Aumento della mole di lavoro, riduzione dei salari, perdita di posti di lavoro e sempre più paura di non riuscire ad arrivare a fine mese… Niente di tutto ciò è frutto del Covid19, ma molto è peggiorato, con la pandemia. Come novità si è aggiunta inoltre un’incredibile onda mediatica, sia sui mezzi di comunicazione ufficiali che sulle reti sociali, per cui le spaventose vicende della pandemia e delle relative risposte dello Stato, così come le conseguenze sociali della crisi capitalistica, vengono stravolte e manipolate, mentre la conoscenza delle relative cause viene soppiantata dall’oscurantismo.

Mentre la propaganda borghese ufficiale tenta di accusare la pandemia di essere la causa della crisi economica, allo stesso tempo una piccola borghesia scalmanata la nega completamente, sia in strada che sui social, abbracciando teorie cospiratorie. Un atteggiamento critico e sdegnante nei confronti dello Stato borghese è tanto degno di approvazione quanto inutile, se deriva da un individualismo assoluto e irrispettoso e nega la questione sociale, come nel caso dei cosiddetti “Querdenker”  (=“coloro che pensano in maniera trasversale”). Ciò che accomuna coloro che formano questa ondata multiforme di propaganda borghese è il negare il fatto che le cause della crisi attuale abbiano origine in un ordine sociale capitalistico storicamente superato, per disorientare una classe lavoratrice sempre più insoddisfatta. Chi dipende dal lavoro salariato e a stento si regge a galla, chi rischia la salute per il lavoro e per la pandemia e riceve sempre meno briciole di aiuti sociali (mentre il capitale intasca le solite grandi sovvenzioni), non ha motivo di lottare per mandare avanti l’attuale ordine sociale. Ce l’ha, invece, chi trae profitto dal lavoro salariato, chi ha come fondamento della propria esistenza l’appropriazione di plusvalore e deve difendere dalla concorrenza il suo posto nella mangiatoia. Il diverso grado di oscurantismo è probabilmente espressione della diversa capacità di resistenza dei cittadini nel vortice della crisi economica. D’altra parte, la classe lavoratrice ha estremo bisogno di chiarezza e di verità per potersi preparare alla lotta contro gli attacchi borghesi e per offrire una nuova prospettiva, che vada oltre questo ordine sociale di regresso, di epidemie, di crisi. 

La crisi economica c’era già da prima

Le cifre sono drammatiche. Al culmine della prima ondata della pandemia, in Germania erano circa 7,3 milioni le persone in “Kurzarbeit”, misura per la quale l’orario lavorativo viene ridotto e il salario compensato in parte dallo Stato (al culmine dell’ultima crisi del 2009 erano “solo” 1,4 milioni). Secondo uno studio del WSI (Istituto di scienze economiche e sociali), fino a giugno circa un terzo dei lavoratori in Germania ha riscontrato perdite di guadagni, soprattutto coloro che già guadagnavano di meno. La Commissione europea prevede per quest’anno un calo del prodotto interno lordo del 7,8% e il Fondo Monetario Internazionale parla della peggior crisi globale dopo quella del 1945, valutando le conseguenze finanziarie della crisi dovuta al Coronavirus a un ammontare di 11.700 miliardi di dollari e prevedendo un debito pubblico del 100% (!) del PIL.

L'inflazione dei mercati finanziari, slegata dalla produzione reale di plusvalore, ha assunto sempre di più, negli ultimi anni, la funzione di àncora di salvezza del capitale, proprio come la tattica dello Stato di ricorrere a stampare moneta, cosa che non ha di certo a che fare con l’attuale pandemia. Con la politica dei tassi d'interesse bassi e della creazione di denaro, le banche centrali cercano disperatamente di stimolare investimenti e consumi, assicurandosi così che in cambio il prodotto interno lordo diventi un numero sempre più privo di significato.

Con i suoi acquisti di obbligazioni in continuo aumento, la Banca Centrale Europea, nel frattempo, detiene una quota del 47% del "prodotto interno lordo" della zona euro (nel 2007 era il 13%), mentre gli investimenti produttivi sono in calo.

Il capitalismo vive di produzione di plusvalore. Il profitto è allo stesso tempo sia il movente che lo scopo degli investimenti capitalistici, il tasso di profitto è la loro scala di misura. In un contesto di mercati stagnanti e tassi di profitto in calo (conseguenza dello sviluppo del capitalismo stesso, come dimostrato scientificamente dal marxismo), mancano motivazioni redditizie per fare investimenti produttivi. Marx ed Engels hanno analizzato la sistematicità dei cicli di espansione, sovrapproduzione e distruzione, eterne costanti del Capitalismo. L’ultima grande crisi venne “risolta” con le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale. Da circa quarant’anni a questa parte, il Capitale riesce a contenere alla meno peggio le gravi crisi che si ripresentano ciclicamente, a costo di una bolla finanziaria ancor meno controllabile.

La crisi dovuta al Covid19 ha fatto rompere gli argini della politica statale di indebitamento. A livello mediatico, in primo piano c’erano gli aiuti immediati necessari ai piccoli imprenditori e ai lavoratori autonomi, mentre sono state soprattutto le grandi aziende a beneficiare dello stanziamento dei sussidi straordinari, e ora ridimensionano il personale e tagliano i salari (come la Lufthansa, salvata dallo Stato, con il suo nuovo azionista principale, il multimiliardario Thiele).

Questa crisi, per le aziende, è una gradita opportunità per giustificare tagli al personale. Secondo un sondaggio della Federazione nazionale dell’industria tedesca effettuato a settembre (quindi prima del secondo lockdown), il 40% dei direttori d’azienda interrogati ha dichiarato di prevedere entro la fine dell’anno riduzioni del personale fino al 10%, rispetto a fine 2019. Tuttavia non erano pochi i licenziamenti programmati già da prima dello scoppio della pandemia a causa del ristagno delle vendite. La Daimler, ad esempio, negli anni a venire vuole ridurre del 20% i costi del personale ed eliminare a tal scopo 30.000 posti su 290.000: già a inizio gennaio 2020 (!) è entrato in vigore il piano di riduzione dei costi concordato tra il consiglio aziendale centrale e la direzione dell’azienda. Anche per quanto riguarda la ricerca e lo sviluppo, gli investimenti della Daimler dovrebbero essere ridotti di oltre un quinto. Ma lo Stato, che svolge con piacere il ruolo di aiutante dell'industria “strategica”, può colmare questo vuoto. Quindi, a novembre, il governo federale ha approvato un aiuto di tre miliardi di euro per l’industria automobilistica, dopo aver promesso alle imprese fornitrici due miliardi dal pacchetto di stimolo fiscale (Konjunkturpaket); più un miliardo per il “fondo per il futuro dell'industria automobilistica”, il premio per l’acquisto di auto elettriche e ibride, e il programma federale di rinnovo dei veicoli aziendali.

Lo Stato del Capitale si rivela così con evidenza, allo stato puro, e in questo momento non solo si occupa con misure politico-poliziesche di mandare avanti la produzione capitalistica e di bloccare i contatti sociali, ma agisce anche e soprattutto come attore economico nell'interesse del capitale. E questo viene accettato, con consapevolezza civica e istinto economico, da “sinistra” a destra: “Lo Stato è tenuto a finanziare l’industria”. Quando la DGB (Confederazione dei Sindacati Tedeschi) e il partito Die Linke sperano in una “trasformazione socio-ecologica” indotta dallo Stato, o quando il partito di estrema destra AfD vuole mantenere in vita con i contributi dei cittadini la produzione di motori a combustione interna, in nessun caso si mettono in dubbio il lavoro salariato e la produzione di profitto: anzi, si esalta la via verso il capitalismo di stato, che comunque è al suo stadio finale. A lanciare la moda ideologica di questa presunta “svolta keynesiana” sono stati i riformisti ed ex esponenti “di sinistra” che si sono entusiasmati per la capacità di imporsi dello Stato, venuta alla luce durante la pandemia. Così, ad esempio, l’attivista per il clima Tadzio Müller, della Fondazione Rosa Luxemburg, fantasticava un “lockdown parziale globale e solidale dell’economia mondiale, coordinato dai governi nazionali” e concludeva che “il lockdown per il Coronavirus ha dimostrato che in determinate condizioni è possibile esercitare un’azione di controllo nei confronti del capitalismo globale per proteggere vite umane” (Neues Deutschland del 4.12.20). Sul settimanale svizzero “di sinistra” WOZ, alla luce della “gestione non ideologica, determinata e pragmatica della crisi”, soprattutto dei politici di “sinistra”, si constata una certa “confusione tra i partiti borghesi”: “La maggior parte degli svizzeri vuole uno stato sociale forte. Buona notizia quasi per tutti, cattiva per i politici borghesi di destra e i loro soliti slogan ‘Meno Stato!’” (WOZ del 10.12.20).  Colui che ha smascherato la politica di potere del keynesismo di sinistra è stato il capo del partito austriaco dei Verdi, Kogler, successore di Strache nel governo di coalizione del partito FPÖ: “La buona notizia di quest’anno è che siamo riusciti a mettere in pratica un keynesismo ecologico, anche il Ministro delle finanze Blümel è diventato d’un tratto keynesiano” (intervista al Kurier del 6.12.20). Questo è il bue che dice cornuto all’asino e si rallegra di aver raggiunto la mangiatoia del potere.

L’approvazione di un “certo grado di distruzione creativa”, richiesto in stile neoliberale da Sewing, capo della Deutsche-Bank, in occasione delle sua critica al “principio dell’annaffiatoio” degli aiuti economici per il Coronavirus, riguarda soltanto la piccola borghesia, comunque già in rovina, per la quale anche alla gestione corporativista della crisi resta poco da fare. Uno stato capitalista forte, che ha sempre socializzato solo le perdite e privatizzato i guadagni, è ciò che vogliono tutti i sostenitori politici del capitale, di destra e di sinistra. 

Già alla fine dell’Ottocento, Friedrich Engels riporta, nel suo saggio di divulgazione del socialismo scientifico noto come Anti-Dühring, le basi sostanziali di questo sviluppo capitalista di stato: “È questa reazione al proprio carattere di capitale delle forze produttive nel loro rigoglioso sviluppo, è questa progressiva spinta a far riconoscere la propria natura sociale, ciò che obbliga la stessa classe capitalistica a trattare sempre più come sociali queste forze produttive, nella misura in cui è possibile, in generale, sul piano dei rapporti capitalistici” (Anti-Dühring)[1]. Inoltre, spiega molto chiaramente, in questa occasione, il ruolo e il carattere dello Stato: “E a sua volta lo Stato moderno è solo l’organizzazione che la società borghese si dà per salvaguardare le condizioni esterne generali del modo di produzione capitalistico contro gli attacchi sia dei lavoratori che degli altri capitalisti. Lo stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalista, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale”.

La crisi del sistema sanitario c’era già da prima

Anche per quanto riguarda il sistema sanitario, la pandemia ha funzionato come un catalizzatore di problemi già esistenti e che hanno origine nel capitalismo, un ordinamento sociale in cui ogni aspetto della vita deve passare attraverso la cruna dell’ago del profitto. “La necessità che i mezzi di produzione e di sussistenza assumano il carattere di capitale si erge come uno spettro tra essi e gli operai” (Ibidem, p. 296).

Così, negli ultimi decenni, il sistema sanitario, non solo in Germania, pare abbia subito un lifting, con uno zelo da economia di mercato: spin-off, privatizzazioni e chiusure, riduzione del numero dei letti e dei dipendenti, tutto per rendere anche la sanità, cosa di vitale importanza per tutti, qualcosa di redditizio. Con le tariffe forfettarie stabilite per caso trattato non sono stati incentivati gli interventi necessari, ma quelli che erano redditizi per gli ospedali, penalizzando quindi il numero di posti letto e personale. Da anni le cliniche denunciano terapie intensive sovraffollate nella stagione influenzale e già l’anno scorso, secondo un rapporto della Federazione degli Ospedali Tedeschi, il 37% delle cliniche ha dovuto ridurre i posti letto in terapia intensiva a causa di carenza di personale e, in parte, anche l’accesso all’assistenza emergenziale.

Già da anni, inoltre, i lavoratori del settore sanitario denunciano carenza di personale, cattive condizioni di lavoro e stipendi da miseria. Alla situazione sanitaria catastrofica della prima ondata della pandemia, che in numerosi Stati europei ha fatto esplodere le capacità delle terapie intensive e causato un gran numero di morti, la scorsa primavera il governo ha reagito con un’iniezione di 530 milioni per finanziare attrezzature ospedaliere: cosa che però non ha risolto il problema della carenza di personale qualificato. Quindi ora, con la seconda ondata della pandemia, ci sarebbero abbastanza posti letto, ma non c’è personale disponibile.

A parte le direttive di redditività degli ospedali, è soprattutto il desiderio spietato di profitto delle industrie farmaceutiche a doversi assumere, per assurdo, il compito di prevenzione e di cura. Un chiaro esempio è la ricerca sugli antibiotici, interrotta a causa dei bassi profitti che ne derivano. Già oggi, la diffusione pandemica di batteri multi-resistenti viene considerata uno dei maggiori pericoli per la salute globale: il numero di persone che muoiono ogni anno a causa di tali infezioni potrebbe crescere dalle attuali 700.000 ai 10 milioni, nel 2030. Anche in questo caso le condizioni di produzione e riproduzione della nostra società svolgono un ruolo decisivo.

Per esempio, l’utilizzo esteso di antibiotici nell’allevamento di massa (cui si fa ricorso anche per ridurre i costi di riproduzione della classe lavoratrice con alimenti a basso prezzo) fa sì che questi batteri sviluppino una resistenza ad essi; e, a causa di monoculture, allevamento di massa, diffusione e addomesticamento di animali selvatici, aumenta pure il rischio di trasmissione di malattie, come accaduto con l’attuale pandemia virale. Anche qui si rivela l’obsolescenza storica dell’ordine sociale capitalistico, che ha favorito in tutto il mondo la produzione di beni e accelerato gli scambi internazionali, per cui anche eventi come le epidemie, che prima erano solo locali, sono diventati di portata mondiale: un ordine sociale che però, contraddicendosi, allo stesso tempo ha rinforzato i suoi confini di produzione di profitto.

Ciò non riguarda soltanto i confini statali (isolamento, guerre costanti, distruzione di intere regioni), ma soprattutto i confini di classe (impoverimento, degrado sociale). La ricchezza sociale non viene usata in nome degli interessi vitali e a difesa della salute, ma per sovvenzionare la produzione capitalistica di profitto. Invece di contrastare insieme il pericoloso virus (cosa possibile solo limitando produzione e riproduzione), molti lavoratori devono lottare per la propria sopravvivenza economica a causa del lockdown del capitalismo, lavoratori che non possono farcela senza il loro reddito regolare e costante, neanche per un breve periodo di tempo (così come i piccoli imprenditori che ora guidano le diffuse proteste contro i provvedimenti statali). In una società in cui governa il profitto e contano soltanto eccellenza competitiva e “auto-ottimizzazioni”, non è possibile, ovviamente, un arresto collettivo.

Lotta di classe proletaria invece di oscurantismo piccolo borghese

Durante la pandemia, l’interesse principale del capitale è stato e resta la salvaguardia della produzione immediata: sebbene vengano applicati divieti di assembramento e coprifuoco, il tran-tran della produzione capitalistica deve sempre andare avanti. Anche focolai di infezioni come le scuole, per esempio, continuano ad essere aperti, finché va tutto bene, di modo che i genitori possano andare a lavorare. Sono stati molti i casi in cui proprio i lavoratori e le lavoratrici hanno dovuto esercitare le pressioni necessarie a interrompere la produzione perché metteva a rischio la loro salute. Ci sono stati scioperi in Italia, azioni di lotta in Belgio (come a Bruxelles per la Audi e a Gand per la Volvo). Anche in Germania lo Stato ha dovuto cedere alle pressioni pubbliche e chiudere temporaneamente alcuni stabilimenti in cui si erano verificati molti contagi, come ad esempio l’azienda produttrice di carne Tönnies (a fine 2020, è tornato quasi tutto come a inizio pandemia!). Nonostante la pandemia, anche in Germania ci sono state molte lotte da parte dei lavoratori: a settembre hanno scioperato più di 20.000 dipendenti delle Poste, a ottobre migliaia di dipendenti di Amazon e decine di migliaia delle ditte di trasporto pubblico locale. La grande insoddisfazione del personale si è vista anche nella capacità di mobilitazione dei sindacati durante le contrattazioni collettive per il servizio pubblico. Secondo i dati del sindacato Ver.Di (il secondo più grande dopo la IG Metall), circa 175.000 lavoratori/lavoratrici hanno partecipato allo sciopero di avvertimento di 21 giorni. Erano pronti anche a uno sciopero a tempo indeterminato, ma i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro hanno preferito evitare. Le tariffe ridotte risultanti dalle trattative non soddisfano affatto le richieste sindacali di aumento “di poco meno del 5%” (soprattutto perché il 3,2% è dilazionato in due anni!). Ecco che si ripresenta il problema: il quadro sindacale in cui si muovono i lavoratori è determinato da apparati che si sono sottomessi alla logica e agli interessi del sistema capitalistico. I funzionari dei sindacati, spesso socialdemocratici, si sentono più co-manager di un’economia che funziona, che difensori coerenti degli interessi dei lavoratori. È per questo che alla base delle loro trattative c’è il compromesso, di classe ovviamente. Ma ciò richiede anche una certa flessibilità, mostrata nuovamente, stavolta, dall’ex capo del partito SPD, Gabriel, che a marzo ha accettato il posto di consulente, ben pagato, per il barone dei macelli Tönnies.

Ciò nonostante, anche da queste lotte sindacali controllate si evince la forza dei lavoratori e il fatto che la loro cooperazione sul piano produttivo è alla base del funzionamento della società: essi hanno dunque il potere potenziale di utilizzare questa forza anche per i propri interessi e contro il capitalismo. Se i lavoratori e le lavoratrici non lottano insieme per i propri interessi, nessuno lo farà al posto loro. Se la classe dei lavoratori, invece, è consapevole del proprio potere, può salvare se stessa e l’intera società evitando crisi, guerre ed epidemie incontrollabili.

Torniamo allora (e non solo perché quest'anno ricorrono i duecento anni dalla sua nascita!) a Friedrich Engels: “Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive le quali si sottraggono ad ogni altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori. […] Compiere quest’azione di liberazione universale è il compito del proletariato moderno. Studiarne a fondo le condizioni storiche e conseguentemente la natura stessa e dare così alla classe, oggi oppressa e chiamata all’azione, la coscienza delle condizioni e della natura della sua propria azione è il compito del socialismo scientifico, espressione teorica del movimento proletario” (Anti-Dühring, p.297-298, 304).

La forza sociale collettiva, visibile grazie alla lotta di classe proletaria, è diametralmente opposta alle confuse “proteste contro i provvedimenti dello Stato” guidate da una piccola borghesia più o meno disperata che può essere strumentalizzata significativamente da “squallidi fascisti”. L’affluenza dei cosiddetti “Querdenker” dimostra soltanto il progressivo decadimento della società borghese: costoro riescono a spiegarsi gli sviluppi politico-economici soltanto come frutto di cospirazioni di “poteri oscuri”, rivangano miti medioevali antisemiti, e sono ormai così “contaminati” da non salvarsi nemmeno con il cappello di alluminio che indossa. Questa piccola borghesia che con la crisi si è chiusa in se stessa, che non è capace né di esternare alcuna critica al capitalismo né di offrire alcuna prospettiva sociale, si presenta, durante la pandemia, come un kamikaze che vuole evitare il tramonto del capitalismo. Alcuni dei “Querdenker” a capo delle proteste sfruttano bene la propria posizione sociale per evitare la rovina: e, mentre gli operatori di autobus turistici compensano con le manifestazioni le perdite di fatturato dovute alla pandemia, l’iniziatore del movimento, Ballweg, concede licenze per l’utilizzo del nome “Querdenker” e raccoglie laute “offerte per il movimento” sul suo conto privato…

Questa follia generale è tanto ripugnante quanto è imbarazzante la contro-protesta degli esponenti “antifascisti di sinistra” dello Stato di polizia, un’alternanza di slogan da strilloni: prima si lamentano per la fine della democrazia, un attimo dopo aspirano a uno Stato forte. La sinistra, un tempo presunta “radicale”, si è ormai fusa nello Stato borghese, e ha tenuto così poco in considerazione la politica di classe da poter essere ora a disposizione della democrazia del capitale, senza riserve, lasciando molto spazio di opposizione a una “destra ipoteticamente critica al sistema”.

Anche se questo sistematico carnevale politico non ha nulla a che fare con la prospettiva anticapitalista assolutamente necessaria, allo stesso tempo è espressione della mancanza di un forte movimento di classe proletario e di un suo partito ben definito. Quanto più tangibile diventa la crisi (e la pandemia funge in questo caso da catalizzatore) tanto più chiara diventa la mancanza di un’alternativa anticapitalista, che può scaturire soltanto dalla lotta di classe proletaria. Lotta che ha una lunga tradizione, una vasta esperienza e un programma storico: il Programma del Partito Comunista! Sulla base del quale dobbiamo lavorare e lottare! Per il Comunismo!

dicembre 2020

[1] Edizione italiana: Editori Riuniti, p.295. La citazione successiva è a p.297.

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