DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Proletari! Compagni!

Oggi come in passato il proletariato mondiale avrebbe non solo tutto il diritto, ma il dovere di abbattere le bandiere nazionali che vengono fatte sventolare ai nostri cortei, alle nostre giornate internazionali di lotta, da dirigenti politici e sindacali che hanno tradito ovunque le lotte dei lavoratori e che impediscono la riorganizzazione di classe. Una volta di più la borghesia, mentre mette a ferro e a fuoco interi continenti, internazionalmente delega alle proprie sezioni nazionali il compito di incatenare il proletariato a questo o a quell’interesse nazionale, sotto la bandiera della “patria”. E mentre le cancellerie imperialiste si scannano per spartirsi le spoglie dei cadaveri di guerra, l’unica pace, garantita non da accordi tra gli Stati ma dal lugubre potere che purtroppo sindacati e partiti “di sinistra” riescono ancora ad esercitare sulle masse, è quella sociale. Forse mai come oggi, è davanti agli occhi di tutto il mondo lo sfacelo politico ed economico del regime borghese. Le crisi economiche si susseguono una die-tro l’altra, nella produzione (in Italia la Fiat, la Pirelli, la Cirio e tante altre azien-de del settore tecnologico), nella finanza e nelle Borse mondiali. Stati che ancora dieci anni fa si trovavano nelle liste dei paesi ricchi sono soffocati tra le spi-re di una drammatica recessione, i cui contraccolpi non possono tardare a farsi sentire sulle potenze occidentali. Mentre ovunque la disoccupazione, la sottoccupazione, il lavoro “nero”, i salari da fame, il costo della vita ormai insostenibile accrescono la miseria di milio-ni di sfruttati, le cittadelle storiche del capitalismo, in America e in Europa, so-pravvivono a se stesse. Governi di ogni colore, di “destra”, di “sinistra”, di “cen-tro”, ormai da decenni sono costretti dalle leggi del modo di produzione capita-listico ad adottare ovunque le medesime misure contro i salariati e, al di là dei fiumi di retorica sulla “pace”, sulla “libertà”, sulla “democrazia”, sui “diritti dell’uomo”, a scatenare guerre, a riempire le galere di immigrati, a violare in ogni momento le regole che essi stessi si sono dati il giorno prima. Dopo mezzo secolo di “equilibrio” imperialista, nuovi sistemi di alleanze si af-facciano più o meno timidamente. Queste non sono affatto la conseguenza di at-teggiamenti “guerrafondai” da una parte, “pacifisti” dall’altra, come vorrebbe farci credere la propaganda borghese. Nell’imperialismo non c’è Stato “pacifi-sta”, non c’è borghesia “democratica”. C’è la lotta del capitale finanziario, che permea tutti i pori della società, per vincere la concorrenza, per conquistare nuo-vi mercati. Ma, nonostante le apparenze, la vecchia talpa ha continuato a sca-vare nelle contraddizioni del regime borghese. Quello che, a qualche sprovve-duto, sembrava essere fino ad ieri un “impero” monolitico e invincibile come quello romano, sta barcollando sotto la pressione delle forze economiche sot-terranee. Esse ne mandano in frantumi, un pezzo per volta, il sistema di accordi politici ed economici nato dalla seconda guerra mondiale. Ma il crollo di quel-lo, duemila anni fa, significò l’alba di un nuovo modo di produzione; la rovina di questo prelude solo alla terza guerra mondiale, se la rivoluzione comunista non verrà ad anticiparne vittoriosamente i tempi. Oggi, mentre gli avvoltoi imperialisti, più o meno rappacificati dopo i recenti di-verbi, correranno in Asia per la festa della “ricostruzione” e il banchetto degli appalti (almeno di quei pochi che non sono ancora stati assegnati), abbiamo la dimostrazione che la seconda guerra del Golfo è solo l’ultimo anello di una ca-tena di massacri che non può essere spezzata finché il capitalismo sopravvive. Per noi comunisti internazionalisti è chiaro che solo l’abbattimento di questo maledetto regime sociale potrà espellere la guerra dalla storia. Ciò vuol dire ab-bandonare ogni disarmante illusione pacifista e riformista e tornare agli obietti-vi e ai metodi di lotta classisti che sono sempre appartenuti alla tradizione pro-letaria.

Questi i nostri compiti

Ripresa della lotta di classe. Ricominciare a difendere con vigore le proprie con-dizioni di vita e di lavoro, opponendo ai padroni, al loro stato, al capitale nazio-nale e internazionale, un fronte di lotta che non conosca divisioni interne per età, località, nazionalità, sesso, categoria, lingua o altro, e ricorrendo ad azioni di lotta le più estese e centralizzate possibili.

Organizzazione permanente dei proletari. Lavorare alla rinascita di organismi in grado di centralizzare, collegare e dirigere le lotte di difesa economica, in aper-ta opposizione alla pratica sabotatrice dei sindacati tricolori e nella piena comprensione del tradimento consumato, a pieno vantaggio dell’economia borghese, dalle centrali sindacali e dai partiti e partitini opportunisti.

Rifiuto di qualunque concessione allo Stato e all’economia nazionale. Ribadi-re che lo Stato non è un organismo al di sopra delle classi, “il rappresentante di tut-ti i cittadini”, ma è l’organo centralizzato e armato che in ogni paese difende il po-tere del capitale contro la minaccia della stragrande maggioranza di sfruttati, e che l’economia nazionale non è un bene che appartiene a tutti e che a tutti deve dun-que stare a cuore, ma è l’insieme degli interessi capitalistici – quelli che nelle fab-briche e nelle strade, al mercato e nelle case, ci opprimono e ci sfruttano e in no-me dei quali si è invitati a parteggiare per questo o quel governo in guerra.

Sciopero generale senza limiti di tempo e spazio. Riconoscere la necessità di op-porre forza a forza – non dunque con imbelli fiaccolate e raduni inconcludenti, ma riappropriandosi dello sciopero generale come arma di lotta sia economica che po-litica e colpendo con essa l’organizzazione capitalistica nel suo punto più delica-to: alla fonte stessa del profitto, las produzione; affasciando cioè i lavoratori di tut-te le categorie e località e tornando così a sentire e far sentire la propria forza col-lettiva, invece della frustrazione derivante dall’isolamento, dalla frammentazione, dalla passività.

Disfattismo rivoluzionario. Rifiutare di piegarsi all’ordine sovrano del capitale, proclamando apertamente che la guerra imperialistica non ci avrà né come stru-menti di massacro (non importa se con vecchie tecnologie tradizionali o nuove tec-nologie fantascientifiche) né come vittime designate nelle prossime guerre, rom-pendo apertamente con lo Stato borghese non più solo sul piano economico del rapporto di lavoro, ma anche su quello politico e militare. Non un uomo, non un soldo per le guerre imperialistiche: lotta aperta contro la propria borghesia na­zionale, italiana o statunitense, tedesca o francese, serba o irachena.

Fraternizzazione tra i militari degli eserciti in guerra. Affermare che il prole-tariato è internazionale e internazionalista nella sua natura e nei suoi fini. Rivolta-re le armi contro lo Stato imperialista, mostrare la necessità dell’unione interna-zionale del proletariato, al di sopra degli schieramenti e dei fronti imperialisti, con-tro il comune nemico: il capitale.

Lo sappiamo. È una strada lunga e difficile, ma non vi sono alternative. Oggi co-me ieri e come domani, i comunisti internazionalisti sono al loro posto: a fianco del proletariato di tutti i paesi e contro le guerre del capitale, nella dura opera quo-tidiana della difesa e della diffusione della teoria marxista e del partito rivoluzio-nario – le due armi che ci permetteranno infine di guidare l’assalto al cielo e di passare dalla preistoria alla storia dell’umanità.

 

 Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2003)

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