DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 Nell’opuscolo su “L'Estremismo, malattia infantile del comunismo”, Lenin riferisce di avere veduto un paio di numeri del perio­dico “Il Soviet”. Era questo il settimanale della Frazione Comunista Astensioni­sta che nell'anno 1919 si era formata nel seno del Partito Socialista Italiano. In quei numeri veniva esposta nettamente l'opinio­ne della necessità di procedere alla elimi­nazione dal partito socialista della parte ri­formista, il cui programma non corrispon­deva più a quello che la maggioranza aveva adottato. 

 

 

Lenin ammette di avere scarse informazioni su questo movimento, tanto è vero che egli ritiene che in essa vi siano anar­chici, sindacalisti, elementi cioè che non ammettono la lotta politica né il partito. Se avesse avuto più esatte informazioni e se avesse avuto la opportunità di scorrere più numeri del “Soviet” avrebbe senza dubbio rilevato che la polemica contro le correnti anarchiche e sindacaliste in difesa della dittatura del proletariato, della lotta insurrezionale per la conquista del potere, della funzione del partito in questa lotta e in seno alle masse, costituivano il nerbo del pensiero della frazione. 

 

 

La questione dell'astensionismo, che rientrava nella tattica, aveva una importanza minore. Essa era sostenuta non perché la si ritenesse una tattica da usarsi sempre e in tutti i tempi ma perché quella questione era  un  mezzo  per  differenziarsi  dalla massa parolaia che formava la maggioran­za del partito socialista. Questa dichiara­va, a parole sì intende, di accettare al com­pleto tutto il programma comunista della frazione purché non si rinunziasse alla lotta elettorale. La frazione comunista dava una cosi relativa importanza all'astensioni­smo elettorale che, al congresso socialista di Bologna del 1919, tentò un accordo con la maggioranza massimalista dichiarandosi pronta a rinunziare all'astensionismo pur­ché quella si impegnasse ad accogliere la proposta di allontanare dal partito la de­stra riformista. La proposta non fu accol­ta; tanta sincerità vi era nella affermazione di quella sulla identità programmatica!  In quel tempo la grande maggioranza del partito socialista italiano, pur non mutando ufficialmente il programma con cui a Geno­va nel 1892 il partito si era costituito, aveva votato per una tattica di azione diretta da doversi adottare da parte del proletariato, aveva ammessa l'uso della violenza, aveva aderito all'Internazionale Comunista di Mo­sca. Di fatto era rimasta essenzialmente elet­toralistica e parlamentare così come prima. La parte rimasta fedele al vecchio program­ma di riforme, ossia al cosiddetto programma minimo, divenne la destra del partito. Quest'ultima finì per votare, ma solo vota­re, l'indirizzo nuovo cosiddetto massimo (donde i suoi sostenitori si chiamavano mas­simalisti) ma di fatto continuò a permanere fedele ai vecchi metodi e a sostener­li e propagandarli malgrado il voto. Di qui l'accusa di incoerenza che veniva rivolta ad essa dalla maggioranza capeggiata dal Ser­rati.

 

 

 

Se ci fosse stata sincerità e volontà da ambo le parti di tenere fede ai deliberati, la rottura, il distacco avrebbe dovuto avve­nire al momento del pronunciato mutamen­to di rotta e con il mutamento anche for­male del testo del programma del partito. Ma si era alla vigilia delle elezioni ge­nerali e in nome della “unità” del partito le due parti rimasero insieme per fare le elezioni e non compromettere colla rottura il successo elettorale.

 

 

 

Le masse operaie erano in quell'epoca notevolmente radicalizzate e piene di slan­cio rivoluzionario. Chiedevano una guida illuminata che mancò. Non vi era il partito rivoluzionario. La piccolissima minoran­za comunista era troppo esigua e non a­veva che limitati contatti colla massa ope­raia controllata in pieno dai riformisti. I massimalisti facevano della demagogia. Mentre di fatto si occupavano solo di ele­zioni, cercavano di tenere a freno la par­te estrema dichiarando ovunque e comun­que che con essa non vi erano divergen­ze programmatiche tranne la secondarissi­ma questione dell'anti-elettoralismo, che es­si consideravano essere da parte di quella una esagerata impuntatura. A elezioni fat­te si sarebbe visto di che essi erano capaci.

 

 

 

Dopo la costituzione del Partito Comu­nista, verificatasi quasi due anni dopo al congresso di Livorno, questi “unitari” ad oltranza si disgiunsero, dimostrando dì fat­to che l'“unità” è una facile parola mo­stratasi spesso  particolarmente  adatta a mascherare insincerità e a preparare tra­dimenti.

 

 

 

La piccola minoranza comunista aveva agito in seno al partito, prima di decidersi a staccarsi, col proposito di riuscire a far eliminare la destra e nella speranza di po­ter avere, eliminato questo contrappeso, più possibilità di manovra ed essere in mi­gliori condizioni per spingere la massa re­sidua del partito sempre più a sinistra ver­so un vero indirizzo comunista.

 

 

 

È poiché l'elettoralismo era la vera pia­ga, il punto focale, la pietra di paragone, la sinistra comunista comprese che l'unico mezzo per porre in chiaro la vera natura del massimalismo agli stessi massimalisti era invitarli a fare rientrare al suo vero po­sto l'importanza delle conquiste elettorali, rinunciando a questa arma. Essi avrebbero constatato che i rapporti tra proletariato e classe dominante non avrebbero subito al­cun nocumento dal modificato o diminui­to numero di deputati socialisti in parla­mento.

 

 

 

La frazione comunista era ben certa che il suo punto di vista sarebbe stato accolto dai veri comunisti anche se non perfetta­mente  convinti  della  tesi  astensionista mentre i falsi  sarebbero  stati  dall'altra parte. E così avvenne.

 

 

 

Il punto di partenza, dì base dell'asten­sionismo era il seguente: nei paesi a regi­me democratico, ove i partiti socialisti o­rientavano le masse alla fiducia che le lot­te elettorali fossero un mezzo per giungere alla conquista del potere da parte del pro­letariato, bisognava ad ogni costo disto­gliere questo da tale illusione perniciosa. A tal fine non vi era altro mezzo che spin­gerla al boicottaggio elettorale, indirizzan­dolo alla convinzione e alla pratica che so­lo coi mezzi rivoluzionari detta conquista è realizzabile. Bisognava togliere alle masse operaie la convinzione, ben radicata per l'azione e la propaganda socialista,  che quando fossero riuscite a mandare in par­lamento tanti deputati socialisti da rag­giungere la cifra della metà più uno dei seggi, esse avrebbero conseguito la con­quista del potere e la “questione sociale” (era la frase in uso) sarebbe stata risolta. 

 

 

 

Se si fosse trattato di partecipare ai par­lamenti  “reazionari” russi, presenti allo spirito di Lenin, e in cui i deputati erano spesso candidati alla deportazione in Si­beria, l'astensionismo quasi certamente non sarebbe sorto. Ma in Italia i deputati so­cialisti dovevano fare le caste Susanne per rifiutare le poltrone di ministro che veni­vano loro continuamente offerte. 

 

 

Altra cosa era l'essere, in un parlamento reazionario, una piccola minoranza che si serve della tribuna parlamentare per fare opera di propaganda, altra l'essere in un parlamento democratica e avere un nu­mero considerevole di deputati che costi­tuiscono una forza nell'organismo di cui fanno parte. Essi non possono più limi­tarsi a fare opera di negazione o di pura e semplice opposizione. Anche questa azio­ne, apparentemente solo negativa, agisce nel meccanismo dei rapporti tra minoranza e maggioranza per cui non è possibile, e sarebbe persino dannosa limitarsi a tanto. Più il numero, dei deputati cresce e più si è presi nell'ingranaggio. Più si consegue qualche illusorio risultato e più si radica nelle masse la convinzione che si possa ot­tenere il tutto. E così si abbandonano gli unici seri mezzi di lotta che possano fare conseguire risultati definitivi in senso rivo­luzionario. 

 

 

 

Fare del parlamentarismo diverso è nien­te più che una frase. I dissensi che si verificavano nel seno dei partiti non dovevano apparire nel parla­mento in cui il pensiero espresso doveva essere quello della maggioranza del partiti e il voto doveva essere unanime. Per tale ingranaggio Carlo Liebknecht si trovò costretto a votare i primi crediti di guerra e, per non ricadere poi in simili accidenti, si staccò dal partito e agì per suo conto e contro di esso.

 

 

 

Gli astensionisti si ponevano un altro quesito: non vi era da escludere la possibi­lità che la borghesia modificasse la costituzione o la legge elettorale in modo da rendere impossibile l'entrata in Parlamen­to dei deputati socialisti. Che cosa sareb­be avvenuto dei partiti organizzati in que­sta unica o prevalentissima attività? Essi sarebbero certamente rimasti disorganiz­zati e sbandati, non senza un pregiudizie­vole effetto sulle masse.

 

 

 

E questo precisamente si avverò. Se vi fosse stata una salda attrezzatura polariz­zata verso gli altri mezzi di lotta, non c'è dubbio che ben altrimenti efficaci sarebbero state le resistenze alla reazione.

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