Il motore del capitale, non solo tedesco, perde colpi. La vicenda della “truffa” delle emissioni dei motori diesel Volkswagen ha sollevato indignazione e sorpresa generali: “Ma come? Il colosso industriale tedesco si fa sorprendere a barare come un qualsiasi mariuolo delle basse latitudini, incrinando l'immagine dell'intera Germania, lo Stato esemplare per efficienza organizzativa e bilancio dei conti pubblici, a buon diritto giudice inflessibile di governi e popoli spendaccioni? In questo mondo davvero non ci sono più certezze cui affidarsi!”

Allo stupore ha fatto seguito il rituale j'accuse. Quando c'è di mezzo una divinità dell'Olimpo multinazionale, qualcuno dovrà ben pagare affinché il capitale torni a risplendere della vergine purezza che si addice al migliore dei mondi possibili! “L'Azienda è pura, è l'uomo il corrotto”. Così, i manager colpevoli sono stati allontanati e dovranno accontentarsi di qualche decina di milioni di buonuscita (sublime giustizia borghese!). Nuovi servitori d'azienda si faranno in quattro per restituire al marchio il suo cromato splendore e renderlo se possibile ancora più abbagliante.

Sarcasmo a parte, stupisce il fatto che una vicenda in sé così banale - si tratta di una semplice manipolazione (a scala industriale, certo) dei risultati dei test delle emissioni dei motori diesel con l'utilizzo di adeguati software - abbia originato una tale valanga di conseguenze da scuotere gli equilibri politici mondiali, aggravando addirittura il timore di una nuova crisi economica. L'avessimo saputo prima, invece di perder tempo sui testi di Marx ci saremmo messi a studiare il funzionamento delle marmitte…

In effetti, più che il fatto in sé, sono interessanti le reazioni, vero specchio della follia dilagante e dell'ipocrisia tipica della mentalità borghese. Immaginare che la sola Volkswagen si ingegni a manipolare i risultati dei test ricorda gli innumerevoli film di guerra in cui i tedeschi fanno la parte dei cattivi, mentre gli eroici alleati difendono deboli e bisognosi. E' una cosa puerile: eppure, nel nostro caso specifico, l'informazione, specie nei primi tempi, enfatizzava lo scandalo e ben pochi commenti suggerivano che la casa tedesca, a differenza delle case automobilistiche concorrenti, abbia avuto il gran torto di… farsi beccare.

Una cosa è certa: la rivelazione non è stata casuale. In questo mondo, viene dato risalto solo a ciò che avvantaggia il capitale, o una sua potente frazione a scapito di un'altra. Le reali motivazioni dello scoop non stanno certo nell'ansia di verità di qualcuno né nella volontà di salvaguardare la salute delle masse. Non si spiegherebbe altrimenti perché vicende ben più gravi siano trattate sbrigativamente o ignorate del tutto, magari per emergere dopo anni, quando i disastri sono stati consumati e i profitti intascati: come nel caso Eternit. Meglio evitare allarmismi, mentre i profitti sono in corso di realizzazione: si pensi agli affari delle industrie farmaceutiche, all'avvelenamento sistematico della terra con pesticidi e concimi chimici, alla gestione dei rifiuti tossici, alle scorie nucleari, alle grandi opere... Si potrebbe continuare all'infinito. Tutto ciò è arcinoto, ma fa parte della normalità ed è accettato come tale. Non se ne parla, se non quando le emergenze riempiono l'attualità per qualche tempo, o se ne parla quel tanto che basta per dimostrare che c'è libertà d’informazione, motivo sufficiente per stare tranquilli.

Invece, su questo caso che chiama in causa marmitte e filtri antiparticolato si è fatto un baccano tale da scuotere il mondo. Per carità, l'inquinamento che esce dai tubi di scarico dei veicoli a motore è dei peggiori, ma non c'è marmitta che tenga. Anzi, è dimostrato che quelle catalitiche sono per certi aspetti ancor più nocive di quelle che scaricavano nell'aria senza troppi filtri i fumi di combustione. Il fumo invisibile delle marmitte moderne entra meglio nei polmoni e i test non lo rilevano, a gloria del marchio e della sua avanzata tecnologia. L'unico modo per ridurre l'inquinamento automobilistico sarebbe smantellare l'assurdo sistema di trasporto individuale basato su propulsori dal rendimento ridicolo in rapporto all'energia consumata: ma vallo a dire ai petrolieri, alle case automobilistiche e al relativo indotto! Bisogna produrre, produrre e ancora produrre. Tutto il resto sono danni collaterali che si possono gestire con una buona politica di pubbliche relazioni, dentro un sistema di regole condivise. Appunto.

Ecco la colpa dei tedeschi di Wolsburg: il non aver rispettato le regolette che dovrebbero dimostrare la sensibilità dei produttori e dei legislatori nei confronti della tutela della pubblica salute, vera foglia di fico del sistematico inquinamento dell'aria e degli incalcolabili danni umani e sociali provocati dalla circolazione automobilistica. La casa tedesca ha barato sui test, ma i test sono di per sé una presa in giro. E' risaputo che i consumi dichiarati dalle case automobilistiche sono di molto inferiori a quelli reali: tutto fa parte della colossale finzione che ha inizio con il lancio pubblicitario di un prodotto e continua con le rassicurazioni sul ridotto impatto ambientale del nuovo modello. Per rispondere alle richieste di una clientela sempre più esigente, le macchine devono essere sempre più grosse e potenti, ma nello stesso tempo consumare poco ed emettere scarichi “puliti”. E' un evidente paradosso, ma intanto la presunta coscienza ecologica dell'acquirente del poderoso SUV si tacita all'idea di quanto il suo bolide sia tuttavia “rispettoso dell'ambiente”, e la ditta produttrice si gloria della “qualità superiore dei suoi prodotti”. Anche questo è un modo tutto ideologico per affermare che il futuro è del Capitale, che il progredire della tecnoscienza applicata alla produzione è in grado di risolvere tutti i problemi creati dal caotico sviluppo capitalistico.

Le cose stanno altrimenti. Il Capitale produce tante e tali schifezze nocive all'uomo e all'ambiente che, giunto al suo grado estremo di maturità storica e di capacità distruttiva, deve far digerire il rospo con una serie di panzane: dall’esibizione di sensibilità ambientalista alla devoluzione di una parte dei profitti a qualche iniziativa “umanitaria” (meglio se a vantaggio dell'infanzia).

In realtà, l'ultima preoccupazione per il Capitale è l'essere umano. L'importante è che si conservi il sistema del profitto, anche al prezzo di soffocare il mondo sotto una coltre di porcherie allo stato solido, liquido e gassoso. E' il Capitale la vera truffa!

Questa verità è sempre più difficilmente occultabile, specie in tempi di crisi. Gli accorgimenti tecnici antiinquinamento, a parte la relativa efficacia, costituiscono altrettanti costi di produzione. Quando la competizione si fa aspra, la prima zavorra di cui liberarsi è costituita proprio da questi orpelli, perché alla fine ciò che decide nella concorrenza è il prezzo di produzione.

Si potrebbe obiettare che per i modelli di alta gamma poche centinaia di euro destinati ad accorgimenti antiinquinamento hanno scarsa incidenza. Ma qui contano le prestazioni: chi compra un superbolide pretende che raggiunga i 100 km/h in una manciata di secondi, e l'applicazione di tecniche salva ambiente riduce i consumi e la potenza del motore. L'incidenza non è sul costo, ma sulla competitività del prodotto e sulla possibilità di realizzare il plusvalore che vi è contenuto. Inoltre, man mano che le dotazioni pro-ambiente progrediscono, la percentuale di riduzione di inquinanti che ne deriva è sottoposta alla legge degli incrementi decrescenti: l'applicazione di una tecnologia sempre più sofisticata consente di volta in volta una percentuale sempre più bassa di riduzione delle emissioni. Se rispetto a dieci, quindici anni fa il miglioramento può apparire sensibile, col passare del tempo è destinato a ridursi fino a diventare insignificante. Ai dirigenti Volkswagen va riconosciuto il merito, per quanto involontario, di aver acceso i riflettori sul grande inganno dell'ambientalismo del Capitale. “A che pro – avranno concluso - insistere con questa ipocrisia? Meglio barare sui test, tanto i reali vantaggi ambientali sono tendenzialmente nulli”. Sorgono allora immediate l'analogia con la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto e l'idea che molte contraddizioni particolari della società presente riproducano a scala ridotta le contraddizioni generali del sistema. A che pro applicare tecnologie che risparmiano ulteriormente sull'impiego di lavoro umano se l'incremento di plusvalore che ne deriva è tendenzialmente nullo? Forse è questa la ragione inconscia di tanto baccano attorno alle marmitte!

***

Un noto germanista, colpito dal silenzio del sindacato cogestionario IG Metal sulla questione dei test truccati, si è chiesto: “l'etica dell'ecologia, che nella società come nelle imprese tedesche ha un ruolo centrale, era forse una finzione? Loro stessi non ci credevano davvero?” (Il Sole-24Ore, 1/10/2015). Sembra di capire che lo studioso ci credesse veramente, ma più probabilmente ha preferito abboccare all'inganno piuttosto di guardare oltre il paravento ideologico costruito per nascondere un sistema di sfruttamento assai ben organizzato.

La finzione non è da meno quando si tratta di politiche pubbliche. Anche qui l'ipocrisia domina sovrana: non ha senso stabilire limiti massimi di velocità sulle strade quando una buona parte delle vetture è in grado di sviluppare velocità doppie. Pretendere che nel capitalismo sia possibile l'armonizzazione di norme e produzione è un'utopia. Applicata all'intera società, essa comporterebbe il controllo delle forze produttive e un freno alla crescita incompatibile con le esigenze del Capitale. Se non ci sono riusciti socialdemocrazia e fascismo, con il loro inquadramento organizzativo e ideologico, i volonterosi riformatori di oggi, della specie “a cinque stelle” e simili, non hanno speranze, privi come sono di un sistema di riferimento che vada oltre il moralismo e il “buon senso” piccolo-borghese.

La verità è che, come gli interessi operai confliggono con quelli dell'azienda, così le politiche cosiddette ecologiche fanno a pugni con le esigenze del Capitale. I governi dei capitalismi avanzati fanno a gara nell'esibire sensibilità ambientale, anche se il più delle volte la legislazione in materia ha il solo scopo di finanziare o agevolare alcuni settori produttivi rispetto al altri (e anche in questo campo le truffe fioriscono). Ma ciò comporta dei costi. Il caso della Danimarca è emblematico: il suo governo ha affermato di non potersi più permettere le misure a sostegno delle auto ecologiche (elettriche o ibride) e di dover rinunciare ad ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2. Largo dunque ai più inquinanti, ma più economici, motori tradizionali! Se il Capitale non si può permettere provvedimenti a tutela dell'ambiente nemmeno nelle sue espressioni nazionali più evolute, figuriamoci nei paesi più profondamente colpiti dalla crisi, o in quelli “emergenti”, il cui tumultuoso sviluppo fa perno sull'indifferenza all'impatto umano e ambientale. Di fronte alla concorrenza di Stati Uniti e Cina, dove le emissioni sono meno regolate, L'industria chimica europea, gravata di costi aggiuntivi per certificare il livello delle emissioni inquinanti (ETS), richiede oggi ai regolatori comunitari di “armonizzare” le norme con le necessità della competizione internazionale: in altre parole, di renderle meno vincolanti (cfr. Il Sole-24Ore, 10/10/2015). L'alternativa alla moderazione delle norme ambientali è il loro aggiramento, come nel caso Volkswagen, o la loro completa elusione, com’è accaduto col sistematico riversamento di veleni nella cosiddetta “terra dei fuochi”. Il traffico criminale ha consentito di rimpinguare i profitti delle fabbriche del Nord e di arricchire una masnada di delinquenti senza che per anni alcun potere pubblico intervenisse.

Man mano che la crisi fa sentire i suoi effetti, man mano che i margini di profitto calano, il Capitale è portato ad abbandonare le attenzioni “ecologiche”, per quanto più di facciata che reali, ed è costretto a detrarre dai costi di produzione le spese non necessarie. Tra queste, ai primi posti c'è la salute del proletariato, in fabbrica e fuori, con la devastazione degli spazi di vita, con l'attacco all'intero sistema del welfare, dalla sanità alle pensioni: tutti faux frais, spese improduttive, per il Capitale. Da questo punto di vista, la marmitta truccata è davvero poco più di un dettaglio.

***

Questione non di poco conto è invece il notevole danno che questa faccenda sta arrecando alla più importante ditta tedesca, e di riflesso al “sistema Germania”. Il crollo del titolo in borsa del 50% da inizio anno e la contemporanea crescita delle azioni della concorrenza, specie americana (cfr. Il Sole-24Ore, 4/10/ 2015) sono indizi sufficienti per ritenere che dietro questa storia si celi ben altro che la preoccupazione per l'ambiente.

In Germania – così si esprime lo storico G. Berta sul Sole-24Ore del 30/9/2015 - la conclusa e pretesa perfezione fra economia e società, politica e industria è venuta radicalmente meno. E non stupisce che tutto questo sia capitato in un settore strategico come quello dell'auto […] Da questo punto di vista, il disastro della VW e il silenzio del sindacato tedesco ci racconta[no] una storia precisa, quella della debolezza congenita e del declino dell'Europa”.

Dunque, la vicenda delle marmitte, gettando un'ombra sull'immagine di un'Europa rispettosa come nessun altro dei diritti umani ed ambientali, sarebbe rivelatrice del destino della potenza tedesca e dell'intero continente, un passo ulteriore nello smascheramento della finzione europeista e dei suoi presunti “valori”, a partire proprio dalla nazione guida, dal suo centro dominante.

In Germania, in effetti, lo scandalo non coinvolge solo i vertici d'impresa, ma anche il Land della Bassa Sassonia, che ne è azionista al 35%, e il sindacato cogestionario IG Metal, che ha poteri di sorveglianza e di veto su questioni importanti. Il cosiddetto “modello tedesco”, basato sulla stretta integrazione Stato-impresa-sindacato, ha rivelato la sua fragilità una volta sottoposto a un attacco evidentemente ben mirato e congegnato.

E' stato l'Epa, ente governativo Usa per la tutela dell'ambiente, a rivelare l'esistenza di un software che attua il controllo dei NOx (ossidi di azoto prodotti dalla combustione del diesel) in condizioni di laboratorio, ma non su strada, dove le emissioni superano fino a 40 volte il massimo consentito. Di qui l'ordine di ritirare mezzo milione di auto circolanti in USA, mentre si preannunciano multe salatissime (una cifra valutata intorno ai 40 miliardi), alle quali si sommano le possibili class actions dei clienti, il crollo del titolo in borsa e il rischio di fallimento della filiale finanziaria dell'azienda. Che l'attacco venga dagli Stati Uniti rafforza la convinzione che dietro il pretesto del rispetto delle norme ambientali si celi un atto di guerra commerciale. L'iniziativa dell'Epa ha effetti superiori a quelli di un duro provvedimento protezionistico: colpire la Volkswagen nel pieno del suo tentativo di superare la Toyota come primo produttore mondiale, quando i suoi profitti sopravanzano da anni quelli della concorrenza (negli ultimi quattro anni, la Volkswagen ha accumulato utili per più di 11 miliardi di euro, equivalenti a un profitto annuo di oltre il 5%), significa colpire al cuore il motore principale dell'export tedesco, fonte vitale della apparentemente solida economia del Paese, e il settore auto che, direttamente o indirettamente, dà lavoro a un tedesco su sette. Le ripercussioni si allargano a tutta la “catena di valore” che si estende nel bacino produttivo che fa capo alla Germania, in modo particolare a molte piccole e medie imprese del Nord Italia.

La vicenda rientra dunque nella tendenza all'inasprimento della guerra commerciale mondiale, in presenza di una crisi produttiva che coinvolge ormai tutti i principali attori internazionali, vecchie e nuove leve. In questo quadro, tutte le armi sono buone per danneggiare l'avversario, norme antiinquinamento comprese.

La questione delle norme condivise si estende al tentativo del Capitale internazionale di uscire dalla crisi grazie a importanti accordi commerciali di area, nei quali la definizione di standard ambientali ha lo scopo di ridurre i vantaggi competitivi dei paesi emergenti, aumentandone i costi di produzione. Attraverso un quadro di regole particolarmente favorevoli alla propria posizione dominante, gli Stati Uniti perseguono l'obiettivo di riaffermare la propria centralità nell'economia planetaria e di rilanciare la propria ripresa produttiva. Suona a duro monito dell'Europa, e della Germania in primo luogo, la stipula ai primi di ottobre del Tpp (“trattato transpacifico”) – in contemporanea con lo scandalo Volkswagen – che rafforza l'interscambio tra area asiatica e Stati Uniti. Uno degli ultimi punti su cui si è negoziato sono le regole sulla produzione di auto e componentistica: “l'accordo era necessario – si legge sul Sole-24Ore del 6/10 – per creare la 'catena globale di fornitura del Pacifico' che definirà il futuro dell'industria automobilistica”. Gli Stati Uniti mettono così in campo un potente fattore di pressione nei confronti della Cina – esclusa dall'accordo - e dell'Europa, affinché accettino norme che vanno nel senso della liberalizzazione dell'interscambio e della definizione di standard produttivi. Contemporaneamente, hanno subito un arresto le trattative sul fronte del Ttip – l'analogo accordo, di area atlantica - per le resistenze europee alla ratifica di un sistema di regole disegnato su misura per gli interessi dei gruppi multinazionali che, con il sistema dell'arbitrato, potrebbero legittimamente chiamare in giudizio gli Stati qualora si sentissero danneggiati dalle loro iniziative.

A questo punto il rischio per Germania e Europa è quello della marginalizzazione rispetto al definirsi di una nuova centralità dell'area Pacifica. Al capitalismo euro-tedesco rimane da risolvere il dilemma se cedere alle pretese dell'esoso alleato per rimanere legato al suo carro o avviarsi verso una politica più autonoma, con tutte le implicazioni del caso.

Per il momento, i potenti produttori di auto concorrenti sui mercati mondiali brindano alle difficoltà dell'industria tedesca e gongolano le forze politiche europee che vedono nella Germania un partner sempre più dispotico con i vicini: ma soprattutto gli Stati Uniti segnano un punto a loro favore nei confronti di un alleato sempre meno affidabile e sicuro, come testimoniano le serie divergenze maturate in occasione della crisi greca e le reticenze di Berlino ad allentare i legami con la Russia.

Non ci stupiremmo se dietro il gran fracasso dello scandalo Volkswagen si celasse una “geopolitica della marmitta”, tesa a mettere la Germania di fronte a una scelta di campo senza riserve: rimanere una potenza economica soggetta alla tutela americana, come è stata finora, e rinunciare a riprendere un ruolo di potenza imperialistica a tutto campo, come alcuni segnali sembravano suggerire. L'imbarazzo e la timidezza della reazione tedesca farebbero propendere per la conservazione dello status quo, ma in questi tempi di crisi e di convulsa transizione le svolte più sorprendenti sono dietro l'angolo. La svolta vera sarebbe il ritorno in scena del proletariato, di cui oggi si vedono pochi e flebili segni. Gli operai americani della FCA sono riusciti a respingere una proposta contrattuale dell'azienda con la semplice minaccia di sciopero e hanno ottenuto per ora la fine delle discriminazioni salariali fra vecchi e nuovi assunti. E' un bel risultato che rafforza l'unità della classe di fronte all'azienda e dimostra che oggi più che mai il capitale teme lo sciopero e la sua capacità di far male ai già risicati margini di profitto. Dovranno prenderne atto gli operai Volkswagen che saranno i primi a pagare le difficoltà aziendali in termini di occupazione e salari, e con essi tutti i lavoratori dell'indotto e delle aziende fornitrici del gruppo.

Ma è l'economia tedesca nel suo insieme a dare segni di rallentamento, con un pesante calo dell'export registrato ad agosto (-5,2% rispetto a luglio), una riduzione delle stime di crescita nel 2015 (dal 2,1 all'1,8%), il perdurare della crisi bancaria con al centro le difficoltà del colosso Deutsche Bank, carico di titoli tossici. La vicenda Volkswagen annuncia che sta volgendo al termine il ciclo di espansione export-dipendente che ha determinato l'eccezione tedesca nel contesto del ristagno produttivo europeo negli anni successivi alla crisi del 2008-2009. D'altra parte, la crescita “fiacca” dei vecchi capitalismi, il rallentamento degli emergenti, la dipendenza dei mercati finanziari dalla droga delle banche centrali, l'inasprirsi della competizione sul mercato mondiale annunciano l'approssimarsi di una nuova crisi generale che nessuna normativa o accordo internazionale potrà arginare e che non si potrà certo addebitare a una cattiva gestione del fatto economico: così come il disastro ambientale non può essere attribuito alle furbizie dei dirigenti di Wolsburg.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.