DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

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Al termine di questo studio sullo “stalinismo”, del quale abbiamo seguìto gli incerti esordi, nati da esitazioni tattiche e teoriche già nel seno dell’Internazionale, di cui abbiamo visto la stabilizzazione conseguente al ripiegamento della rivoluzione europea e il processo di isolamento di una Russia ormai decisamente avviata sulla china dell’accumulazione forsennata di capitali con l’autoproclamazione di “paese socialista” a dispetto dell’affermarsi di tutte le leggi dell’economia capitalistica, e di cui, infine, abbiamo mostrato la natura esplicitamente controrivoluzionaria sia nei riguardi del movimento operaio occidentale del secondo dopoguerra, sia in quelli delle rivolte anticoloniali, resta da fare un bilancio di esso, in rapporto anche con il cosiddetto “antistalinismo” stalinista originato dopo il XX Congresso del PCUS (1956) nel seno di gruppi ed organizzazioni di natura democratica. La battaglia a fondo che il partito ha condotto contro questi gruppi e contro l’ideologia che li esprime ha chiarito che questi ultimi gruppi e ideologie, se possibile, sono peggiori dello stalinismo storico, di cui hanno ereditato i sistemi, mescolandoli ed integrandoli in quelli della democrazia borghese. Si è dimostrato, nel corso di questa decennale polemica, che una ripresa autentica della lotta di classe si potrà realizzare solo quando l’infezione dell’antistalinismo democratico che ha impregnato il proletariato internazionale verrà definitivamente sradicata. Il lettore potrà proficuamente integrare la presente puntata con numerosi testi di partito, tra cui menzioniamo “Organizzazione, conseguenza della continuità tattico-programmatica del partito storico nella sua materiale configurazione”, Il programma comunista nn. 18 e 19, 1972; “Plaidoyer pour Staline”, Il programma comunista n. 14, 1956; “Appello per la riorganizzazione internazionale del movimento (1949)”, in Lezioni delle controrivoluzioni, Ed. Il programma comunista, 1951 e 1981; “En marge de notre Appel: stalinisme, antistalinisme et paix sociale, Programme communiste n. 3, 1958.

 

 

29. Come si lotta e come non si lotta contro lo stalinismo.

 

 

Già negli anni Cinquanta gruppi di dissidenti antistalinisti erano sorti in Europa e in America, protestando contro la “tirannia” del regime, gli orrori delle persecuzioni, dei processi, delle fucilazioni contro la vecchia guardia bolscevica e le dettagliate descrizioni delle repressioni che cominciavano lentamente a valicare la “cortina di ferro”. Il denominatore comune a tutti questi movimenti di “opposizione” era, e ancora è, costituito dalla brutalità dei metodi di polizia impiegati dalla polizia russa, o da questo o quell’apparato statale contemporaneo di area “comunista” o democratica ignorando, o fingendo di ignorare, che qualsiasi apparato statale, in quanto espressione di una società divisa in classi contrapposte, è al servizio della classe dominante, ed esercita la forza in difesa degli interessi di quella classe.

Lo stalinismo si convertì frettolosamente all’antistalinismo, sviluppandosi su linee non identiche, ma tutte convergenti sul piano focale della democrazia, cioè della rinuncia a combattere per il rovesciamento violento dell’ordine borghese. Queste linee si erano affermate con la politica – peraltro interamente “stalinista” – dei fronti popolari, della partecipazione dei partiti “operai” a coalizioni di governo, in alcuni casi con la gestione diretta da parte del partito “comunista” dell’ordine e della stabilità dell’economia capitalistica (è il caso della Cina maoista o della Cuba di Castro). In generale, persa ogni prospettiva di classe, si è fatto ricorso alle antiche menzogne dell’opportunismo ottocentesco, come quella della volontà popolare che si esprime attraverso “libere elezioni”, del lavoro salariato e del capitale intesi come servizio sociale, dello stato come garante delle libertà costituzionali, dell’antifascismo e dell’antistalinismo visti come la più alta espressione della lotta contro la tirannia; e su tutto, regna indiscusso il principio dell’inviolabilità di confini nazionali sacri, che nessuna organizzazione militante comunista dovrà mai più varcare in nome dell’internazionalismo proletario, e che anzi, come e più che nel 1914 e nel 1939 tutti i proletariati saranno obbligati a rispettare in difesa di una democrazia sempre minacciata (ieri dal fascismo o dalle democrazie occidentali, oggi da misteriosi “stati canaglia” o da teocrazie medievali, domani da altre nuove, e sempre identiche al passato, oscure “minacce” all’ordine borghese). In tutto ciò, “mai la classe operaia fu [e sarà, purtroppo, ancora nei successivi troppo lunghi decenni, ndr] alleata di se stessa; l’inerzia, la lotta illegale le furono [e le saranno] imposte come mezzo per i fini dei suoi nemici. Tutto sempre finì [e finirà] nella delusione e nella ribadita servitù” (1).

Riprendendo una nostra nota tesi sul fascismo (il cui prodotto peggiore è stato l’antifascismo), si è osservato che, nell’ottica di una ripresa rivoluzionaria, il prodotto peggiore dello stalinismo è l’antistalinismo. Nella sua accezione più consueta, piccolo-borghese ed antimarxista, quest’ultimo non considera affatto lo stalinismo come il corso del processo controrivoluzionario russo ed internazionale che si abbatté sulle masse proletarie di tutto il pianeta non più di dieci anni dalla vittoriosa rivoluzione russa, esprimendosi attraverso la galera e il massacro di una intera generazione di rivoluzionari ed imponendo la perversa ideologia del “socialismo in un paese solo” a tutto il movimento internazionale. Esso rileva, nello stalinismo, solo l’aspetto dittatoriale, antidemocratico (cioè proprio in quello in cui un autentico marxista non troverebbe, in principio, nulla di riprovevole), e consentendosi di versare una lacrimuccia sulla “rivoluzione che divora i propri figli”, sulla protervia bolscevica di imporre ad una rivoluzione popolare una dittatura di partito, sulle “leggi storiche” per le quali ad ogni rivoluzione segue un Termidoro, ecc. ecc. La quasi totalità dei comunisti scampati alle persecuzioni degli anni Trenta cercò una spiegazione a quanto accadeva in Russia nella violazione dei diritti dell’uomo, della libera consultazione, del libero pensiero. I libertari si sentirono in pieno diritto di gridare il proprio sdegno contro lo Stato-padrone; i piccolo-borghesi si unirono al coro sulle ingiustizie e i soprusi da parte del “tiranno”. Tutti invocarono il ritorno a metodi democratici, alla pace sociale, all’eguaglianza tra le classi. Tutti gridarono che il terrore staliniano era necessariamente la conseguenza della teoria, dell’organizzazione, della pratica rivoluzionaria del partito bolscevico. Dunque, eliminate quella teoria, organizzazione e pratica, non si sarebbe più corso il rischio, urbi et orbi, di cadere negli orrori della Russia stalinista: la rottura completa con il programma rivoluzionario comunista non avrebbe potuto essere consumata in modo più rapido e drammatico.

In questo senso, l’antistalinismo è nato assai prima dello stalinismo. Esso è una lontana eredità dell’associazionismo operaio ottocentesco, che produsse l’ideologia della gestione economica della società “dal basso”, della presa del potere politico attraverso la “presa della fabbrica”, del mito dei consigli di fabbrica come organi di controllo operaio, dell’inutilità – o della pericolosità antioperaia – della forma-partito. Siccome il proletariato sviluppa in sé la propria forza critica, la propria attitudine rivoluzionaria, le proprie forme spontanee di organizzazione, dunque il partito non solo non è necessario, ma anzi è un pericolo dal quale ci si deve tenere lontani: esso è sempre facilmente corruttibile, esso può cadere preda delle mire di un tiranno; solo la larga base proletaria può scongiurare questi rischi perché, come sosterranno fin dal 1920 i sinistri “infantili” tedeschi e olandesi in feroce polemica con l’Internazionale, nella fabbrica l’operaio è al riparo dalle influenze ideologiche esterne.

Che tutto ciò, come pure la bizzarra idea che il partito scenda come deus ex machina dalle sfere celesti della lotta di classe giunta al suo grado supremo di maturazione (non si sa attraverso quali meccanismi psicologici) all’atto conclusivo dell’assalto al potere, abbia ben poco a che fare col marxismo – checché ne dicano i microscopisti alla vana ricerca delle demarcazioni tra partiti storici e partiti formali – è dimostrato non solo dalle catastrofi che hanno accompagnato tutti i movimenti rivoluzionari privi di una vera, autorevole ed organizzata guida politica del XX secolo, ma dalla storia stessa del movimento operaio fin dalla sua nascita in possesso di una teoria scientifica ed autonoma, cioè dal 1843-44. Si rileggano le succinte pagine di Engels “Per la storia della Lega dei comunisti” (2). Dotati di “una giustificazione scientifica della nostra concezione”, per Marx ed Engels divenne “altrettanto importante […] conquistare alle nostre idee [nostra sottolineatura] il proletariato europeo”, e quindi iniziò una fase di intenso lavoro esterno, per il controllo di organi di stampa (Deutsche Brüsseler Zeitung) e di organizzazioni operaie ed artigiane precedenti (Lega dei Giusti, Lega dei Comunisti) in anticipo sul grande movimento rivoluzionario che, di lì a poco tempo (1848) doveva scuotere tutta l’Europa. Ma anche subito dopo la sconfitta, dopo i massacri proletari e i processi contro i militanti, “la vittoria della reazione era ben lungi dall’essere definitiva. S’imponeva una nuova organizzazione [nostra sottolineatura] delle forze rivoluzionarie disperse, e quindi anche dalla Lega”, ciò che porterà alla redazione (1850) di quel capolavoro di tattica e strategia rivoluzionaria che è l’ “Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti”. Che cos’è tutto ciò, se non la dimostrazione che, nel pensiero dei fondatori della moderna scienza rivoluzionaria, senza un’organizzazione politica centralizzata è preclusa ogni possibilità di influire sul proletariato, di svolgere un’attività di propaganda in direzione rivoluzionaria e, infine, di guidarlo nella lotta per la conquista del potere quando lo sviluppo della crisi sociale lo permetterà? La ragione per la quale Marx ed Engels si allontanarono infine dalle vecchie associazioni, preferendo l’isolamento nonostante tutto, non era affatto per disprezzo verso l’organizzazione politica del proletariato in quanto la situazione fosse oggettivamente sfavorevole, ma per il fatto – come spiega chiaramente Engels – che la vecchia Lega pensava di agire, in un contesto controrivoluzionario di inaudita violenza e di forte ripresa economica dopo gli anni di crisi, come se all’ordine del giorno si ponesse la presa del potere, e “si univano a Londra a mucchi per formarvi dei governi provvisori dell’avvenire, non solo per i loro rispettivi paesi, ma anche per tutta l’Europa; e in cui non si trattava più che di raccogliere in America il denaro necessario sotto la forma di prestito rivoluzionario, per realizzare in un attimo la rivoluzione europea” (cit., pp. 28-29). Rifiutando l’attivismo di una larga parte di quello che allora si presentava come un partito di classe, Marx ed Engels spiegarono in molte occasioni (3) che era vano dar rilievo, secondo la tendenza praticata allora da tutte lo organizzazioni rivoluzionarie europee, “come fatto fondamentale nella rivoluzione, invece che ai rapporti reali, alla volontà. Mentre noi diciamo agli operai: dovete ancora superare 15, 20, 50 anni di guerre civili, per cambiare i rapporti, per rendere voi stessi capaci di assumere il potere, da parte loro si è detto: dobbiamo andare al potere immediatamente, o possiamo metterci a dormire” (“Seduta del Comitato centrale”, cit., p- 627).

Marx ed Engels risolsero dunque di abbandonare ogni organizzazione per un certo tempo, certo non “per mettersi a dormire”, o per il timore che essa scivolasse verso la “dittatura di capi”, o corresse il rischio di sostituirsi al proletariato nell’imporre una dittatura di classe, ma al contrario, per ritessere con pazienza le fila di una nuova, più matura organizzazione, cui si porranno a capo di lì a quindici anni (Prima Internazionale).

Noi rifiutiamo perciò come attitudine antimarxista e controrivoluzionaria l’antipartitismo di molte tendenze antistaliniste, ben sapendo che l’unica condizione che in qualche misura può salvare un partito rivoluzionario dalla degenerazione è il chiarimento preliminare e condiviso sul suo programma, sulle sue norme tattiche e sull’accordo generale sulle norme di organizzazione. E in particolare rifiutiamo quell’antipartitismo che contrappone all’organizzazione rivoluzionaria la libidine di potere dell’uomo, del potente, dell’astuzia di questo o quello Stalin (4). Ad esso noi opponiamo “la fisica dei fatti economici, la lotta corpo a corpo degli interessi materiali di classe, al vertice del cui ribollire la nostra scuola ha posto le chiavi del presente, del passato e del futuro, nel quadro unitario di cui abbiamo conquistata la totale visione” (5). Il marxismo sarebbe spacciato, se davvero all’urto delle forze sociali si sostituisse come causa motrice della storia la prepotenza di un Bruto, il tradimento di un Giuda, il narcisismo di un Mussolini o le vellicazioni sessuali vere, presunte o immaginarie del Berlusconi di turno!

 

 

30. Lo stalinismo poststalinista.

 

 

L’equazione Lenin = Stalin, invocata da tutta la borghesia e piccola borghesia planetaria allo scopo di allontanare per sempre le masse proletarie dal comunismo, si è radicata dopo le “rivelazioni” (note ai rivoluzionari autentici da decenni) del XX Congresso del PCUS. Coloro che vedono negli “arcipelaghi gulag” l’eredità storica e necessaria della polizia della Russia rivoluzionaria “dimenticano” un piccolo dettaglio. Che tra quelli e questa ci stanno migliaia e migliaia di rivoluzionari morti ammazzati dalla controrivoluzione; che i primi e i secondi erano entrambi, certo, manifestazione di violenza di classe, ma mentre la C(eka – la polizia rivoluzionaria creata nel dicembre 1917 con l’incarico di combattere la controrivoluzione e il sabotaggio – rivolse le sue prime energie contro “il sabotaggio dell’amministrazione da parte della borghesia, le distruzioni e le violenze commesse da folle ubriache […] e il banditismo” (6), dunque per la difesa della rivoluzione, l’apparato di terrore costruito dalla Russia stalinizzata, dunque compiutamente borghese, rivolse i propri fucili e le proprie piccozze contro quelli che, quella rivoluzione, l’avevano strenuamente organizzata e diretta. Frasi tante volte ripetute, come il banale luogo comune “la rivoluzione divora i suoi figli” ecc., hanno il solo scopo di mascherare la verità di classe, quella per cui la violenza, che i comunisti certo non rifiutano, viene esercitata dalla borghesia con inaudita ferocia per la difesa dei propri interessi nazionali ed internazionali. Una tale frase andrebbe perciò trasformata in ben altro modo: “la controrivoluzione divora i suoi nemici, che hanno cercato di rovesciare l’ordine precedente”.

Coloro che denunciano le brutalità staliniste del gulag in nome della non violenza si pongono, da un punto di vista teorico, come i difensori di una concezione trascendente della storia; da un punto di vista pratico, contro ogni possibilità di rovesciare la dittatura mondiale della borghesia. “Le strida contro la rivendicazione della dittatura, oggi [1946] dissimulata ipocritamente dagli stessi rappresentanti del regime di ferro moscovita, e le grida di allarme contro la pretesa impossibilità di frenare la corsa alla libidine di potere, e quindi di privilegio materiale, da parte del personale burocratico cristallizzato in nuova classe o casta dominante, ben si conciliano con la posizione inferiore e metafisica di chi tratta della società e dello Stato come enti astratti, e non sa trovare le chiavi dei problemi nell’indagine sui fatti della produzione e nei rivolgimenti di ogni rapporto che scaturiscono dagli urti delle classi” (7). Perciò noi rifiutiamo l’etichetta di “antistalinisti”; il nostro antistalinismo è una rivendicazione della violenza di classe, della rivoluzione e della dittatura proletaria; non è il pietistico lamento pacifista e anti-violento delle schiere moderne di ingenui oppositori.

La rivendicazione della violenza non basta, dunque, a distinguere il comunismo dal suo opposto. In certe fasi della sua storia, anche la borghesia ha rivendicato l’uso della violenza di classe – lo stato russo stalinizzato essendone una variante – proibendone però l’esercizio alle classi sottomesse. Ciò che lo stalinismo ha imposto nel secondo dopoguerra sulla scena internazionale è la sostituzione della lotta di classe – che nasce dalla contrapposizione tra capitale e lavoro salariato, dunque all’interno del processo lavorativo capitalistico – con la lotta tra stati considerati “sfruttati” e quelli “sfruttatori”, ritenendo possibile la distruzione della forma massima di capitalismo, quella imperialistica, attraverso operazioni militari condotte in nome di questo o quel paese, assurto nell’occasione (falsamente) come nuovo “stato guida” della rivoluzione internazionale. I teorici di questa “dottrina della guerriglia” sono oggi osannati come massimi esponenti dell’antimperialismo. Essi hanno sostituito alla lotta di classe la lotta fra stati; vogliono eliminare l’imperialismo tenendo in piedi il capitalismo degli stati imperialisti; rinunciano alla distruzione dei rapporti di classe su cui si fonda lo sfruttamento nelle (ex) colonie e negli stati dominanti. Ciò nonostante, ricorrono effettivamente ad azioni violente, talvolta di grande efficacia contro un nemico che appare, da un punto di vista della tecnologia bellica, enormemente più dotato.

Può sembrare strano, agli sprovveduti, che la “teoria della guerriglia” germogli dallo stalinismo e dal post-stalinismo, per lunghi anni fautore del policentrismo democratico, della coesistenza pacifica, della “via nazionale al socialismo”, dell’interclassismo. In realtà, quella teoria non fu altro che la giustificazione di principio dell’imperialismo russo e della sua penetrazione violenta nelle economie in sviluppo di Asia, Africa e America latina, oppure rappresentò il programma di rivoluzione nazionale contadina di intere aree geostoriche nelle quali l’inesorabile processo di sviluppo economico doveva far saltare in aria gli antichi vincoli sociali.

Non avremmo nulla da obiettare, se le rivoluzioni popolari che hanno attraversato il mondo nel secondo dopoguerra si fossero presentate come tali, non negando il proprio carattere di rivolte nazionali democratiche e borghesi, e quindi autenticamente progressive, in grado dunque di risolvere le contraddizioni che impedivano l’emergere dei conflitti di classe in senso interamente moderno. Ma tutte quelle rivoluzioni, dalla Cina alla Bolivia, dall’Indonesia a Cuba, hanno pienamente utilizzato lo schema staliniano della rivoluzione socialista in un paese solo, al solo scopo di impedire all’unica classe realmente rivoluzionaria, il proletariato, di porsi alla guida di quei movimenti. Ostacolando la chiarificazione politica e il contenuto di classe di quei movimenti, esse hanno preteso di rovesciare le chiare indicazioni tattiche fissate dalla III Internazionale in merito al movimento anticoloniale ed antimperialistico; invece di alzare forte l’invito al proprio proletariato di fraternizzare con quello internazionale, lo hanno rinchiuso nel proprio ghetto di sfruttamento capitalistico, in nome di un falso “socialismo” fatto di merci, denaro e ritmi bestiali di lavoro nelle fabbriche, nelle miniere e nelle piantagioni.

 

 

31. Primo, provvisorio bilancio

 

 

Ciò che contraddistingue l’ultimo secolo è, senza tema di smentite, l’inaudito sviluppo di violenze che hanno saturato l’intero pianeta. Le pur sanguinosissime guerre di sistemazione nazionale nell’Europa del XIX secolo e le guerre napoleoniche appaiono ben poca cosa in confronto ai massacri delle due guerre mondiali. Le prime, in un’epoca di capitalismo in sviluppo, volte a distruggere eserciti; le seconde, nella fase imperialistica, mirate a distruggere enormi masse di forze produttive e di uomini. Dopo la seconda di queste non c’è angolo della Terra che sia stato risparmiato da stragi e conflitti di varia intensità. La borghesia ne attribuisce in genere la causa a fenomeni locali, quando non personali e psicologici (guerre di carattere tribale, o religioso, o dovute a “pazzia” di qualche esaltato). Noi riteniamo che il movente principale vada invece cercato nelle tensioni che, in quelle aree martoriate, si creano tra le principali potenze imperialistiche per mettere le mani su fette più o meno importanti di risorse organiche e minerali, e di rendita, o per il controllo strategico di regioni che possano garantire in futuro l’accesso a quelle medesime risorse. Resta il fatto che il quadro che il mondo offre dopo cinque secoli di sviluppo capitalistico nelle aree più “progredite”, e pochi decenni di devastazione imperialistica in quelle “arretrate”, è ben diverso dalla visione di eterno sviluppo e progresso che ne tracciarono i filosofi e gli economisti borghesi all’epoca delle rivoluzioni antifeudali. I congressi dei padroni del mondo, che si tengono ormai a tamburo battente, hanno all’ordine del giorno solo più la discussione di come ritardare il crollo dell’economia mondiale, di fingere di elargire qualche elemosina a questo o quel paese disastrato (naturalmente mascherando il vero intento, che è quello della rapina), e di decidere misure contro prossime, prevedibili rivolte sociali. Protagonisti attivi della violenza mondiale, essi devono alterare il senso di quella violenza, trasformandola in lotta per la pace, per il benessere, per la felicità di tutti. Soprattutto, devono ottenere dalle masse assoggettate una cambiale in bianco, che garantisca loro piena libertà di azione e nuovi, lunghi margini di tempo per la realizzazione del loro mitico mondo di armonia sociale. Come è possibile che il proletariato, l’unica classe in grado di porre la parola fine a tutto ciò, resti così a lungo assente? Come è possibile che esso sembri aver delegato ogni forma di lotta su scala internazionale ad altre classi, sembri aver abdicato ai propri programmi di rivoluzione sociale?

Accanto ad altre, più antiche forme di controllo sociale, lo stalinismo è stato un elemento di prim’ordine nel processo di distruzione delle organizzazioni rivoluzionarie, ed ha saputo evitare alla borghesia internazionale quella resa dei conti finale che gli artefici della Terza Internazionale avevano scritto nella prima pagina del proprio programma.

Dovremmo rimproverare allo stalinismo di aver ecceduto nell’eclettismo politico o di aver cinicamente abusato dell’autorità che gli ha dato il potere dello Stato? Oppure di avere esagerato nell’uso della violenza o di disfattismo di fronte alle grandi forze del capitalismo internazionale? Contro l’antistalinismo odierno, noi sosteniamo che non è l’uso di metodi di polizia, né il sadismo controrivoluzionario o l’uso di metodi ignobili che hanno reso lo stalinismo lo strumento della conservazione capitalistica, “ma è invece il pacifismo sociale che esso ha imposto in tutte le organizzazioni operaie. E queste usciranno da questa sconfitta non per la strada della democrazia, dell’etica, della morale, dell’eclettismo ideologico, ma per quella della necessità della violenza e della dittatura” (En marge de notre Appel, cit. pag. 3).

Lo stalinismo ha il merito storico di aver sfruttato ai fini della rivoluzione borghese la formidabile energia sociale liberata dalla rivoluzione proletaria del 1917. Suo compito teorico fu quello di mistificare il programma della rivoluzione comunista internazionale con quello della rivoluzione borghese nazionale. La vittoria di questo lugubre programma ha paralizzato il proletariato internazionale per ben oltre mezzo secolo. Se la rivoluzione russa versò più sangue di quelle europee, è proprio perché lo stalinismo ebbe a distruggere non solo le resistenze anticapitalistiche nelle campagne, ma anche tutto ciò che restava delle correnti rivoluzionarie che avevano diretto il 1917. Esso si prese dunque in carico il compito internazionale cui, nei due anni dopo la rivoluzione, le flotte e gli eserciti europei non erano riusciti ad assolvere contro l’Armata rossa (8).

Vi è una tragica ironia storica nel destino della Russia. L’impero degli zar, che Marx ed Engels consideravano come il bastione della controrivoluzione europea, con lo stalinismo si è trasformato in una repubblica “comunista” che ha esercitato sul movimento rivoluzionario mondiale una influenza pari, se non peggiore.

Esso ha costituito dunque il primo esempio storico, che probabilmente resterà l’unico, di una rivoluzione capitalista che deve combattere allo stesso tempo l’inerzia storica di forme di produzione arcaiche e preborghesi e il proletariato comunista che lotta per mantenere il potere. Lo stalinismo fu dunque una rivoluzione, se lo si considera dal punto di vista dei residui feudali; e una controrivoluzione se lo si considera dal punto di vista comunista.

Le condizioni storiche che hanno permesso la nascita dello stalinismo “storico” sono state dunque: 1) all’interno una situazione sociale arretrata, nella quale altre classi rispetto al proletariato industriale urbano si trovavano in una schiacciante maggioranza e la questione agraria, cui lo zarismo non era stato in grado di dare una sistemazione in una prospettiva pienamente capitalistica, era destinata a far sentire il proprio peso sull’intera società; in questo contesto la perdita, da parte della classe operaia, del controllo sulle mezze classi si trasformò in subordinazione sul piano economico, all’economia di mercato, e di sconfitta sul piano sociale, nei rapporti politici e giuridici; 2) all’esterno, una fase di sconfitta generale sul piano internazionale delle lotte rivoluzionarie, senza che a questa si sapesse opporre un ordinato ripiegamento dei partiti comunisti su posizioni di assoluta intransigenza programmatica, mettendo in salvo per la futura ripresa le esperienze di quelle lotte. Su queste basi, e sulla teoria del socialismo in un paese solo, si fonderanno tutte le successive lotte nei paesi arretrati o nelle colonie, condannate perciò o ai massacri proletari (Cina 1926) o a limitarsi a rivoluzioni nazionali di stampo contadino: lotte importanti, certo, nel quadro dei contrasti imperialistici, ma combattute contro i principi della solidarietà internazionale del proletariato e, perciò, contro il comunismo. La penetrazione dell’ideologia rivoluzionaria contadina-piccolo borghese dei paesi arretrati, con il suo necessario corredo di alleanze interclassiste, nei paesi ad alto sviluppo industriale e quindi, in un certo senso, pienamente organizzati per la rottura rivoluzionaria e l’abbattimento della borghesia: questo è il prodotto finale dello stalinismo. Solo la crisi irreversibile dell’imperialismo metterà la parola fine a questo deragliamento del dramma storico, benché il suo sviluppo abbia causato inaudite sofferenze al proletariato mondiale.

 

 

 

32. Conclusione

 

 

E’ evidente che, come sempre, con questa serie di articoli non abbiamo avuto intenzione di fare pura storiografia. La lotta (teorica, politica, organizzativa) contro ciò che si usa chiamare “stalinismo” (9) è una lotta perenne, perché – in tutti i suoi aspetti – esso ha voluto dire abbandono del programma e della prospettiva comunista, e in quanto tale è destinato (in forme magari solo esteriormente diverse) a ripresentarsi come nemico del proletariato. Al di là di quanto ha rappresentato storicamente (la distruzione del movimento comunista), esso ha infatti voluto dire un totale ribaltamento del concetto stesso di partito, del rapporto fra partito e classe, della dimensione internazionalista, del rapporto con la democrazia borghese, delle prospettive delle lotte parziali e anche e soprattutto della lotta finale, cioè del comunismo. Nato come controrivoluzione all’interno della Russia comunista e rapidamente estesosi sul piano internazionale, lo stalinismo, esaurito il suo compito di lotta armata contro i partiti rivoluzionari, ha adeguato la propria funzione alle vicende storiche del secondo dopoguerra. La ripresa economica degli anni Cinquanta, cui fece seguito nei decenni successivi, in Russia, un inesorabile lento declino dei ritmi di accumulazione e un progressivo intrecciarsi di crisi dell’apparato industriale e finanziario, ha necessariamente modificato teoria e prassi dell’ideologia stalinista. Restando come suo principio e suo fine l’anti-internazionalismo (e perciò la negazione dell’intero programma rivoluzionario marxista), essa si è rapidamente allineata a tutti i movimenti che fanno del primitivismo (cioè, del rifiuto dell’organizzazione di classe), dell’operaismo (cioè, dell’isolamento del proletariato all’interno dei propri luoghi di lavoro e di pena quotidiana), della democrazia partecipata (cioè, della dottrina borghese, nata con le rivoluzioni antifeudali, secondo cui non più le classi ma gli individui singoli sono dotati di una “forza” in grado di dirigere la storia) la propria dottrina controrivoluzionaria. A dispetto di chi ritiene di aver sepolto per sempre lotta di classe, rivoluzione sociale e comunismo, la storia del XX secolo ha significato, per l’umanità, una straordinaria e feconda lezione nel processo di chiarificazione dei destini della società borghese, destinata a soccombere per morte violenta. Ma di questa lezione si potranno cogliere pienamente i frutti solo quando piazza pulita sarà fatta del furto storico che lo stalinismo ha operato per decenni nelle file del proletariato: quello del nome e delle bandiere del comunismo rivoluzionario.

 

 

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 Le puntate precedenti sono state pubblicate sui nn. ... di questo giornale

 

 

Note


 

(1) “Movimento sociale e lotta politica”, Battaglia comunista n. 43, 1949. [back]

(2) in K. Marx, F. Engels, Il partito e l’Internazionale, Ed. Rinascita 1948. [back]

(3) v. ad es. “Seduta del Comitato centrale della Lega dei comunisti del 15 settembre 1850”, in Marx K., Engels F. Opere complete, Ed. Riuniti, vol. X, p. 626 segg.; “Rassegna maggio-ottobre [1850]”, Neue Rheinische Zeitung. Politische-ökonomische Revue, V-VI fascicolo, in id., p. 501 segg. [back]

(4) “Questi fatti [la lotta per il potere tra Stalin, Zinoviev, Bucharin, Trotzky, ndr] apersero la via a Stalin, il più astuto, il più forte e quello che aveva meno scrupoli tra tutti i presunti eredi, e gli permisero di arrivare, con una tattica che si direbbe ripetere quella del combattimento tra Orazi e Curiazi, al potere totale”. A. Tasca, Autopsia dello Stalinismo, Ed. Comunità, 1958, p. 14. [back]

(5) Dialogato coi morti. Edizione Il Programma comunista, settembre 1956, p. 117. [back]

(6) E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923. Ed. Einaudi 1964, p. 158. [back]

(7) “Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe”. Prometeo, n. 8, 1947. [back]

(8) Basti pensare all’entusiasmo con cui la borghesia internazionale accolse le parole del Consigliere della Corona, l’avvocato inglese D. N. Pritt – premio Stalin nel 1951 e convocato a Mosca per i processi contro i bolscevichi nel 1936: “Io considero il modo in cui gli accusati sono stati trattati come un esempio da seguire per il mondo intero” (in A. Tasca, cit., p. 22). [back]

(9) Ricordiamo quanto abbiamo scritto in apertura di questa serie: noi non demonizziamo l’individuo, che sappiamo essere espressione di forze storiche, sociali ed economiche – nel caso specifico, delle forze economiche e sociali borghesi entro le cui categorie (e catene) la rivoluzione russa è rimasta rinchiusa, in assenza dell’espandersi della rivoluzione comunista in Occidente, e che – originariamente dominate e indirizzate dal partito rivoluzionario in un’ottica sempre internazionale – hanno poi preso il sopravvento sul partito stesso, facendone lo strumento dell’accumulazione capitalista in Russia. Negli anni ’30, per indicare quest’indirizzo, si usava il termine “centrismo”, che oggi non avrebbe alcun senso; non si andrebbe troppo fuori dal seminato, usando anche il termine “menscevismo”, perché proprio del menscevismo lo stalinismo riprende molte pratiche – ma anche questo sarebbe termine insufficiente. Comunque lo si voglia chiamare, esso ha rappresentato un aspetto della generale controrivoluzione borghese, scagliatasi contro il movimento operaio e comunista a partire dalla metà degli anni ’20. [back]

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2009)

 

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