda e, nello stesso tempo, il mantenimento in soggezione della classe sfruttata fu appunto lo Stato democratico, rappresentativo.

In pratica, le cose possono rappresentarsi in questo modo: l’artigiano, il commerciante, il proprietario terriero, sfruttano tutti e tre il lavoro dello schiavo, cioè gli rubano una parte del prodotto del suo lavoro; ma se lo Stato, cioè la forza armata e la facoltà di prendere decisioni, fosse solo nelle mani del proprietario terriero, l’artigiano e il commerciante sarebbero costretti a versare a lui la propria refurtiva; quindi, essi rivendicano la “libertà” di partecipare alla direzione del potere pubblico, di parlare liberamente, e di prendere decisioni “secondo gli interessi della città” (cioè, degli artigiani, dei commercianti e dei proprietari terrieri). L’unica soluzione al problema così posto è uno Stato “di tutto il popolo”, cioè di tutte le frazioni della classe dominante; è la “libertà per il popolo”, cioè per tutte le frazioni della classe dominante, e via dicendo.

Democrazia significa dunque “libertà per gli sfruttatori” e loro dittatura totalitaria e repressiva nei confronti degli sfruttati. La differenza fra la democrazia antica e la moderna democrazia borghese sta solo nel fatto che la prima dichiarava apertamente di valere soltanto per la classe dominante, e non attribuiva nessun diritto né civile né politico allo schiavo, mentre la seconda, nata dopo duemila anni di dominio del filisteismo cristiano, nega qualsiasi reale diritto agli sfruttati, ma proclama sulle carte costituzionali che tutti gli uomini sono “liberi ed eguali”. Il borghese moderno, infatti, non si accontenta di sfruttare i suoi salariati, come faceva l’antico padrone di schiavi, ma pretende che facciano la guerra per lui, e proclama che, se li sfrutta, lo fa “per il loro bene” nonché “per un mandato regolarmente e democraticamente affidatogli”.

La democrazia borghese moderna, su cui i riformisti di ogni risma sono disposti a giurare a ogni piè sospinto, nacque anch’essa come Stato della classe dominante mascherato da Stato “di tutto il popolo”, e tale rimane. Nel Medioevo, la classe dei proprietari terrieri nobili sfruttava il lavoro dei servi della gleba e degli artigiani della città e si era creata a questo scopo uno Stato adeguato: lo Stato monarchico feudale. Man mano che nasceva la moderna borghesia sfruttatrice del lavoro salariato, essa pretese una rappresentanza dello Stato, avviando il processo verso una monarchia dapprima illuminata, benché assoluta, e poi costituzionale. Essa infatti sfruttava il lavoro salariato, ma i frutti di questo sfruttamento andavano a finire nelle tasche dei nobili feudali, detentori del potere politico. È evidente che la borghesia aveva interesse a una forma di Stato “rappresentativa”, in cui cioè potesse avere un ruolo politico insieme ai nobili feudali. Resa più ardita dal suo continuo sviluppo e dal fatto che a un certo punto tutta la ricchezza (cioè, tutto il frutto del lavoro estorto alla classe sfruttata grazie al nuovo modo di organizzare il lavoro “inventato” e monopolizzato dalla borghesia) si trovava nelle sue mani, essa arrivò a rivendicare la Repubblica, cioè una forma di Stato dalla quale le classi feudali (ormai “improduttive” e parassitarie, ostacoli quindi allo sviluppo compiutamente capitalistico) fossero definitivamente escluse e che doveva rappresentare ormai solo gli interessi delle varie frazioni borghesi. Ma poiché, nella lotta per la realizzazione del suo Stato, essa aveva bisogno del sostegno attivo del proletariato, dovette rappresentarlo non per quello che era in realtà (l’organizzazione garante e matrice del suo modo di produzione), ma come un’istituzione in grado di rappresentare l’interesse di “tutta la Nazione”: sostenne cioè che tutti gli uomini erano uguali di fronte alla legge perché uguali per nascita, e che il suo Stato avrebbe significato la libertà per tutti i “cittadini” che, attraverso il suffragio delegante e rappresentativo, avrebbero potuto partecipare alla vita decisionale e amministrativo.

In realtà, come ci ha insegnato Marx nel Capitale, il gioco è truccato: la borghesia monopolizza i mezzi di produzione e il prodotto del lavoro, possiede cioè il capitale (di cui il denaro è un’espressione), mentre i proletari non possiedono che la forza-lavoro e devono venderla ogni giorno per ricevere quel maledetto salario che serve per comprare quella parte del prodotto del lavoro che forma l’insieme (mutevole) dei suoi mezzi di sussistenza. La borghesia raccontò e si raccontò che tutti gli uomini erano “liberi” e che la libertà si esprimeva soprattutto nel diritto (potenziale, per altro) alla proprietà privata: questa è la vera, fondante sacralità della società borghese e la sua inviolabilità è garantita dallo Stato della borghesia. L’unica concreta libertà per i proletari è dunque ridotta al diritto di vendere la loro “proprietà” (cioè, la forza-lavoro) alla classe che ne monopolizza, nella schiavitù aziendale, l’uso. Meglio sarebbe dire che il proletariato è libero di morire di fame se nessuno compra la sua proprietà, non avendo che esigue riserve e garantendo lo Stato borghese l’uso monopolistico dei mezzi di produzione – questo il cuore del suo essere strumento di oppressione di classe.

Posto a base dello Stato questo principio, esso diventa necessariamente un’organizzazione che difende la classe dei proprietari contro gli assalti delle classi non proprietarie, tutela la borghesia e il capitale contro il proletariato che attenta alla proprietà borghese. E le carte costituzionali di tutti gli Stati borghesi sanciscono e regolano l’inviolabilità non solo della proprietà fondiaria, ma della proprietà privata di ogni mezzo di produzione, di ogni processo produttivo e della appropriazione della totalità della produzione.

In ogni angolo del mondo, dunque, se i braccianti occupano le terre di una latifondista (ma anche quelle demaniali), violano la proprietà e devono essere repressi dallo Stato; se gli operai occupano una fabbrica, violano la proprietà privata e devono essere messi in galera; se i lavoratori, durante uno sciopero, fanno un picchetto e impediscono ad altri di entrare, paradossalmente violano la proprietà che il lavoratore ha sulla sua forza-lavoro e perciò devono essere puniti; se organizzano un blocco stradale, violano il diritto degli altri cittadini a passare per quella strada, e si può sparare loro addosso, e così via. Il “libero Stato democratico” non lascia dunque ai proletari altra libertà che quella di disporre come vuole (o come gli viene indotto di credere di volere) della loro unica proprietà: la loro forza-lavoro. Ma, dato che questa non può che essere applicata ai mezzi di produzione (monopolizzati dalla classe borghese), non possono fare altro che affittarla ai “borghesi”: oppure, appunto, morire di fame.

La dittatura proletaria

Lo Stato democratico borghese è dunque, “una macchina per l’oppressione della classe proletaria” e le elezioni per sapere chi governerà questo Stato si riducono a un metodo “per stabilire una volta ogni due o quatto anni quale membro della casse dominante andrà a rappresentare e ad opprimere il popolo in Parlamento” (Lenin). Se lo Stato è una macchina per opprimere il proletariato significa che  non può essere utilizzato dal proletariato per ridurre all'impotenza la borghesia. Non solo è assurdo pensare che la classe borghese permetta di trasferire pacificamente, per via elettorale, il potere dello Stato nelle mani della classe proletaria:  è soprattutto assurdo pensare che quest’ultima possa usare gli strumenti che custodiscono, garantiscono, promuovono il monopolio borghese dei prodotti e dei mezzi di produzione,  per disarticolarlo o “riconvertirne” l’uso e lo scopo. Lo Stato borghese non si può conquistare, tanto meno “permeare”: si deve distruggere e sostituire completamente con uno strumento alternativo – tesi scientifica e pratica affermata e verificata (Parigi 1871, Pietroburgo 1917) storicamente dai comunisti. I comunisti dunque negano la tesi balorda che, quando i partiti (più o meno radicalmente) riformisti avranno la metà più uno dei voti (o, secondo una tesi anarchicheggiante, delle “astensioni”), i lavoratori “avranno il potere”,  e affermano che non ha senso conquistare lo Stato borghese. Bisogna invece distruggerlo dalle fondamenta e sostituirgli un’altra organizzazione statale, espressione diretta della classe proletaria armata. Abbiamo imparato che lo Stato è una macchina, cioè uno strumento che serve a un uso determinato: e lo Stato borghese è lo strumento che serve a garantire l’accumulazione del Capitale e quindi l’oppressione del proletariato. Questo strumento è costruito e articolato in una maniera particolare per svolgere le sue funzioni: non può svolgere una funzione diversa e opposta, cioè servire per avviare la sostituzione dell’accumulazione del capitale con la socializzazione della produzione, della distribuzione e del consumo (cioè, dell’abolizione del mercato, del lavoro salariato e della produzione per aziende) e quindi reprimere ogni rigurgito borghese.

Le costituzioni e i codici penali e civili borghesi, ad esempio, stabiliscono sanzioni contro chi viola la proprietà privata. Come potrebbero servire per espropriare (senza indennizzi) la proprietà dei borghesi? La magistratura borghese è l’organo deputato all’applicazione delle leggi ed è allenata da decenni alla repressione (più o meno indulgente) dei reati contro la proprietà commessi da quei proletari (ingenui, o preda del bisogno, o fin troppo consapevoli che il diritto è solo una forma raffinata dell’autorità, della minaccia di chi è più prepotente) che mettono in pratica, con furti e rapine (privatamente, come insegna proprio il pensiero borghese), quella redistribuzione dei redditi tanto cara ai riformisti: come si può seriamente pensare che essa possa servire alla repressione proprio contro chi vorrebbe opporsi alle espropriazioni sociali e continuare a garantirsi l’appropriazione del lavoro altrui? E lo stesso vale per l’esercito, la polizia, la burocrazia, insomma per ogni ingranaggio, piccolo o grande, dello Stato borghese. Il proletariato non sa dunque che farsene di un simile arnese: non può che distruggerlo e riorganizzare sulle sue macerie (non dalle sue macerie!) un altro Stato, un’altra macchina costruita appositamente per l’uso che s’intende farne: per reprimere la borghesia e distruggere il modo di produzione capitalistico!

Perché, dunque, i riformisti amano e difendono la democrazia? Perché non rappresentano più gli interessi autentici del proletariato (vale a dire, superare, distruggendolo dalle radici, il modo di produzione capitalistico), ma quelli degli strati meglio retribuiti dei lavoratori e delle cosiddette “mezze classi” (soprattutto la piccola borghesia urbana, intellettuali, tecnici, professionisti del nulla, tutti coloro che vivono della redistribuzione del reddito espropriato socialmente al proletariato proprio dallo Stato borghese). Costoro hanno interesse a mantenerlo in piedi per poter rivendicare alcuni miglioramenti nella distribuzione del plusvalore estratto grazie allo sfruttamento del lavoro proletario, gabellandolo come eterno, come la costituzione di una riserva permanente. E, nella difesa della democrazia e delle riforme, come nella difesa della pace, questi strati identificano la difesa dei loro benefici, siano essi un telefonino, uno stipendio alto, una casa, un pezzo di terra, la quota di un fondo di investimento l’assistenza sanitaria o la possibilità di far studiare i figli – e la diffondono tra i proletari come efficace sistema di valore, di pensiero e di stile di vita. Con ciò dimostrano la puntigliosa affermazione comunista che l’ideologia dominante, nelle società divise in classi, è sempre e comunque l’ideologia della classe dominante: e l’ideologia è il fatto ben concreto che la classe dominante, con la distribuzione delle sue micragnose eccedenze, si più presentare come “classe generale”, quella che rappresenta l’interesse di tutti!

Il proletariato rappresenta ben altri interessi: la classe dei lavoratori può liberarsi dallo sfruttamento e dalla necessità solo distruggendo dalle fondamenta l’attuale assetto sociale e sottoponendo al suo fermo dominio tutte le classi della società, finché non saranno realizzate pienamente le condizioni della loro scomparsa. Il proletariato solo in ciò è rivoluzionario. Esso esprime e usa nella sua lotta un’organizzazione e una dottrina radicalmente antagonista, rivoluzionaria; critica, combatte, demolisce la “democrazia”, la “pace”, la “libertà”, perché nella società divisa in classi del modo di produzione capitalistico queste sono solo illusioni, evanescenti miraggi che mascherano la realtà del dominio borghese. E si prepara così, nelle lotte di ogni giorno (organizzato, accompagnato, guidato dal Partito comunista), alla guerra di classe: verso l’unione interazionale, verso l’insurrezione vittoriosa, per l’esercizio dittatoriale del suo potere, negatore di ogni libertà borghese.

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