Il Polo Petrolchimico siracusano nasce nel secondo dopoguerra e investe una grandissima area territoriale. E si trova oggi in un’area costiera industrializzata della Sicilia orientale, che comprende i comuni di Augusta, Priolo, Gargallo e Melilli, spingendosi fino alle porte di Siracusa. Le attività riguardano la raffinazione del petrolio, la trasformazione dei suoi derivati e la produzione energetica.

Dopo il secondo conflitto mondiale, la realtà economica della Sicilia si presentava in tutto e per tutto disastrata per il crollo dei consumi e per la maledetta industria dello zolfo che per molti anni ha devastato i polmoni di migliaia di proletari nelle cave gialle e rosse e succhiato le midolla dei braccianti fissi e stagionali. La produzione era sita nell’intera costa meridionale tra Gela, Ragusa e Siracusa e, in direzione nord-est, lungo tutta la Piana di Catania, anticamente ricca di vegetazione e di acque (Simeto, Anapo, Cassibile, Cavagrande, etc.). I bombardamenti avevano distrutto la maggior parte dei mezzi di comunicazione, tra cui molte linee ferroviarie, impianti produttivi in formazione e centrali elettriche. Il settore industriale era cresciuto in maniera frammentata, frutto di politiche industriali poco calate nella realtà del territorio nazionale e locale e nelle sue potenzialità.

In quell’immediato dopoguerra, si studiò come far ripartire l’occupazione e trasformare l’economia siciliana.  Fin dal 1944, alcune banche (tra cui il Banco di Sicilia) impegnarono molti miliardi in diversi settori del credito industriale, fondiario e minerario, sovvenzionando piccole e medie industrie alimentari, meccaniche, metallurgiche, chimiche e navali. La più importante di queste iniziative fu la costruzione della centrale termoelettrica di Messina e della società elettrica della Sicilia (SGES). Furono incrementati i settori dell’elettricità e del cemento, che assorbirono molta manodopera, facendo crescere il reddito pro-capite.

Dal 1938 al 1951, gli addetti nell’industria diminuirono e la situazione lavorativa divenne preoccupante. Grosse sacche di povertà si presentavano in tutto il Mezzogiorno, ma soprattutto in quest’area. Da allora, con lo sviluppo del Petrolchimico cominciano il calvario e la distruzione fisica dell’ambiente, un tempo così ricco di risorse. Gli anni ’50 presentarono una situazione lavorativa senza grandi prospettive: la media degli occupati in agricoltura e nell’isola era circa il 60% della forza lavoro complessiva, contro una media nazionale del 42,4%. Comincia nello stesso tempo il trasferimento interno di una massa ingente di popolazione migrante dal Sud. L’economia povera conseguente a un’agricoltura non specializzata si concretizzava con un primo piano di industrializzazione. L’investimento in raffinerie di petrolio e impianti di produzione di derivati chimici si accompagnava a finanziamenti consistenti indirizzati verso industrie meccaniche, edili (cementi, ceramica e vetro), cartiere e industrie tessili.

L’industria chimica si legò all’industria mineraria, sempre in crisi gravissima, nella produzione di zolfo e di sale. Tra le imprese finanziate nel periodo, figura a partire dal 1949 la RASIOM, il primo complesso di raffinazione presso Augusta, che diede occupazione a 650 dipendenti. Fin dall’anteguerra, l’AGIP aveva fatto ricerche petrolifere nel ragusano, poi abbandonate. Qualche anno dopo, nel vittoriese anche la britannica BP si dava alla ricerca del petrolio, e lo stesso avveniva nel gelese ad opera dell’ENI. Il fatto che la Sicilia si trovasse sulla rotta del petrolio medio-orientale determinò la scelta produttiva di impiantare nuovi complessi di raffinazione. Si aggiunsero poi tantissime altre aziende nell’indotto e nella cantieristica, il che permise di far sorgere nuove piattaforme petrolifere marine.

Nascita e sviluppo del Polo Petrolchimico

Nel 1957, via ferrovia dall’altopiano ibleo, cominciò ad arrivare il petrolio greggio, con un oleodotto che interessava tutta l’area di estrazione, da Ragusa a quella di raffinazione, e con 7 e 8 treni di carri cisterna. La devastazione del suolo, del mare e dell’atmosfera cominciava a lasciare un’impronta pesante sul territorio. Con lo sviluppo degli impianti e degli oleodotti, cresceva intanto l’indotto d’ogni specie, tra cui quello della chimica organica che avanzava in maniera totalitaria. La RASIOM aumentò la raffinazione fino a 8 milioni di tonnellate annue di greggio. Nel gennaio 1959, entrò in funzione la centrale termoelettrica Tifeo di Augusta, che forniva, a pieno regime, una potenza di 210 MegaWatt e occupava una superficie di 150.000 mq, alimentata da un oleodotto proveniente dalla RASIOM. La Società elettrica della Sicilia (SGES) riuscì a gestirla fino alla nazionalizzazione dell’ENEL. Nel 1961 produceva già il 60% del fabbisogno regionale.

Con la RASIOM sorsero aziende di distribuzione e di produzione di GPL (Liquigas, Migas Sicilia e Ilgas). In contrada Targia, nacquero molte fabbriche, tra cui nel 1955 la ETERNIT Sicilia che produceva manufatti di “amianto” con 330 operai occupati (e destinati a una morte precoce), mentre veniva ampliato il porto di Augusta. Avanzavano intanto i pontili e le navi di carico e scarico in mare, avvelenando le acque che diventavano enormi paludi. Nel 1956, sul litorale di Priolo Gargallo, spuntò il complesso industriale SINCAT, che prese il posto di un’azienda agricola produttrice di frutta occupandone i lavoratori. Il primo piano di investimento per 9 miliardi di Lire iniziò con l’impiego di circa 1200 operai. La seconda fase di investimento da 10 miliardi di Lire si concluse nel 1960: gli operai addetti erano divenuti 3100, raggiungendo poi le 3500 unità lavorative. La società si occupava di chimica inorganica con produzione di acido nitrico, acido fosforico e fertilizzanti. Agli inizi degli anni ’60, la produzione di fertilizzanti raggiunse le 800.000 tonnellate e quella di prodotti chimici le 500.000 tonnellate, con un pontile di carico autogestito che permetteva la movimentazione verso le navi da carico.

A Megara nascevano intanto le Cementerie, che avevano un proprio pontile sul mare per l’imbarco. Nel 1957, vide la creazione di un importante stabilimento, la CELENE, che produceva prodotti chimici e materie plastiche. Notevoli erano poi l’investimento nazionale e quello estero (Union Carbide Corporation), che iniziò con 400 dipendenti, aumentandone la consistenza fino a 600. La CELENE operava con la SINCAT che forniva le materie base, quali il propilene e l’etilene. Nel 1958, sorse anche la ESPESI, per l’estrazione del bromo dalle acque marine, con l’occupazione di 100 lavoratori. Nel 1959, iniziava la produzione di ammoniaca in uno stabilimento di Priolo del gruppo MONTECATINI, a cui la RASIOM forniva i sottoprodotti del petrolio. E, nel 1961, la ESSO rilevò la raffineria RASIOM di Augusta, ampliandone gli impianti.

Sviluppo economico e insediamenti abitativi

Tra il 1956 e il 1959, ci fu un investimento di 130 miliardi di Lire erogati dal Banco di Sicilia. Il reddito netto per abitante nel decennio 1951-’61 in provincia di Siracusa passò da 134.196 Lire a 327.168 Lire, con un tasso di incremento del 12% rispetto all’8,5% di quello del resto della Sicilia. Il numero di occupati nel decennio 1951-’61 crebbe fino a 13.000 unità                                                        con un aumento del 7,13%. Nella loro massima espansione, gli stabilimenti e le infrastrutture industriali raggiunsero una copertura di 2700 ettari. Nel frattempo, dai cantieri di Punta Cugno, usciva Vega, la più grande piattaforma petrolifera off-shore mai costruita in Italia, atta a resistere “alle condizioni ambientali più difficili e fornita delle tecnologie più avanzate e progettata per resistere al vento fino a 180 Km/h, a onde alte 18 m e terremoti fino al 9° grado della scala Mercalli”. Complessivamente, nel ventennio 1950-’70, si crearono 20.000 posti di lavoro, con evidente aumento del livello del reddito medio e dei consumi. Marina di Melilli divenne un centro abitato, che costituiva un’area del Petrolchimico. Gli abitanti tuttavia non avevano fatto i conti con lo sviluppo dei programmi industriali: prima, la nascita di uno stabilimento balneare nel 1954; poi l’insediamento abitativo permanente di molte famiglie; infine, il complesso di raffinazione del petrolio denominato ISAB (Industria Siciliana Asfalti e Bitumi), attorno a cui si verificò nel 1973 un vasto giro di tangenti pagate per ottenere molte delle autorizzazioni per la costruzione della raffineria (più di 2 miliardi di Lire).

Nel 1973, di fronte alla RASIOM sorse la LIQUICHIMICA, divenuta poi ENICHEM. Nel 1975 entrò nel complesso petrolchimico l’ISAB, che produceva combustibili a basso tenore di zolfo. Sorsero successivamente, uno dopo l’altro, la Co.ge.ma, la Centrale elettrica Enel di Marina di Melilli e l’ICAM diventata poi Enichem e Anic, per la produzione di polietilene. Il polo petrolchimico siracusano saturò presto completamente il territorio costiero dalla Baia di Augusta alla località di Targia. L’ultima realizzazione fu quella del pontile di Santa Panagia con il borgo, ormai inglobato dall’espansione edilizia a nord della città di Siracusa. Nel 1973 iniziarono a essere costruiti gli insediamenti, circondando piano piano le zone abitate. Il successivo passo fu quello di convincere gli abitanti a trasferirsi dal luogo perché ormai inquinato: le resistenze furono fortissime ma a nulla valsero. Dietro pagamenti e promesse, 180 famiglie, circa 800 abitanti in tutto, si dispersero nei centri circostanti. Il “caso” di Marina di Melilli si chiuse nel 1979: un solo abitante volle rimanere a ogni costo, e fu trovato assassinato nel 1992.

Alla fine degli anni ’70, si ebbe la chiusura di diversi impianti e stabilimenti. L’offerta occupazionale diminuì con poche prospettive di sviluppo. L’autonomia dei cicli produttivi, la diminuzione delle attività di raffineria del greggio, la delocalizzazione degli impianti di trasformazione furono gli aspetti più interessanti, legati all’ingresso di Cina e India con prezzi e costi sostanzialmente più bassi. Con la nascita delle raffinerie di Targia, la ISAB vide coinvolti vari finanziatori privati. Nel 1997, il controllo della ISAB venne assunto dalla ERG. Nell’ottobre 2002, con una nuova trasformazione societaria (la ERG Raffinerie Mediterranea), venne alla luce uno dei due più grandi poli di raffinazione europei, mediante l’unione e l’integrazione delle raffinerie ISAB e ex-AGIP di Priolo. Nel 2005, con la società Ionio Gas Srl, costituita in misura paritetica da ERG Power Gas Spa e da Shell Energy Italia Srl, ci fu la progettazione di un terminale per la ricezione e ri-gassificazione del gas naturale liquefatto, da realizzare nel sito ISAB a nord di Priolo. Nel 2010, nell’area di Priolo Gargallo, fu impiantata una centrale ENEL denominata ARCHIMEDE: si trattava di una centrale solare termodinamica per lo sfruttamento dell’energia solare e la produzione di energia elettrica, pulita e rinnovabile, inaugurata il 14 luglio 2010. Per la crisi economica, un gran numero di operai fu messo in mobilità.

Declino del Polo Petrolchimico e nuove prospettive

Nel 2008, un accordo fu siglato tra ERG e la russa LUKOIL per la costituzione di una Newco: ISAB SRL (partecipata al 51% da ERG Raffinerie Mediterranee e Lukoil al 49%). Al Petrolchimico, che faceva parte del gruppo russo, il 100% del greggio arrivava dalla Russia (Jamal-Siberia). Dopo aver ceduto l’80% delle quote alla società russa, a fine 2013, le cedette il rimanente 20%. Lukoil subentrò nella proprietà. L’intento dell’azienda russa era di investire ingenti capitali nel complesso industriale siracusano per riprendere le quote di mercato, erose dalla concorrenza indiana e cinese. La dinamica della lotta di classe da allora non si è mai spenta. Nel 2019, il prefetto di Siracusa vietò i blocchi della portineria degli stabilimenti produttivi, blocchi che si erano moltiplicati a causa dei molti problemi occupazionali contestati dai sindacati. A questo punto, è necessario allargare il discorso.

La Lukoil è la più grande compagnia petrolifera russa e una delle maggiori del mondo. La compagnia è nata nel 1991 dalla fusione di tre aziende siberiane statali: la Langepasneftegaz, la Uraineftegaz, la Kogalymneftegaz. Le contraddizioni economiche politiche e sociali non hanno mai avuto un periodo di tregua. Nel corso della guerra in Ucraina, il territorio è parte in causa delle chiusure e aperture dei corridoi energetici, di volta in volta interrotti, verso la Germania. I prezzi del greggio a partire dal 2008 hanno avuto un andamento crescente a causa non solo delle crisi economiche, ma anche dalle ritorsioni di un paese sull’altro.

La sistemazione petrolifera del Mar Baltico è avvenuta con la creazione di due lunghissimi gasdotti paralleli e quindi gemelli di 1224Km (55 miliardi mc di gas annui che, raddoppiando per i due Stream, diventano 110miliardi mc, mentre i due canali paralleli di ciascun Stream ammontano a 27,5 miliardi mc annui). North Stream 1 e North Stream 2 vanno in Germania e si intrecciano fra loro in due sistemi complessi. Il gasdotto della discordia (Stream2) mette in contraddizione diretta Germania e Stati Uniti. Il primo (lo Stream 1), attivo dal 2011-2012, partendo da Vyborg (Federazione russa), arriva a Lubmin in Germania, correndo sul fondale. Il posizionamento dei due giganteschi gasdotti è una grande impresa ingegneristica, costituita da tonnellate di tubi che si allacciano gli uni con gli altri dopo essere stati calati sul fondale. Dalla Germania, si diramano poi verso il resto dell’Europa, un percorso che si snoda verso una serie di paesi spezzando la continuità e creando le occasioni di possibili conflitti. Il sottosuolo russo possiede un’immensa massa di gas alla fonte, 49 trilioni mc di gas. Il giacimento più grande è quello di Bovanenkovo, che proviene dalla penisola di Jamal in Siberia, un’immensa area di 1000 Kq, lontana 2000 Km, ricchissima di gas che va ad incanalarsi nel Mar Baltico e allaccia 26 milioni di abitazioni. Se la Russia chiudesse i rubinetti, da dove l’Italia prenderebbe il gas che le è necessario, quel 38% che serve importato dall’estero? Tutta l’Italia ha bisogno di energia: il 20% da rinnovabile, il 33% da petrolio, il 40% da gas naturale e il 7% da altre fonti. Da quali paesi arriva il petrolio? Italia 4,4%; Olanda e Norvegia 2,9%; Libia 4,2%; Azerbajan 9,5%; Algeria 27,8%; Russia 38,2%; Gas naturale liquefatto GnL 13,1%. Lo scoppio della guerra in Ucraina e le sanzioni già imposte o previste dalla maggioranza dei Paesi occidentali nei confronti della Russia hanno già sconvolto il mercato del petrolio e fatto salire i prezzi a livelli record che non si vedevano da giugno 2008.Questa spirale di aumenti, che vede oggi il greggio superare i 122 dollari al barile contro i 60 dollari/barile del 1° dicembre 2021, segue quelli provocati dalla pandemia e rischia di portare a quotazioni ancora più alte il petrolio (e i carburanti), spinte anche dai timori di un possibile embargo al petrolio russo su cui stanno lavorando Stati Uniti e paesi europei.

Ma che cosa significherebbe questo stop del petrolio per l'Europa intera e per l'Italia in particolare? Cerchiamo di capirlo andando anche a vedere la dipendenza dell’Italia dal petrolio russo. Se tutte le esportazioni di petrolio dalla Russia verso gli USA e i Paesi europei fossero interrotte, stima il Financial Times, alle raffinerie di tutto il mondo verrebbe a mancare un 5% delle loro forniture, mentre il totale dei prodotti raffinati subirebbe un taglio del 10%.

Si sa che la Russia è il terzo produttore mondiale di petrolio, con 11,3 milioni di barili al giorno contro i 17,6 milioni di barili degli Stati Uniti e i 12 milioni di barili dell'Arabia Saudita. La Russia è anche il più grande esportatore di petrolio sui mercati globali, con 7,8 milioni di barili al giorno a dicembre 2021 suddivisi in 5 milioni di greggio e condensato e 2,85 milioni di prodotti petroliferi raffinati. Di queste esportazioni russe, il 60% va ai Paesi europei, membri dell'Ocse, e il 20% alla Cina. Queste forniture di petrolio russo arrivano nel Vecchio Continente soprattutto attraverso l'oleodotto Druzhba che porta in Europa 750.000 barili di petrolio al giorno. Particolarmente a rischio in questo momento, sottolinea la Iea (Agenzia internazionale dell'energia), è quel ramo dell'oleodotto che passa per l'Ucraina e rifornisce direttamente Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. Decisamente alta è la percentuale di importazioni di petrolio russo sul totale delle importazioni nei Paesi europei Ocse, pari al 34 del fabbisogno continentale. Tra questi, ci sono alcune nazioni che dipendono in maniera preponderante dal greggio di Putin, in particolare Lituania (83%), Finlandia (80%) e Slovacchia (74%), mentre tra i mercati principali spiccano il 30% della Germania e il 23% dei Paesi Bassi.

 La Lukoil vende benzina in 59 soggetti federati della Russia attraverso una fitta rete di stazioni di servizio ed occupa il secondo posto mondiale tra le aziende con le maggiori riserve di petrolio (nel 2005 ha acquistato 779 stazioni di servizio dalla Exxon Mobil). Nel 2007 la Luxoil ha prodotto 90,16 milioni di tonnellate di petrolio e 7,57 milioni di mc di gas naturale. Attualmente, il suo valore di capitalizzazione azionaria è di circa ottanta miliardi di dollari Usa. Produce circa il 2% del petrolio mondiale e nel corso dell’attuale guerra russo-ucraina è stata colpita da sanzioni economiche dell’Unione Europea, portando alle dimissioni l’oligarca russo Vagit Alekperov.

Infrastrutture e territorio

Ma torniamo al Petrolchimico. Il suo impianto ha avuto un carattere invasivo sull’intero territorio. I primi impianti si estesero fino a Priolo Gargallo, un tempo frazione di Siracusa. Dalla stazione ferroviaria di Megara Priolo a Targia sono stati impegnati svariati chilometri di raccordi ferroviari. Per la stessa SINCAT sono stai costruiti decine di binari e di strade asfaltate tutt’intorno. Il porto di Augusta è stato ampliato fino a raggiungere le porte di Siracusa, occupando l’intera baia di Augusta. Non è stato facile pianificare il futuro del complesso industriale, dati gli investimenti ingentissimi necessari per il riciclo, la neutralizzazione o lo smaltimento.

Nella sua espansione, l’area del Polo è arrivata a essere la più industrializzata della Sicilia, nonché la più vasta sia in Italia che in Europa. Nel tempo, tuttavia, molte ditte hanno chiuso i battenti lasciando infrastrutture inquinanti e sostanze di rifiuto, con inevitabili danni ambientali e una crescente disoccupazione. Uno dei maggiori attacchi subiti dall’area siracusana è stata la deturpazione di importanti siti archeologici di Megara Hyblea, di Thapsos e di Sentinello, importanti per il loro storico passato e per gli insediamenti preistorici. Innegabile poi anche la profonda alterazione delle coste e dei fondali marini. Senza piani di investimento, senza alcuna bonifica sanatoria, con emissioni maleodoranti ed inquinanti, con la presenza di sostanze estremamente pericolose (scarti di mercurio), il territorio è stato trasformato in una cloaca a rischio ambientale (si tenga presente che l’area tra Priolo e Augusta è sede di numerose attività agricole e di abbondante acqua). La bassa resa trovò conveniente la cessione di terreni all’industria in cambio del posto di lavoro assicurato.

Vi fu un incremento della popolazione per via dell’immigrazione interna. I piccoli centri abitati tra Siracusa e Augusta si ingrandirono, l’edilizia ebbe una grande espansione e così l’impiego di molta manodopera, oltre a un numeroso gruppo di famiglie che si stabilirono in modo disordinato accanto alle ciminiere. Nacquero attività collaterali ristorative e ricreative. La popolazione di Priolo nel ventennio 1951-1971 crebbe da circa 6500 unità a quasi 10.000. Ma nel 1990, l’area venne dichiarata ad alto rischio ambientale. Nel gennaio 1995 fu emanato un DPR e imposto un piano di disinquinamento del territorio della provincia di Siracusa-Sicilia Orientale. E, nel 2005, furono dichiarati ad alto rischio ambientale i territori di Augusta, Priolo, Melilli, Siracusa, Floridia e Solarino.

Effetti dell’inquinamento sull’ambiente e sulla popolazione

La nascita del Polo Petrolchimico più grande d’Europa ha prodotto fin dall’inizio una serie di problemi per l’assenza di “consapevolezza ecologica e di leggi sulla tutela della salute della popolazione a contatto con le sue aree industriali”. La presenza di sostanze inquinanti nell’atmosfera, nel sottosuolo e nel mare ha creato uno squilibrio ecologico sull’intero territorio. Sono stati accertati veri e propri disastri ambientali nelle falde acquifere. La mancanza di normative di sicurezza ha causato incidenti, incendi, esplosioni ed emissioni di nubi maleodoranti. Quando furono rilevati i pericoli legati all’amianto dovuti alla fabbrica Eternit alle porte di Siracusa, si giunse alla chiusura della fabbrica (ovviamente senza risarcimenti alle vittime). Molti incidenti non sarebbero avvenuti senza i ritardi e le carenze che portarono a una crescita della pericolosità per l’assenza di una bonifica ambientale, rilevata solo nel biennio 1975-’76.

Gli studi sull’aumento della mortalità per cause tumorali hanno evidenziato una crescita dal 1951 al 1980, con punte, in quell’anno, del 29,9%, con prevalenza di tumore polmonare nei maschi. Ad Augusta, cominciarono le prime segnalazioni di nascite di bambini malformati. Quell’anno, su 600 nati, si ebbero 13 bambini con malformazioni congenite di diverso tipo, di cui sette non sopravvissuti. Dal 1980 al 1990, le percentuali dei malformati sono state dell’1,9%, contro una media nazionale dell’1,54%. Nel decennio successivo (1990-2000), la percentuale ad Augusta dei nati malformati è aumentata con un picco del 5,6% nel 2000. In città, risulta un eccesso di malformazioni genitali. Nelle aree pericolose si sono “presentati eccessi di mortalità generale per tutte le cause e per tutti i tumori tra gli uomini e per le malattie dell’apparato digerente tra le donne. In eccesso negli uomini anche i tumori del polmone e della pleura e la mortalità in entrambi i generi in eccesso per le malattie respiratorie”. Negli studi sulle popolazioni, un fattore importante di controllo è legato alla rilevazione della qualità dell’aria. La rete di monitoraggio nell’area del petrolchimico ha riconosciuto un totale di 28 “stazioni di rilevamento” che costituiscono la rete interconnessa. Un’inchiesta denominata “Mare Rosso” prende il nome da un fenomeno osservato in mare, ossia la colorazione rossa delle acque a causa dello sversamento di mercurio dell’impianto cloro-soda dello stabilimento ENI. Lo sversamento si è sviluppato dal 1958 al 1980 presso i tombini, che scaricavano direttamente in mare. Secondo le ricostruzioni d’archivio, sarebbero state oltre 500 tonnellate di mercurio che si sono depositate nel fondale del porto di Augusta. Questo sversamento ha comportato malformazioni nei neonati e aborti. I risarcimenti da parte dell’ENI sono stati di somme comprese tra i 15 mila e 1 milione di euro, per un totale di 11 milioni di euro più le spese legali. Ma, a tutt’oggi, il problema non è stato risolto.

L’embargo petrolifero e la guerra russo-ucraina

Come s’è anticipato più sopra, a seguito della guerra russo-ucraina, i leader UE hanno concordato un embargo sul petrolio russo. Ciò significa che a breve termine in Europa arriverà il 90% in meno di petrolio dalla Russia. Il regime di sanzioni imposto sull’import dalla Russia (petrolio trasportato via mare attraverso il Mar d’Azov, il Mar Nero, i Dardanelli e l’Egeo fino alla Sicilia Orientale) rischia di avere ripercussioni drammatiche non solo sull’economia siciliana, ma soprattutto sugli approvvigionamenti energetici nazionali a causa della chiusura della Isab-Lukoil per mancanza di petrolio. Lo ha deciso il Consiglio europeo, che ha annunciato di aver raggiunto un accordo tra i 27 paesi europei, accordo che vieta l'importazione del greggio da Mosca. Si tratta di una doppia imposizione: la Russia non potrà vendere petrolio agli Stati membri dell'UE e questi ultimi non potranno comprarlo. Il greggio proveniente dalla Russia è al momento l’unica fonte di approvvigionamento della raffineria siracusana, per l’appunto la Isab-Lukoil. Nonostante ciò, le esportazioni russe sono aumentate (verso la Cina e l’India).

Il sistema creditizio ha voltato le spalle alla Lukoil, troppo esposta verso le banche di Priolo. Anni fa il petrolio della Russia incideva per il 15% sull’attività produttiva: adesso è al 100%. In queste condizioni, l’Isab, probabilmente è condannata a chiudere, perdendo la possibilità di “trattare” i derivati del petrolio. Si aprirebbe allora una crisi di sistema tale da portare a estesi licenziamenti, con conseguenze sociali ed economiche notevoli. L’embargo sarebbe una vera e propria catastrofe, con perdita di un punto di PIL percentuale (oltre ad un miliardo di €) ed effetti occupazionali di 7500 posti di lavoro diretti o indiretti. Per l’effetto domino, si avrebbero conseguenze sugli altri gruppi industriali: ERG, AIR Liquid, Priolo Servizi – una Caporetto sociale dalle proporzioni incommensurabili. Impossibile salvare insieme le migliaia di posti di lavoro e la capacità di raffinazione.

In ogni caso, non si può mettere definitivamente in sicurezza l’impianto siciliano. La Isab (che controlla il Petrolchimico e ha come socio la Listasco, società svizzera, parte del gruppo russo Lukoil) si troverà tra pochi mesi senza il greggio russo e dovrà chiudere i battenti. L’embargo sulle importazioni, intanto, sarà tale da pregiudicare la produzione petrolifera. Nel frattempo, mentre l’Ungheria e la Bulgaria ricevono deroghe dall’EU, l’Italia è rimasta tagliata fuori. Per evitare il tracollo del Petrolchimico, occorrerebbe cercare altre soluzioni, facendo arrivare il petrolio da altri paesi. Intanto, è necessario impedire che vengano bloccate le linee di credito della Lukoil, affinché la Isab porti avanti la sua attività produttiva, cominciando ad acquistare petrolio dai paesi africani (Libia e Algeria) o rilanciando l’ipotesi di una nazionalizzazione con l’ingresso al 49% del capitale di Isab. Il Ministero per lo sviluppo economico (Mise) e CGIL e FILCTEM temono, se l’Isab dovesse chiudere, il collasso dell’intera area industriale e la perdita di 10.000 posti di lavoro. Il confronto con il governo sul tema dell’energia dovrebbe partire dai sindacati e dalle imprese e ridefinire il ruolo della raffinazione in Italia.

Mentre l’embargo del petrolio e la guerra russo-ucraina trionfano distruggendo ogni cosa, s’impongono “sanzioni” su più piani, e altre fonti energetiche appaiono in primo piano: il carbone e altri combustibili fossili, originari o trasportati dalla Russia. Sul gas, l’Italia e la Germania vengono assecondate quanto a prezzo e sanzioni, con l’obiettivo di dare uno scossone al rincaro del gas, che ha cominciato a far sentire il suo peso sulle imprese e sulle famiglie. Riguardo alla guerra in Ucraina, l’Unione Europea ha introdotto il tema della crisi alimentare, tra cui quella del grano, crisi che potrebbe abbattersi su milioni di persone (Africa soprattutto). Si tratta dunque non solo di petrolio, di gas, di carbone o di altre merci, tra cui principalmente le armi. Il sesto pacchetto di “sanzioni” ha anche disposto l’esclusione dal sistema di pagamento Swift di tre banche russe tra cui la Sberbank, il principale istituto di credito della Russia e la seconda banca della Bielorussia.

L’area dello scontro armato e i principi della lotta di classe

È necessario allora allargare il discorso. Nella stessa area devastata del secondo conflitto mondiale, si riaffaccia oggi, nel corso dello scontro russo-ucraino, un nuovo spettro che sprofonderà l’Europa ancora nell’abisso. Qui si configura infatti un territorio (il nord ucraino) che dalla Galizia a Leopoli tenderà a sgretolarsi nuovamente come in passato. Da Kiev, là dove il fiume Dnepr scorre e sbocca nei dintorni di Kherson, non lontano da Odessa, mine vaganti riempiono il Mar Nero. Dall’Isola dei Serpenti e da Sebastopoli (con le sue basi navali) fin sulla costa di Mariupol, passando per il ponte di Kerc, il Mare d’Azov fa da grande bacino al territorio russo. Da Cernobyl a Zaporizzya, le centrali nucleari dismesse e quelle operative fanno da cordone micidiale al centro del territorio ucraino. Dal Mar Baltico passando per la Lituania, la Lettonia e l’Estonia, da Vyborg a Kaliningrad e da qui fino a Lubmin (Germania), si gioca una partita mortale che potrebbe frantumare ancora un’altra parte dell’Ucraina.

Da est, si estende minaccioso un grande spazio russofilo sul fronte che si slancia verso Doneck e Luhans’k, l’oblast’ del Donbas. I bombardamenti si susseguono senza sosta, i combattimenti non cessano, il territorio è ormai devastato (fabbriche, ospedali, scuole, uffici pubblici), nulla sfugge alle incursioni, ai missili, ai carri armati. I morti si contano a migliaia (su entrambi i fronti), le donne e i bambini fuggono in tutte le direzioni e i possibili ricoveri, gli arsenali, si riempiono da ogni lato del fronte. Mentre le milizie cosiddette “naziste” terrorizzano la popolazione, i contractors volontari fanno altrettanto con le milizie del fronte cosiddetto “popolare putiniano”. Si teme un estendersi della guerra ipotizzando il lancio di atomiche tattiche.

Questo è il terreno dello scontro militare. Nulla sappiamo e null’altro si riesce a comprendere della lotta di classe soggiacente. Scriviamo in “I comunisti, le guerre, le insurrezioni e l’organizzazione militare del proletariato” che “le guerre si impongono sia come prolungamento della crisi, sia come mezzo per il rilancio della produzione e accanto alla guerra combattuta esiste la guerra ‘nascosta’ quotidiana che il capitale conduce contro il proletariato e di cui la polarizzazione ricchezza-miseria è la manifestazione più evidente”. La questione va percorsa andando per la strada intrapresa da Marx ed Engels: “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi (e precisamente con mezzi violenti). Giustamente i marxisti hanno sempre ritenuto questa tesi come la base teorica per intendere il significato di ogni guerra concreta. Marx ed Engels hanno sempre considerato le varie guerre precisamente da questo punto di vista.” Lo stesso Lenin, in “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa (1915)”, mostra come la guerra sia il mezzo più efficace per ristabilire l’equilibrio nello sviluppo economico degli Stati capitalistici: “La forza cambia nel corso dello sviluppo economico […] Per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalistico non c’è altro mezzo che la guerra. La guerra non è in contraddizione con le basi della proprietà privata ma è il risultato diretto e inevitabile dello sviluppo di queste basi. In regime capitalista non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico, né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime capitalista non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto intanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi nell’industria e della guerra nella politica.”

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