Siamo sicuri che questo 2017 centenario della Rivoluzione d'Ottobre trascorrerà all'insegna del più rabbioso e rivoltante anticomunismo. Ci sarà la riedizione (in versione idiotamente banalizzata, come si conviene a un'ideologia dominante che può solo esprimere il progressivo imputridimento del modo di produzione capitalistico e di tutti i suoi rapporti sociali) della campagna di calunnie e attacchi, mistificazioni e distorsioni, manipolazioni e travisamenti, con cui, fin dalla presa del Palazzo d'Inverno, gli ideologi della classe dominante capitalistica hanno cercato di negare la necessità – urgente, drammatica – della società senza classi, del comunismo. Senza però mai riuscirci: lo stesso livore e la stessa perversione con cui si manifesta, nei confronti dell’Ottobre Rosso, la mobilitazione ideologica e pratica della classe dominante sono la prova più evidente che il terrore del comunismo è sempre vivo, tanto più in quanto il vicolo cieco in cui il capitalismo si dibatte senza poterne e saperne uscire alimenta i suoi peggiori incubi. Ma ci sarà anche e soprattutto (ulteriore aspetto dell'anticomunismo, anche se ai più sprovveduti ciò non pare) la retorica imbalsamazione dell’Ottobre Rosso da parte di tutti coloro che, eredi e continuatori della tradizione democratica, socialdemocratica e staliniana, si lanciano in esercizi di retorica nella speranza di recuperare uno straccio di identità, e lo fanno naturalmente con tutti i distinguo necessari, con tutte le più acrobatiche prese di distanza, con tutte le ipocrisie tipiche dei pentiti e dei traditori – con tutti gli equilibrismi e le capriole cui la loro storia infame li ha abituati sull'arco dei cento anni. Entrambi gli schieramenti sono fluidi, sovrapponibili e intercambiabili, in reciproca e truffaldina alternanza. Soprattutto, sono pronti a fondersi in un unico, solido fronte anti-proletario quando il momento lo richieda, quando la nostra classe mostri di non voler più accettare passivamente l’oppressione cui è sottoposta giorno dopo giorno e minacci d’imboccare la via di una risposta classista e rivoluzionaria.

Per noi, tornare all'Ottobre Rosso, come faremo nel corso di quest'anno con articoli e iniziative pubbliche ovunque lo permettano le nostre forze, non è un patetico “come eravamo”, un ennesimo esempio di “memoria congelata”. L'esperienza del 1917 (come della Comune di Parigi del 1871), punto d'arrivo di tutto un lavoro di partito iniziato nel 1848 che presupponeva un’estensione nel tempo e nello spazio del processo rivoluzionario (cosa che la controrivoluzione borghese, nelle sue forme democratiche e socialdemocratiche, nazifasciste e staliniane, bloccò per tutti questi lunghi, tremendi decenni), è per noi materiale vivo da cui trarre lezioni preziose e irrinunciabili per un futuro che, nella materialità dei fatti, si va inevitabilmente preparando. Per noi, “Ottobre Rosso!” non è uno slogan nostalgico, un'icona inoffensiva: è un grido di guerra che da allora difendiamo con le unghie e con i denti, per trasmetterlo alle generazioni più giovani, destinate a dover affrontare con spirito militante i devastanti sussulti agonici di un modo di produzione che ha raggiunto tutti i limiti storici della propria esistenza. E che dunque va distrutto, pena l'indicibile sofferenza (per sfruttamento, miseria, fame, devastazioni, guerre) della specie che solo nel comunismo potrà infine dirsi umana.

Cent’anni

Se volgiamo lo sguardo indietro, al secolo trascorso da quel 1917, e intorno a noi, all’odierno “stato di salute” della società del Capitale, le ragioni per farla finita una volta per tutte con questo modo di produzione bastano e avanzano. C’è forse stato un solo momento, in questi cent’anni, in cui le armi abbiano taciuto? Due guerre mondiali, un’infinità di guerre e guerricciole più o meno “locali”, un susseguirsi incessante di invasioni e colpi di Stato, di incursioni e stragi, di bombardamenti e pulizie etniche, con decine e decine, centinaia di milioni di morti, una carneficina che sembra non avere mai termine: nella civilissima Europa come nella “periferia dell’inferno”, in Asia o in America Latina. Anche solo restando all’oggi, a quest’oggi che tanto angoscia i belanti benpensanti, la distruzione di vite che prosegue in un Medio Oriente massacrato da tutte le potenze imperialiste, regionali e mondiali – o in un’Africa che continua a essere terreno di caccia, tremendo safari praticato dalle ex-potenze coloniali trasformatesi in imperialismi (dominanti o straccioni aspiranti al dominio) con la corresponsabilità delle élites borghesi locali, addestrate e mantenute in lunghi decenni di penetrazione del capitale, dovrebbe far pensare... Come dovrebbe far pensare lo sviluppo esponenziale e impressionante della progettazione e della vendita di armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e micidiali, con le loro provvidenziali ricadute sull’economia di tutti i paesi – altre merci da produrre e vendere (legalmente o illegalmente), consumare e riprodurre al più presto, per poterne trarre lauti profitti con cui gonfiare un PIL miserabile… Da che cosa deriva tutto ciò? Vogliamo davvero dar retta alle stupide banalità dell’ideologia dominante, laica o religiosa che sia? il Male, la Follia, la Disonestà, il Cattivo, il Mostro, la Natura Sempre Maligna dell’Uomo… Ci possiamo davvero accontentare di simili idiozie, che consegnano presente e futuro all’impotenza piccolo-borghese delle braccia allargate in segno di resa – ma poi subito pronte, “quando la Patria chiama”, ad afferrare il mitra contro il Nemico Di Turno?

E c’è stato un solo momento in cui l’economia capitalistica, nelle sue fasi espansive di accumulazione del capitale come in quelle recessive di sovrapproduzione e crisi, non abbia macinato vite umane – milioni e milioni di vite nell’Occidente avanzato come nei “paesi in via di sviluppo”, una massa sempre gonfiantesi di proletari che non possiedono nulla se non la propria forza-lavoro da riversare nelle galere delle fabbriche, delle miniere, dei laboratori più o meno clandestini, nei campi e sui mari, nelle strade e negli uffici? Quanti milioni di miliardi di ore di pluslavoro sono stati estratti da quei muscoli e nervi, da quei corpi sfiniti dai ritmi, dai veleni e dalle macchine, da quei cervelli annichiliti da una fatica senza sosta e senza prospettiva se non quella di giorni sempre eguali, alla catena? Quanti milioni di omicidi sul lavoro (e di assassinii di proletari ribelli o in lotta, sui picchetti, negli scioperi, nelle manifestazioni, o, più “semplicemente”, nei quartieri proletari) sono stati perpetrati dalla classe dominante borghese per mezzo di quel suo braccio armato che si chiama Stato, in questi cento anni? Quanti miliardi di miliardi di ore sono stati sottratti alla vita di bambini, donne, anziani, accumulando strazio su strazio? Quanti miliardi di miliardi di ore di inutile ricerca di un posto, spinta fino alla rassegnazione e spesso al suicidio, hanno assillato, angosciato, spossato chi veniva buttato fuori dal luogo di lavoro, non solo nell’eccezionalità delle crisi ma anche nella normalità di processi produttivi fondati sull’anarchia della produzione? Come “quantificare” tutta questa sofferenza? Ogni tanto, nel descrivere le condizioni di vita e di lavoro di braccianti clandestini, di proletari travolti nel crollo di miniere o bruciati nel rogo di fabbriche, qualche ideologo borghese, qualche scribacchino, si spinge fino a parlare di “cose da rivoluzione industriale” – come se, in quei luoghi, in quei frangenti, si fosse “scandalosamente tornati indietro”. No!, quelle “cose” hanno accompagnato, continuano e continueranno ad accompagnare il capitalismo, ieri, oggi e domani, lungo tutto l’arco della sua vita fatta di continui rivolgimenti e innovazioni tecnologiche.

“Ma, che fare, altrimenti?”, replica il benpensante. Appunto.

Nel cinico vocabolario dell’oggi, una delle parole più usate è “profugo”. Ma quanti milioni di “profughi” si possono calcolare sull’arco di questi cent’anni, in fuga da miseria e carestie, guerre e devastazioni, mancanza di lavoro e oppressione sociale e politica? Migrazioni imponenti, spostamenti di intere popolazioni fra sofferenze inaudite – per andar dove? Dov’è il “dove” che possa in qualche modo salvare queste vite dalla distruzione, in un mondo dominato da un capitale che può crescere solo a patto di distruggere, che è in eterna competizione nei suoi segmenti aziendali, locali, regionali e nazionali, che si fonda sul motto mai così abilmente e spietatamente tradotto in pratica del “mors tua, vita mea”?

Il belante benpensante si preoccupa per il degrado ambientale, per la crescita esponenziale della violenza contro donne e bambini, per l’incattivire della vita sociale a tutti i livelli, per il degenerare progressivo dei rapporti inter-personali: il “razzismo”, il “populismo”, il “maschilismo”, la “pedofilia”, la “donna-oggetto”… E, povero ingenuo!, invoca “più controlli, più polizia, più soldati, più Stato” – come se questi non fossero strumenti di cui si dota (e che applica abilmente) quella stessa classe dominante che è responsabile di questi scempi. O “più cultura”, come se si trattasse di una pura questione di ignoranza, di arretratezza individuale. Invece, questi veleni, materiali e ideologici, chimici e psicologici, hanno sempre accompagnato le “magnifiche sorti e progressive” della società di classe fondata sull’estrazione di plusvalore, sulla ricerca del profitto, sulla mercificazione degli individui e delle masse – sempre, fin da quando essa combatteva la giusta e necessaria battaglia contro il modo di produzione precedente, quello feudale (e lo faceva ad armi in pugno). Basterebbe solo vedere com’è stata ridotta l’Africa dalla penetrazione del capitale, prima coloniale e poi imperialistica, con la desertificazione di aree enormi, la fame endemica di popolazioni intere, le guerre inter-etniche alimentate ad arte (divide et impera), le incessanti migrazioni per fame e malattie; o solo studiare (ma materialisticamente e non moralisticamente) la “condizione della donna” nei paesi “avanzati” come in quelli “arretrati”, in quelli laici come in quelli integralisti religiosi, per rendersene conto!

A questo punto, ci sarà anche chi dirà: “Però siamo andati sulla Luna, abbiamo gli antibiotici, abbiamo Internet!”. Vale la pena di rispondere?

Oggi, per quanti sforzi faccia, la classe dominante non riesce a risolvere la crisi del proprio modo di produzione. Al contrario, nuove crisi devastanti si profilano all’orizzonte e si aggravano i conflitti inter-imperialistici. Così, si accumulano i materiali esplosivi che porteranno, quando ogni altra “soluzione” si dimostri impraticabile, a un nuovo conflitto generalizzato, non più locale o d’area – una terza guerra mondiale.

Cent’anni. Sembra ieri.

La necessità del comunismo

Il capitalismo non è l’ennesima incarnazione del demonio: conosciamo bene qual è stata la sua funzione progressiva nel combattere e sconfiggere il modo di produzione precedente, quello feudale. Ma ora è giunta la sua, di ora, e deve suonare la sua, di campana a morto. Per questo, riprendiamo l’Ottobre Rosso (e la Comune di Parigi), per guardare avanti: alla necessaria lotta e organizzazione per abbattere questo modo di produzione che, pur nella sua agonia, non morrà da solo, e anzi renderà ancor più avvelenati e distruttivi i propri rantoli.

A tutti i livelli, nell’economia come nella politica, nella società come nell’ambiente o nei rapporti inter-personali, la necessità del comunismo diventa ogni giorno più acuta – e urgente, perché i veleni ideologici e materiali, il dissesto generalizzato, il peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione mondiale hanno raggiunto livelli mai toccati prima, che potrebbero anche minacciare il futuro stesso della nostra specie.

L’ideologia dominante insiste da decenni sul “fallimento del comunismo”. In realtà, quello del comunismo è un capitolo ancora tutto da scrivere. Il comunismo come modo di produzione radicalmente diverso rispetto a quello capitalista non è mai esistito, né in Russia né in Cina né a Cuba, o in tutta la variegata geografia di “socialismi nazionali” inventati nel corso di decenni di controrivoluzione. Non da ora noi lo sosteniamo. Fin dalla metà degli anni ’20 del ‘900, i comunisti hanno condotto una lunga e aspra battaglia, che si può ben dire eroica, per denunciare, a livello sia teorico sia pratico, il mito falso e nefasto del “socialismo in un solo paese”, con tutto quel che esso ha avuto di conseguenze distruttive sul movimento operaio e comunista. Lo sta a dimostrare, con limpidezza inattaccabile, l’esperienza stessa della nostra organizzazione: tutto il lavoro di analisi che ha svolto, fatto di scritti e documentazioni, e la lunga linea diritta di lotte aperte condotte dai nostri compagni di generazioni su generazioni, contro ogni forma di revisionismo e opportunismo. E non è nostra intenzione riassumere qui tutto ciò 1.

Nel 1917, in pieno conflitto mondiale, la Russia zarista costituiva l’anello debole della catena imperialista. Schierata con Francia e Inghilterra, e in seguito Stati Uniti, cioè con uno dei due gruppi borghesi in lotta fra loro, era un paese in gran parte contadino e arretrato, con uno sviluppo capitalistico ancora embrionale, seppure già avviato. Ma tutto il mondo era in fibrillazione, in quegli anni d’inizio secolo: il capitalismo era già entrato nella sua fase più aggressiva, quella imperialista, e ovunque (in Europa come nelle Americhe e in Asia) grandi movimenti proletari, istintivamente classisti, ne scuotevano le fondamenta, mettendo in forse la sua sopravvivenza. Quella “globalizzazione” che sta dentro al DNA del capitale (divenuto ormai, nella sua fase imperialista, anonimo e impersonale, non più legato necessariamente alla “figura” del singolo capitalista, ma piuttosto incarnato dallo Stato-imprenditore, oltre che poliziotto) era accompagnata dunque da una dimensione necessariamente mondiale delle prospettive e dei processi rivoluzionari: già la Comune di Parigi, nelle parole di Engels, era la prima guerra di classe mondiale del proletariato. La rivoluzione che maturava nel seno stesso della società borghese poteva solo essere di natura e di respiro internazionali.

Nelle condizioni economico-sociali della Russia dell’epoca, la Rivoluzione d’Ottobre, guidata dal Partito bolscevico (e già preannunciata dal tentativo rivoluzionario del 1905, soffocato nel sangue), era – e non poteva essere altro – che una “rivoluzione doppia”, come Lenin aveva bene mostrato in testi come “Due tattiche della socialdemocrazia” e le “Tesi d’aprile”, sulla scorta delle analisi di Marx ed Engels sulla “rivoluzione in permanenza” 2: una rivoluzione comunista sul piano politico (perché poggiante sul proletariato e diretta dal Partito bolscevico), ma con compiti democratico-borghesi sul piano economico e sociale, specie per la grande presenza del contadiname. Si trattava cioè di prendere il potere contro lo Zar e contro la borghesia e, con esso saldo in pugno, introdurre in Russia il capitalismo, sotto gestione statale nei suoi gangli vitali, e di far ciò in stretta connessione con lo sviluppo della “rivoluzione pura” (esclusivamente proletaria, senza compiti democratico-borghesi) nell’Occidente pienamente sviluppato. Era questa, fin dagli inizi, la strategia di Lenin e dei comunisti: la Russia doveva resistere fin tanto che il potere fosse caduto in mano ai comunisti nei paesi-chiave dell’Europa, e in primo luogo (visto l’alto livello di sviluppo delle forze produttive) in Germania. La visione di Lenin non aveva un grammo di utopismo: il “socialismo in un solo paese” era impossibile comunque e soprattutto in un paese arretrato come la Russia. Solo quando il potere fosse stato saldamente in pugno dei compagni occidentali, le due “metà” si sarebbero potute riunire e compenetrare, e, allora sì, sarebbe stata aperta la “via al socialismo”. E, a dimostrazione di quanto fosse chiara al proletariato questa strategia, sul piano anche istintivo, basterà riportare l’episodio narrato da John Reed nei suoi Dieci giorni che sconvolsero il mondo: “Un soldato venuto dal fronte rumeno, magro, tragico e feroce, gridò: ‘Al fronte si muore di fame, si gela di freddo. Andiamo a morire senza scopo. Chiedo ai compagni americani di far sapere in America che i Russi non rinunceranno mai alla loro rivoluzione fino alla morte. La difenderemo con tutte le nostre forze fino a quando i popoli di tutto il mondo si leveranno ad aiutarci. Dite agli operai americani di insorgere e di combattere per la Rivoluzione Sociale’” (Capitolo II) 3.

Chiave di volta di questa prospettiva sarà allora l’Internazionale Comunista, fondata nel 1919 (si badi: in piena guerra civile, con la Russia strangolata dall’assedio feroce di tutti i capitalismi, ieri nemici, ora – contro il proletariato – tutti alleati) proprio per coordinare in un’unica organizzazione e azione i comunisti nel mondo. Il ritardo e la sconfitta (si badi: armi in pugno) della rivoluzione in Germania fecero sì che la rivoluzione in Russia rimanesse isolata e, infine, s’accartocciasse su se stessa: contadiname e piccola-borghesia, forze economiche materiali, ebbero via via la meglio all’interno sia del Partito bolscevico sia dell’Internazionale Comunista, già minata da tentennamenti tattici e strategici, contro cui, fin dal loro apparire, ci battemmo con vigore, da compagni a compagni 4.

Lo “stalinismo” fu l’espressione politica del prevalere di queste forze economiche: di una classe dominante, impersonale tanto quanto il capitale di cui è espressione, e poggiante su contadiname e piccola-borghesia. La “dittatura democratica del proletariato e dei contadini” fu via via sostituita dalla dittatura impersonale del capitale; seguì il rapido ribaltamento, a livello teorico e pratico, di tutti i cardini della dottrina comunista, sia sul piano economico che su quello politico. E a esso s’accompagnò la spietata eliminazione di tutta la “vecchia guardia” bolscevica, presupposto necessario della partecipazione al secondo massacro mondiale mediante l’alleanza prima con uno e poi con l’altro degli schieramenti imperialisti.

Non dobbiamo spendere altre parole per ribattere tutte le menzogne rovesciate sulla nostra classe dalla controrivoluzione in questi decenni: dalla “natura socialista” dell’“Urss” al “crollo del comunismo”. Né socialismo né comunismo sono mai apparsi in Russia (e tanto meno negli altri paesi che, seguendo lo stalinismo, hanno teorizzato il “proprio” “socialismo nazionale”). La necessità del comunismo si rivela allora con tutta la propria urgenza.

Le condizioni della rivoluzione proletaria

La rivoluzione né s’inventa né si fa: questa dunque una delle grandi conferme, questo uno dei grandi insegnamenti dell’Ottobre Rosso, solidamente ancorato all’esperienza teorica e pratica della Rivoluzione Russa del 1905, della Comune di Parigi del 1871 e del 1848 europeo. La rivoluzione si sviluppa a partire da condizioni oggettive, da condizioni materiali, che spingono (obbligano) masse enormi, esasperate e inconsapevoli, a ribellarsi nel tentativo di scrollarsi di dosso, finalmente, il regime che tanto le opprime e massacra. Sì, inconsapevoli: la rivoluzione non è e non potrà essere il risultato di una diffusione capillare di “coscienza di classe”, scaturita in qualche modo misterioso dall’“essere proletari”, come vorrebbero tanti spontaneisti (o riformisti), imbevuti di “culturismo” e “idealismo” borghese e piccolo-borghese.

“Dunque, voi volete una rivoluzione di incoscienti?”, esclameranno inorriditi costoro. Non è questione di “volere” o “non volere”: materialisticamente, è così che si sviluppa e si svilupperà il processo rivoluzionario. Le masse proletarie non si muovono perché in possesso della chiara visione della tattica e della strategia, del programma e delle finalità, del comunismo. Si muovono e si muoveranno perché esasperate, perché non ce la fanno più a vivere (o, meglio, sopravvivere), perché sono incalzate dalla fame, dalla miseria, dalle guerre, dai massacri, perché la crisi sociale e politica è ormai generalizzata e la stessa classe dominante vacilla ed è incapace di farvi fronte. Sono queste, in rapida sintesi, le condizioni oggettive necessarie perché s’inneschi un processo rivoluzionario.

Bastano? No di certo. E’ necessaria un’altra condizione, questa volta soggettiva, ma strettamente intrecciata alle condizioni oggettive: la presenza operante, riconosciuta e sostenuta da uno strato decisivo di avanguardie di lotta, del partito rivoluzionario.

Diamo la parola a Lenin: “Finché si tratta (e in quanto ancora si tratta) di attrarre dalla parte del comunismo l'avanguardia del proletariato, il primo posto spetta alla propaganda. In questo caso, anche i circoli, con tutte le debolezze proprie della vita di circoli, sono utili e danno risultati fruttuosi. Quando si tratta dell'azione pratica delle masse, quando si tratta di schierare – se è lecito esprimersi così – eserciti di milioni di uomini, di disporre tutte le forze di classe di una data società per l'ultima e decisiva battaglia, allora, con i soli metodi della propaganda, con la sola ripetizione delle verità del comunismo ‘puro’, non si ottiene nulla. In questo caso, non si deve contare a migliaia, come in sostanza conta il propagandista, membro di un gruppo ristretto, che non ha ancora diretto le masse, ma si deve contare a milioni e a decine di milioni. In questo caso, non dobbiamo soltanto chiederci se abbiamo persuaso l'avanguardia della classe rivoluzionaria, ma anche se le forze storicamente operanti di tutte le classi, di tutte assolutamente le classi di una data società, senza eccezione, sono disposte in modo che la battaglia decisiva sia già del tutto matura, in modo: 1) che tutte le forze di classe che ci sono ostili si siano sufficientemente imbrogliate, si siano sufficientemente azzuffate fra loro, si siano sufficientemente indebolite in una lotta superiore alle loro forze; 2) che, a differenza della borghesia, tutti gli elementi intermedi, esitanti, vacillanti, instabili, e cioè la piccola borghesia, la democrazia piccolo-borghese, si siano sufficientemente smascherati davanti al popolo, si siano sufficientemente screditati col loro fallimento all'atto pratico; 3) che nel proletariato sia sorta e si sia potentemente affermata una tendenza di massa ad appoggiare le azioni rivoluzionarie più decise, più coraggiose contro la borghesia. E allora la rivoluzione è davvero matura, allora, se abbiamo tenuto nel debito conto tutte le condizioni sopra enunciate e brevemente tratteggiate e se abbiamo scelto bene il momento, la nostra vittoria è sicura” (Lenin, L’estremismo, condanna dei futuri rinnegati, Cap. 10).

E ancora: “La legge fondamentale della rivoluzione, confermata da tutte le rivoluzioni e particolarmente da tutte e tre le rivoluzioni russe del secolo ventesimo [1905, febbraio 1917, ottobre 1917 – NdR], consiste in questo: per la rivoluzione non è sufficiente che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell’impossibilità di vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti; per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per il passato. Soltanto quando gli ‘strati inferiori’ non vogliono più il passato e gli ‘strati superiori’ non possono fare come in passato, la rivoluzione può vincere” (L’estremismo, malattia infantile del comunismo, Cap. 9).

E’ evidente da queste due citazioni (fra le tante possibili) che l’elemento decisivo, senza il quale (è la storia stessa a dimostrarlo, in maniera tragica e sanguinosa) ogni “assalto al cielo” è destinato a soccombere, è il partito rivoluzionario, organo direttivo della rivoluzione, di ogni movimento di massa che si sprigioni dal sottosuolo di una società ormai in crisi cronica. Solo dall’interazione di questi due elementi in rapporto dialettico fra loro (condizioni oggettive e condizioni soggettive: un proletariato deciso, sotto la spinta di determinazioni materiali, a farla finita con il regime esistente; un partito che, nel tempo, attraverso un lungo lavoro a contatto con la classe nelle sue lotte di difesa e di offesa, se ne sia guadagnata la fiducia, in senso concreto e materiale), solo dall’interazione di questi due elementi in rapporto dialettico fra loro può svilupparsi e affermarsi il processo rivoluzionario volto alla conquista del potere. E’ questa la grande lezione dell’Ottobre Rosso. E che pena quegli “storici”, quegli opinionisti, quegli scribacchini (sempre ce ne furono, e a bizzeffe ce ne saranno, in questo 2017!) che blaterano della Rivoluzione d’Ottobre come di un “colpo di mano di Lenin”: insomma, di un putsch…! E bellamente dimenticano (o tacciono) ciò che ha preparato l’Ottobre: la rivoluzione del 1905, l’incessante guerra di classe condotta dallo zarismo (alleato dei “paesi democratici”) contro il proletariato e il contadiname russi, le immani sofferenze causate al fronte come nelle retrovie, i ripetuti episodi di ammutinamento e insubordinazione nell’esercito, la caduta dello zar e le giornate di luglio, la conquista dei soviet da parte dei bolscevichi, la mobilitazione armata contro il tentativo reazionario di Kornilov… tutto un processo che fermenta e matura (e non solo in Russia!) e che i bolscevichi seppero alimentare, organizzare, guidare lungo mesi e anni. E che sfocerà, non nella “bella giornata” (o “nottata”), ma nei dieci giorni che sconvolsero il mondo. La rivoluzione non si fa né s’inventa, ma si organizza e si guida: a condizione però di aver combattuto per la sua preparazione prima, e che a organizzarla e guidarla sia il partito rivoluzionario, verso la conquista del potere.

La questione del potere

E’ di questo che si trattò allora e si tratterà domani (un domani cui ci dobbiamo preparare): della conquista del potere. Non di ipotetici miglioramenti all’interno della società così come è. Non di ritocchi, abbellimenti, cerone e fondotinta a coprir le rughe. Insomma, non di illusioni democratiche e riformiste. La rivoluzione proletaria ha come obiettivo la conquista del potere: cioè, la distruzione dello Stato borghese che, con tutti i suoi apparati, è l’organo politico-militare-finanziario-poliziesco-ideologico della classe dominante – e non la sua “occupazione” quasi fosse una stanza vuota da arredare ex novo o un simulacro cui dar nuova vita. In una società di classe, lo Stato non è un organismo al di sopra delle parti che s’incarichi di mediare “per il bene di tutti”: è lo strumento con cui la classe dominante esercita il proprio potere su tutta la società e in primo luogo sulla classe dominata.

Il proletariato, guidato dal suo partito, dovrà quindi prendere il potere ed esercitarlo con tutta la forza, la decisione e l’audacia che gli sono proprie quando riesca a sottrarsi all’abbraccio mortale dei partiti opportunisti, riformisti, controrivoluzionari. Dovrà esercitarlo, quel potere, sia per difendere la rivoluzione in corso da tutti gli attacchi esterni e interni (che saranno – è ancora la storia a dimostrarlo – furibondi, spietati, sanguinari), sia per operare quegli interventi dispotici nell’economia e nella società atti a liberare le forze produttive dalla camicia di forza di forme e rapporti giuridici obsoleti e superati dalla storia. Dovrà farlo attraverso la propria dittatura, diretta dal proprio partito, come ponte di passaggio verso la società senza classi, e dunque (solo allora) senza Stato; e dovrà farlo in una dimensione e prospettiva internazionale, mondiale, e non locale o nazionale: pena la sconfitta.

I comunisti non sono gli anarchici che immaginano che il “mondo nuovo”, l’“ordine nuovo”, sorgano, come il sole, all’indomani della “grande giornata”. Una lotta aspra ci attende: prima di poter dire di aver respinto gli attacchi concentrici di tutti i paesi capitalisti alleati contro di loro, i bolscevichi dovettero difendere il potere conquistato per tre lunghi anni di assedio, di sofferenze inaudite, contro nemici non solo esterni che non accettavano di arrendersi. Anche qui, non stiamo a ripetere ciò che i comunisti hanno sempre affermato e sostenuto sull’arco di più di centocinquanta anni di durissime battaglie, fatte di teoria e di prassi: una volta ancora, bastino i testi di Marx, Engels, Lenin, Trotsky, i nostri testi, basti l’esperienza stessa del movimento operaio e comunista. Non c’è proprio nulla da aggiungere!

“Bisogna prendere il potere!”, ripeteva con martellante insistenza Lenin, prima dell’Ottobre. E’ una parola d’ordine che i comunisti agitano sempre, anche quando la situazione non è ancora matura, perché essa deve penetrare nelle stesse lotte quotidiane condotte dal proletariato: nel senso che, sempre e comunque, si tratta di una questione di rapporti di forza. Il proletario che si batte negli scioperi e sui picchetti contro gli sgherri del padrone e le bande armate legali e illegali dello Stato borghese dovrà comprendere non solo che, al di là di conquiste passeggere (e comunque necessarie alla sopravvivenza), è la forza a far la differenza – la forza dell’organizzazione sviluppata sul territorio, della solidarietà classista al di là di ogni divisione interna, della risposta a muso duro a ogni attacco portato dal nemico. Ma che, per quante conquiste parziali si possano conseguire, il problema ultimo e supremo è quello del potere, del proprio potere conquistato ed esercitato in maniera organizzata, senza remore e debolezze, contro la vecchia classe dominante.

Questo è vero per qualunque aspetto, per qualunque “problema” risultante dal modo di produzione capitalistico. Per esempio, come imporre anche solo una riduzione effettiva dell’orario di lavoro, eliminando sfruttamento, nocività, sperequazioni di ogni tipo, disoccupazione dilagante, e riorganizzando l’intero sistema industriale in modo che sia davvero al servizio, non del profitto, ma dei bisogni della specie umana, senza un potere saldamente in pugno al proletariato e al suo Partito? O ancora: ci si può davvero illudere di risolvere la questione ambientale, l’odierno, crescente dissesto idro-geologico frutto dell’anarchia del capitalismo, senza quel potere centrale, centralizzato e centralizzatore, che lavori non solo per l’oggi ma per le generazioni future?

Se non si comprende la necessità di questo potere, si ricade inevitabilmente in una logica d’imbelle riformismo, tanto più frustrante quanto più cresce e avanza la distruttività capitalistica. Al contrario, solo comprendendo la necessità della presa del potere, e dunque di un’organizzazione centralizzata di battaglia che abbia questo obiettivo, solo così si potranno condurre anche lotte parziali miranti alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro con la necessaria intransigenza e durezza, riconoscendo la propria forza e facendola sentire all’avversario, che sia il padronato o lo Stato con tutte le loro pratiche terroristiche.

Contro la guerra imperialista

“Pane, terra, pace”: così, in maniera diretta ed efficace, il partito bolscevico sintetizzò il proprio programma e seppe raccogliere intorno a esso, grazie a un lungo lavoro preventivo, la classe proletaria e i contadini poveri. “Pane” e “terra” significano riorganizzare una società in aperto antagonismo con le leggi del Capitale, che al contrario sfruttano, immiseriscono, affamano: una realtà, questa, che si perpetua fin dall’alba della rivoluzione industriale e dell’affermazione del modo di produzione capitalistico – Marx nel Capitale ed Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra, fra i loro tanti lavori, l’avevano già messa a nudo. E, in quella sintesi efficace, “pane” e “terra” avevano sempre costituito, nel corso dell’800, il nucleo centrale del programma di tutti i partiti degni d’essere chiamati socialisti. A essi, nel pieno della prima carneficina imperialista mondiale, doveva necessariamente aggiungersi il terzo elemento: “pace”. L’osceno tradimento della socialdemocrazia europea, schieratasi (con l’eccezione di piccoli gruppi di compagni) a favore dei crediti di guerra nei rispettivi Stati, aveva rappresentato la rottura con tutta la tradizione, con la teoria e la prassi, del marxismo. Quei piccoli gruppi di compagni s’erano incontrati in Svizzera (a Zimmerwald nel 1915, a Kienthal nel 1916) per ristabilire la rotta: contro la guerra imperialista, guerra civile per la conquista del potere.

Di nuovo, nessuna invenzione, nessun “colpo di mano” di Lenin o di chissà chi: il comunismo non è il cristianuccio pacifismo belante, è un grido di guerra, la guerra di classe che pone fine a tutte le guerre, stroncando una volta per tutte l’ultima società di classe che quelle guerre inevitabilmente produce. Si può misurare già qui l’altro immane e schifoso tradimento perpetrato dallo stalinismo ormai trionfante (anche, sanguinosamente, sulla “vecchia guardia” comunista): quello di essersi schierato prima su un fronte imperialista e poi sull’altro, nel secondo macello imperialista! “Pace”, dunque poteva solo significare “guerra alla guerra”: presa del potere – dittatura dei proletari e contadini poveri diretta dal partito comunista – immediata sospensione di ogni attività militare sui fronti della guerra imperialista, anche a costo di gravissime concessioni.

Ancora una volta, i compagni russi seppero radicare quella parola d’ordine in una generale atmosfera di istintivo rifiuto di continuare a farsi massacrare nelle trincee, da parte non solo dei proletari e contadini poveri russi, ma di gran parte dei “proletari in divisa”, in Europa come negli Stati Uniti e perfino in Australia. Abbiamo già documentato (e sarà utile continuare a farlo) gli episodi di fraternizzazione da entrambe le parti e i moti di spontaneo rifiuto della guerra imperialista succedutisi in quegli anni insanguinati. In Italia, che cosa fu Caporetto, se non un immediato “No!” al massacro, completo di fucilate agli ufficiali guerrafondai, da parte di proletari in divisa purtroppo abbandonati a se stessi da un Partito socialista tremebondo e legalitario (ma molti altri furono gli atti di eroica resistenza che andrebbero riportati alla luce, come i moti di Torino dell’agosto 1917)? In Germania, i marinai della flotta tedesca di stanza a Whilelmshaven e a Kiel si ribellarono più volte nel corso dei due drammatici anni 1917 e 1918, giungendo a costituire soviet di soldati. In Francia, gli atti di insubordinazione si susseguirono già dal 1916, culminando negli ammutinamenti diffusi della primavera 1917 nelle trincee dell’orribile Chemin des Dames e di altre località (30mila soldati che si rifiutano di combattere; qualcosa come 3500 condanne, di cui 554 a morte, una cinquantina eseguite) e nell’episodio della rivolta dei soldati russi di stanza a La Courtine, con l’istituzione di un soviet locale (episodio a lungo tenuto segreto dalle autorità francesi, ma raccontato con abbondanza di riferimenti e particolari da John Reed nel suo Dieci giorni che sconvolsero il mondo). I soldati inglesi impegnati su suolo francese non furono da meno (specie in concomitanza dei sanguinari orrori delle battaglie di Ypres e di Passchendaele), sostenuti da un vigoroso movimento anti-militarista in patria, nei distretti proletari del Clydeside, del Galles del Sud, dello Yorkshire, del Lancashire. Negli Stati Uniti, gli Industrial Workers of the World condussero una decisa campagna anti-militarista su basi classiste e furono oggetto di una furibonda e spietata repressione, e la sinistra di quel grande carrozzone che era il Socialist Party of America costrinse il partito ad assumere almeno una posizione di neutralità e opposizione alla guerra. In Australia, clamore fece l’arresto, nel settembre 1916, dei “dodici di Sydney”, militanti operai membri degli Industrial Workers of the World, accusati di tradimento e sedizione per la loro intensa attività contro la leva obbligatoria…

Sono solo alcuni esempi. Ma mostrano, da un lato, l’ampiezza della mobilitazione (anche istintiva, spontanea) contro la guerra da parte del proletariato mondiale, e dall’altro la prospettiva sempre internazionale e internazionalista che animava i compagni russi, nell’agitare quelle tre parole d’ordine sintetiche, “Pane, terra, pace”. Altro che “Lenin pagato dagli alti comandi tedeschi”, come ripetevano allora (e si ostinano a ripetere oggi) gli stupidi pappagalli borghesi, di ogni colore! Com’è noto, pace fu, con il trattato di Brest Litovsk firmato il 3 marzo 1918, pochi mesi dopo la presa del Palazzo d’Inverno, a metter fine al massacro dei proletari da una parte e dall’altra del fronte orientale. “Cose di Russia”? “Cose del 1917”? No, “cose” che devono tornare a essere, oggi, centrali al quotidiano lavoro di chiarificazione teorica e di propaganda, agitazione, proselitismo e organizzazione del partito comunista mondiale. La “guerra alla guerra”, o – meglio ancora – la “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile per la presa del potere” non fu, per i compagni russi, un accidente: fu il punto di arrivo di tutta un’opera, clandestina e non, a contatto con la classe proletaria, che ruotava intorno al disfattismo rivoluzionario, cioè un’opera di disgregazione dell’esercito zarista, di smantellamento delle gerarchie, di creazione di soviet di soldati… un’opera che non s’improvvisa, come tutte le tattiche e strategie del comunismo, ma che si prepara da lunga data e che – una volta di più – presuppone la presenza e l’intervento assidui e militanti del partito rivoluzionario. Pena il disastro.

Il disfattismo rivoluzionario, infatti, è parte integrante della strategia comunista e si sviluppa in campi e tempi diversi, e non solo in quello militare e di una guerra in corso. Presuppone cioè la comprensione del carattere classista dello Stato borghese e di tutte le sue articolazioni e la necessità del suo abbattimento: Marx, Engels, Lenin, e il 1848, il 1871, il 1905, insegnano. A sua volta, ciò implica un lungo e profondo lavoro a fianco della nostra classe, per reintrodurre in essa la consapevolezza che l’economia nazionale non è un bene comune da salvaguardare e difendere, al cui altare sacrificare le proprie condizioni di vita e di lavoro; e che quindi le sue “superiori esigenze” sono la trappola per incastrare il proletariato e condurlo infine, mani e piedi legati, alla “difesa della Patria”, in una guerra fratricida contro altri proletari. La trasformazione della guerra imperialista in guerra civile per la presa del potere, il disfattismo rivoluzionario nella società di classe, saranno possibili insomma solo se tornerà a svilupparsi, dietro la pressione di fatti materiali e grazie all’intervento del partito rivoluzionario, un antagonismo di classe che rifiuti ogni tipo di concertazione, di “unione sacra”, di identità d’interessi fra Capitale e Lavoro, e che si dia le proprie strutture organizzate di difesa delle condizioni di vita e di lavoro sul territorio e fuori delle gabbie del posto di lavoro (o di non lavoro).

E disfattismo rivoluzionario vuol dire internazionalismo. E’ evidente che il rifiuto di schierarsi a fianco del capitale nazionale nei quotidiani conflitti di classe e poi a fianco della “Patria in pericolo” nelle fasi cruciali che portano al conflitto inter-imperialistico, quel rifiuto implica una visione e una prospettiva strategica internazionali, non importa quanto ciò sia chiaro ed evidente alla grande massa dei proletari. E’ infatti nello sprigionarsi e approfondirsi della vera lotta di classe – quella cioè che, dagli scontri con padronato, Stato e loro lacchè politici e sindacali, trae vigore, alimentando al contempo il più ampio antagonismo sociale – che rinasce e si rafforza la solidarietà classista e internazionalista. D’altra parte, o il processo rivoluzionario si sviluppa internazionalmente (non nel senso stupido e banale della “contemporaneità”, ma in quello sostanziale della prospettiva) oppure quel processo rischia l’involuzione e infine la sconfitta, tanto per fattori esterni (l’aggressione da parte delle coalizioni statali borghesi) quanto per fattori interni (il prevalere di forze materiali – economiche e sociali – controrivoluzionarie). Parigi 1871 e Russia 1917 lo confermano in maniera drammatica.

Disfattismo rivoluzionario e internazionalismo, dunque. Oggi il mondo del Capitale è sempre più in fiamme: non c’è bisogno di elencare ancora una volta le stragi quotidiane che suscitano ogni giorno lamenti e sconcerto da parte delle “anime belle”, dei benpensanti di ogni collocazione. Di più: in tutti i focolai da cui si sprigionano fiamme, si accumulano ben altri materiali esplosivi – i presupposti di un terzo conflitto mondiale. Ecco allora che l’esperienza e gli insegnamenti di Ottobre 1917 sono più che mai attuali, perché di lì si dovrà passare di nuovo. E, se non si riuscirà a impedire lo scoppio del conflitto inter-imperialistico mondiale, si dovrà operare per trasformarlo in guerra civile per la presa del potere. Proletari, attenti: l’orlo dell’abisso è sempre più vicino!

La necessità del partito

E’ superfluo, a questo punto, aggiungere una volta di più che tutto ciò implica la necessità del partito rivoluzionario, unica forza in grado di tradurre nell’oggi le lezioni dell’Ottobre 1917, che sono poi la sintesi dell’enorme patrimonio teorico e pratico del marxismo. Quelle lezioni valgono oggi e domani, ma solo a condizione che si rafforzi ulteriormente, radicandosi a livello mondiale, quell’organo politico senza il quale il proletariato, pur nelle lotte generose di cui è e sarà sempre capace e protagonista, non potrà mai farla finita con il presente modo di produzione. E’ questo il compito urgente, non rimandabile, di tutti coloro che, dalla mostruosa distruttività del capitalismo nella sua fase imperialista, sono spinti a sentire e volere il comunismo: non come uno slogan nostalgico o una proclamazione retorica o un bisogno esistenziale, ma come una prospettiva che travalica le generazioni.

Solo il nostro Partito, che da un secolo e più a questa parte, attraverso gli alti e bassi delle vicende del movimento comunista, ha condotto un’incessante e decisa battaglia contro ogni forma di revisionismo e opportunismo, che è passato attraverso tutte le manifestazioni della più gigantesca e spietata controrivoluzione mai abbattutasi sul proletariato, può tradurre quelle lezioni nella strategia rivoluzionaria necessaria alla vittoria contro il nostro nemico storico: la borghesia. Solo noi che, fin dagli inizi, e soprattutto non appena manifestatisi i primi segni inquietanti della futura controrivoluzione nel seno stesso del Partito russo e dell’Internazionale Comunista, abbiamo condotto a viso aperto questa battaglia, possiamo rivendicare in pieno l’Ottobre 1917. Non come una data del calendario cui inchinarsi in devoto omaggio, ma come un grido di guerra.

 

1 Fra i tanti nostri lavori, vogliamo ricordare almeno Dialogato con Stalin (1952), Russia e rivoluzione nella teoria marxista (1954-55), Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (1955-57), Bilan d’une révolution (1967), “Perché la Russia non è socialista” (1970).

2 Cfr. almeno l’“Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti” (1850).

3 Cfr. anche “Il bolscevismo, pianta di ogni clima”, Il Soviet, 23/2/1919 (ora in Storia della sinistra comunista, Edizioni Il programma comunista, 1992, pp.343-344.

4 Cfr. Storia della sinistra comunista, Voll. III e IV, Edizioni il programma comunista, rispettivamente 1986 e 1997 (il Vol. V sarà disponibile nei prossimi mesi). Cfr. anche il nostro recente opuscolo La crisi del 1926 nel partito russo e nell’Internazionale Comunista (2016).

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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