Grazie alla sistematica applicazione della critica dell'economia politica (cioè, dell’economia borghese), il nostro Partito non solo è stato uno dei pochi raggruppamenti di militanti proletari che non si è “sorpreso” dell'ondata di recessione economica che sta travolgendo tutte le nazioni della catena degli Stati imperialisti (ovviamente non in egual misura, data la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo), ma, grazie alla continuità militante di ormai quattro generazioni di combattenti per la preparazione proletaria al processo rivoluzionario di classe, è stato anche l'unico in grado di antivedere e dimostrare l'inevitabilità di queste crisi di sovrapproduzione di capitali, merci e servizi e, disgraziatamente, di sovrappopolazione proletaria.

L'esperienza pratica della nostra attività ci ha duramente fatto imparare che per studiare il corso del capitalismo nella sua fase imperialista non basta rifarsi alle fondamentali leggi de Il Capitale (caduta tendenziale del saggio medio di profitto e fattori di controtendenza, composizione organica e tecnica del capitale, teoria della rendita, ecc.), ma bisogna andare a verificarle attraverso l'analisi della pletora di dati dietro cui l'economia politica le nasconde. E quindi sbugiardare l'inganno capitalista che propone il suo modo di produzione (e tutta la mutevole sovrastruttura che ne deriva) come storicamente necessario e inevitabile, eterno perché... “connaturato alla natura umana” e, soprattutto, “dinamicamente in equilibrio”.

Questo lavoro non è stato (non è!) un esercizio intellettuale, ma parte integrante del lavoro di restauro dell'organo rivoluzionario di classe, unità operativa di teoria, principi, programma, tattica e organizzazione.anticaantica

E' stata (è!) battaglia contro tutte le scuole di pensiero alle quali si rifanno i nemici (e soprattutto i falsi amici) della nostra classe: quelle che, sull'onda del boom economico del secondo dopoguerra, avevano la faccia tosta di sostenere che Marx “si era sbagliato”, e quelle che, pur dando ragione a Marx ma stravolgendone il lavoro, andavano a fiancheggiare le prime, proponendo nuove vie, tutte graduali, indolori e incolori, benché spesso a parole “antisistema” (forme di ridistribuzione della ricchezza spacciate per socialismo) per governare l'equilibrio tumultuoso del sistema: negare la certezza della crisi per esorcizzare l'inevitabilità della base materiale del processo rivoluzionario il cui fine ultimo, con la socializzazione delle forze produttive, è la socializzazione della retribuzione, della distribuzione e del consumo della “ricchezza” prodotta, e quindi il superamento della divisione in classi della comunità umana e la scomparsa di ogni forma di proprietà privata e individuale.

Senza nascondere che anche nella nostra compagine (il Partito è certamente fattore e attore della storia, ma è anche frutto ed espressione del momento storico dato) le connessioni dialettiche tra crisi economica, crisi sociale, crisi politica, guerra inter-imperialistica e sviluppo della lotta di classe non sempre sono state ben comprese e ben maneggiate, facendo prendere a troppi elementi una scorciatoia meccanicistica che li ha prima allontanati dal lavoro comune per poi aggiungerli alla folta schiera dei pentiti della pratica rivoluzionaria, ci ritroviamo oggi in scarso numero ad affrontare e cercare di indirizzare le reazioni della nostra classe tra le sue file e nelle sue lotte.

E ci tocca, tra le tante iatture di più di settant’anni di controrivoluzione, affrontare tali questioni centrali dal provincialissimo punto di partenza delle prime reazioni politiche che, in Italia, parassitano le prime, importanti ma ultra-minoritarie, lotte di difesa economica di alcune categorie di lavoratori.

Da protagonisti attivi delle lotte che caratterizzano il divenire sociale, abbiamo il dovere di saper distinguere, per poi poter unificare e indirizzare, l'ambito delle lotte economiche con le sue necessità di organizzazione e i suoi obbiettivi e quello della lotta sociale, dall’ambito politico, proprio per l'importanza di quanto affermato nella nostra dichiarazione di guerra al capitale: ogni lotta economica è una lotta politica. Concetto ben compreso da tutti i partiti, formali e informali, della borghesia, i quali lavorano per bloccare le lotte nei limiti dei rapporti di produzione capitalistici: cioè, nelle forme che rendono apparentemente sopportabile, per chi vive vendendo la propria forza lavoro, lo sfruttamento con cui viene prodotta quella ricchezza con cui la borghesia mantiene se stessa e la pletora delle mezze classi intellettualoidi e impiegatizie, rallentando così la proletarizzazione di quelle artigiane, professionali e contadine.

Veniamo dunque a come viene declinata la questione dell'essere ogni lotta economica una lotta politica da quel particolare “ambiente/terreno” militante che si appoggia e fiancheggia il ciclo di lotte dei lavoratori e di altri attori sociali come i disoccupati e i disperati che, a giusta ragione occupano le case, o come chi si oppone alla devastazione dei territori, o come infine quegli anarchici “insurrezionalisti” che sentimentalmente percepiscono l'imbecille violenza del capitalismo putrescente e cercano vendetta con disperati gesti contro i simboli dello sfruttamento, che hanno trovato nel movimento del “sindacalismo di base” un importante momento di ribellione organizzata alla normalità conciliatrice e castrante del “sindacalismo tricolore”.

In queste riflessioni, la nostra analisi non si concentra su quest’esplosione di lotta economica e sulle lezioni da trarne per la riorganizzazione di un movimento sindacale esteso, radicato e classista – tema da noi più volte trattato e comunque da trattare ancora in altra sede. Ci interessa qui invece l'uso politico che questa nuova razza di (in)volontari opportunisti sta facendo di quel movimento e di come blocca i bisogni proletari con parole d'ordine politiche tanto roboanti quanto demagogicamente controproducenti e alla lunga reazionarie.

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Cominciamo con l'obiettivo principale, quello da cui discendono poi gli altri: “Facciamo pagare la crisi ai padroni”. Slogan facile, efficace. Come non essere d'accordo? Gridato da uno qualsiasi delle migliaia di lavoratori travolti dagli effetti della crisi, esprime una necessità sacrosanta.

Ma dovere di chi vuole o ha la responsabilità di organizzare la difesa economica è, nel corso della lotta, quello di svolgerlo, articolarlo, dimostrare le connessioni tra le basi economiche della crisi, le sue conseguenze sociali e politiche, e preparare piattaforme sindacali per arginarne i guasti e sviluppare una combattività che porti a una consapevolezza rivoluzionaria dell'irriducibile antagonismo politico tra chi causa e chi subisce la crisi.

I “padroni” (o, meglio, l'impersonale classe borghese che monopolizza materie prime, capitali intesi non solo come denaro, ma come fabbriche, tecniche, organizzazione, gestione della forza lavoro “socializzata” nel processo produttivo, rendita finanziaria e proprietà fondiaria) non subiscono una crisi che cercano di scaricare sui lavoratori.

I “padroni” sono gli attori della crisi e l'unico modo che hanno i lavoratori di difendersi dalla crisi e mitigarne gli effetti è intensificare, organizzare meglio, allargare e unificare se e quando possibile lotte che difendano salari e livelli occupazionali, migliorino le condizioni di lavoro e contrastino gli scempi ambientali causati dai (e nei) luoghi di lavoro: lavoro, salario, salute, ambiente, dignità. Con questo tipo di obiettivi che partono da bisogni immediati considerati non negoziabili si può cominciare un processo faticoso che superi il limite dell'interesse economico di politicizzazione delle lotte.

Noi proletari non siamo quelli che pagano la crisi: siamo quelli che subiscono la crisi e che dalla classe che dirige il modo di produzione all’origine della crisi si devono difendere. Certo, più complicato, ma più radicale; e comprensibile, sia pure forse con fatica, per ogni proletario incazzato. Ma non per quei militanti “anticapitalisti” che confondono gli effetti monetari della crisi con la natura economica della crisi stessa.

Da costoro, la classe borghese è ridotta, per l’appunto, a “i padroni”: è confusa con essi, presentati come avidi usurai che scaricano sui poveracci le loro perdite.

Questa incomprensione della crisi – crisi che, per la loro accademica e quindi superficiale conoscenza dei meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, è comparsa come d'improvviso come conseguenza e non come causa del terremoto immobiliare, creditizio e mobiliare del 2008 – si traduce dunque in una serie di parole d'ordine che rivelano quanto siano riformisti, e quindi reazionari, conservatori, propriamente piccolo-borghesi, questi consumatori delle energie proletarie.

Il “far pagare la crisi ai padroni” si articola intorno alla richiesta di una “tassa sui patrimoni”, la cui percentuale varia a seconda del tasso di demagogia dell'anticapitalista di turno. Con essa, lo Stato dovrebbe finanziare tutte le spese sociali con cui gestire i beni e il bene comune: la sanità, l'istruzione, le risorse, il risanamento dei territori, l'arte e la cultura, ma soprattutto il reddito delle fasce più povere della popolazione.

Questo Stato! Costoro gonfiano le guance come i criceti citando i passi in cui Marx si occupa, negli anni in cui l'Europa è attraversata dai moti nazionali di formazione e stabilizzazione degli Stati borghesi, della tassazione dei cittadini, sostenendo (a ragione, come forma di radicalizzazione democratica borghese e non insinuando minimamente che si tratti di una misura di socializzazione della ricchezza!!!) una tassazione diretta prevalentemente incentrata sulla progressività dei redditi, contrapposta a quella indiretta tanto amata dagli esponenti dell'ancien régime. Oppure i passi in cui il Lenin del 1905 e dei tumultuosi intensissimi mesi dal febbraio all'ottobre del 1917 disegna le primissime misure fiscali del Glorioso Ottobre, omettendo di spiegare (i nostri criceti!) che in entrambi i casi questo ragionamento di agitazione politica corrispondeva alla tattica da adottare in quei frangenti di rivoluzione doppia, là dove si poteva (e si doveva) ancora appoggiare e tallonare (con una organizzazione di combattimento proletario ben distinta e indipendente) la parte più radicale della borghesia o, come nel caso dell'Ottobre, gestire in prima persona l'organizzazione di un nuovo, antiborghese organismo statale.

Oggi chi dovrebbe amministrare la tanto agognata patrimoniale? Ovviamente, lo Stato che esiste.

Dunque, costoro vorrebbero suggerire all'organo che svolge la ferocissima funzione di capitalista collettivo, e il cui governo altro non è che il suo efficientissimo comitato d'affari e consiglio di amministrazione, come fare meglio il suo mestiere e mantenere l'ipocrita funzione di rappresentante dell'unità armoniosa della nazione che ha a cuore il benessere di tutti i suoi cittadini!

Ogni lotta economica può dunque essere una lotta politica. Ma si deve avere ben chiaro che tipo di obiettivi politici si vogliono e si possono raggiungere, e nel momento in cui si svolgono e nel corso del movimento che cambia lo stato di cose presente.

L'economicismo, base naturale dell'opportunismo tra le file del movimento operaio, consiste proprio nel considerare i risultati economici e sociali che si possono e si devono strappare nel quadro dei rapporti di forza tra compratori e venditori di forza lavoro come punti di arrivo e non come punti di appoggio per portare la lotta di classe fino in fondo.

Naturalmente, l'economicismo contemporaneo cerca di differenziarsi da quello storico, nato e cresciuto sulle spalle del movimento operaio tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900: quello impersonato dal riformismo classico della Seconda Internazionale. Eppure, proprio per l'incomprensione della natura e delle funzioni delle istituzioni dello Stato imperialista così come si è andato strutturando nel corso della Prima guerra mondiale e nello scontro con il Glorioso Rosso Ottobre Proletario e come si è andato perfezionando nella gestione della controrivoluzione nell'inter-guerra, nella seconda guerra e nel dopoguerra, quest’economicismo contemporaneo assomiglia sempre di più al massimalismo roboante e fanfarone che ha caratterizzato il socialismo italiano.

Comunque, indipendentemente da quel che questi frettolosi e superficiali ripetitori di titoli dei testi di Marx e Lenin pensano di loro stessi, questo moderno economicismo si rivela per una delle varianti del riformismo (per altro non dissimile da quello propugnato dal P.C.I. nel corso della sua esistenza): a costoro non importa il fine, lo scopo, della lotta di classe, cioè che sulla base del movimento reale del movimento che cambia lo stato di cose esistente la classe proletaria diventi classe dominante e cominci a distruggere le forme con cui la borghesia ingabbia le forze produttive per completarne centralizzazione e socializzazione e così socializzare la ripartizione, la distribuzione e il consumo della ricchezza prodotta, eliminando la radice della divisione sociale del lavoro, la divisione in classi, della comunità umana e ogni forma di proprietà privata. Quel che conta è il successo del momento, la conquista immediata: il socialismo viene ridotto ancora una volta ad una raffinata redistribuzione della ricchezza prodotta nel quadro dei rapporti di produzione esistenti, e non solo riemerge l'utopia reazionaria di una società borghese senza borghesia, ma si da credito alla concretissima concezione idealistica dello Stato etico, regolatore e garante delle necessità sociali.

Illudere i nostri fratelli e compagni di classe che ci possa essere un consiglio d'amministrazione (governo) che su mandato del comitato d'affari (parlamento più o meno democraticamente fascistoide) del capitalista collettivo (lo Stato in tutte le sue istituzioni)  sia in grado di  garantire, seppur con la pressione della nostra forza organizzata, il nostro lavoro, la nostra vita in un periodo come questo di crisi economica vuol dire preparare il proletariato a subire felice e contento, pur di non perdere le catene diventate braccialetti d'oro, quell'unità nazionale che lo sacrificherà in quella guerra imperialista e inter-imperialistica che a parole si dice di voler contrastare

Ogni lotta economica è lotta politica, ma può e deve prendere la strada per diventare lotta di classe fino in fondo solo se i suoi obbiettivi aiutano i lavoratori a trasformare l'istintiva diffidenza per i padroni (e la filiera gerarchica di dirigenti, quadri, capi e capetti) in antagonismo contro le strutture e le istituzioni con cui la l'impersonale classe di costoro, la borghesia, organizza sfruttamento, alienazione, dominio, repressione.

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