DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Il Comitato Centrale del partito comunista, posto dinanzi alle svolte e alle scosse piuttosto notevoli della situazione italiana ed europea, ha fatto ricorso — sfuggendo ancora a maggiori precisazioni sulla tattica del partito, che dentro e fuori tutti non sanno se definire ministeriale o di opposizione, legalitaria o insurrezionista — ad un severo richiamo al rigore ideologico, alla purezza dottrinale.

 

I grossi calibri teorici del partito hanno alzato la sferza sul gaietto sciame degli « intellettuali » che vi sono accorsi dopo la caduta del fascismo, e ne hanno censurato senza riguardo le contorsioni. Che diamine! Lo scan­dalo era enorme, e si giungeva fino al punto che regolari tesserati del partito comunista professassero la filosofia, la morale, l'estetica esistenzialista. Una parola di questo genere, di tante lettere e di così frequente risonanza attuale, basta a far tremare la terra e l'Olimpo, a far fremere le moltitudini, a pol­verizzare i poveri scomunicati.

 

Ora, malgrado la quasi equivalenza tra il disprezzo che sentiamo per queste muffe della decomposizione del pensiero borghese, questi cavalieri di ventura del pennivendolismo sbandati dalle servili inquadrature fasciste alle chiesuole della sottocultura antifascista di oggi, e quello che abbiamo sem­pre nutrito per i disertori e i falsificatori della teoria marxista, occorre giustificare i primi dinanzi allo sdegno ipocrita dei secondi. Se l'esistenzia­lismo come efflorescenza di questi tempi tormentati significa qualche cosa, l'indirizzo degenerato e aberrante dal movimento politico proletario rappre­sentato dallo « stalinismo » pel mondo in Russia e in Italia si definisce in pieno come la deviazione esistenzialista dalla dottrina rivoluzionaria marxista. 

 

Che cosa è l'esistenzialismo, si domandano tutti sottovoce da qualche tempo a questa parte? Sono quelle tali cose che tutti — beata democrazia degli spiriti — dicono di sapere e non riescono a formulare. Ieri era la mistica dei fati nazionali e razziali, oggi sono questi altri accidenti, che si accampano tra la solenne posizione accademica e le pratiche orgiastiche di ghenghe degenerate.

 

Scegliamo una definizione abbastanza buona da uno dei tanti articoli di rivista, dato che la notte la passiamo a dormire sodo non sui testi dei sommi della nuova scuola, dopo la giornata di lavoro.

 

« La filosofia esistenziale consiste, come indica il suo nome, nel prendere per tema non soltanto la conoscenza o la coscienza intese come una attività che pone degli oggetti immanenti e trasparenti in piena autonomia, ma l'esi­stenza, cioè una attività data di per sé stessa in una situazione naturale e storica, e altrettanto incapace di astrarsene quanto di ridursi ad essa. La conoscenza si trova ricollocata nella totalità della prassi umana e quasi raddrizzata (traduciamo così lestée, lett. zavorrata) da essa. Il « soggetto » non è più soltanto il soggetto epistemologico, ma il soggetto umano che, per mezzo di una continua dialettica, pensa secondo la sua situazione, forma le sue categorie al contatto della sua esperienza, e modifica questa situazione e questa esperienza per effetto del senso che loro attribuisce ».

 

Può sembrare complicato ma è abbastanza semplice e soprattutto stra­vecchio. Si tratta di spezzare lancie per le solite posizioni che fanno comodo ai ventri pieni e ai petti satolli delle insegne del comando e del potere. Da una parte si vuole ancora una volta affermare la impossibilità di trattare in conclusioni generali e sicure la realtà che ci attornia, da quella cosmica a quella sociale, di stabilire rapporti di causalità e di determinazione suscetti­bili di lanciare sguardi e programmi a cavallo dell'avvenire. Dall'altra si tende ancora e sempre ad illudere l'individuo umano sulla sua possibilità di sottrarsi alle determinazioni dell'ambiente, a riportarlo sul piano della ini­ziativa e della libertà, in un tempo in cui come non mai è stato fisicamente tritolato e stritolato, atomizzato e maciullato vivo nelle foibe, idealmente imbottito e imbonito di una gamma mai vista di bugie e di inganni, sbatac­chiato e succube all'intontimento delle colonne stampate e sonore, ebbro di illusionismi ottici e acustici, maneggiato e afferrato senza riguardo da ogni lato è per le parti che apparrebbero meno prensili.

 

L'articolo cui abbiamo presa la citazione tende alla tesi che Marx era esistenzialista. Ma chi non ha fatto uso di Marx e non ne ha data una sua versione? Anche qui nulla di nuovo. Si sfrutta la esatta posizione che anche il marxismo stabilisce una critica generale di tutti i sistemi filosofici che pretendano cucinare la realtà in formule assolute, e, asserendo di aver colto le essenze prime nello sforzo conoscitivo, le facciano consistere in deità tra­scendenti la nostra sfera umana, in proprietà direttrici immanenti al nostro pensiero, o anche in una accezione astratta della materia fisica contenente il segreto dello sviluppo di tutte le forme, o in attesa di essere fecondata dal dio o dall'idea. Si gioca sulla tesi del determinismo marxista che spiega anche gli stadii della conoscenza umana con le influenze dell'ambiente materiale e sociale, per arrivare alla impossibilità della conoscenza e della scienza. Il pensiero dell'epoca rivoluzionaria borghese aveva assunto, spezzando l'auto­rità dei dogmi su cui posava il potere delle classi nemiche e retrive, la possibilità di una conoscenza della natura e delle sue relazioni, fondando la scienza moderna; il pensiero del proletariato rivoluzionario tratta con la stessa iconoclastia di vecchie menzogne il dominio dei fatti umani e sociali e ne costruisce una conoscenza ed una scienza, ossia ne dichiara investigabili e seguibili i rapporti e i processi generali.

 

Questo dà fastidio all'ordine costituito ed ai suoi servitori e sorge la moda del movimento antiscientifico. Non è certo in questa nota, mossa da un fatto di cronaca, il luogo per porre in chiaro il problema della cono­scenza e della scienza nel metodo marxista, e per vagliare il cosiddetto indi­rizzo anticausalistico e indeterminista della scienza fisica moderna, con le conseguenti considerazioni metodologiche sulla portata della scienza sociale. Una simile trattazione esige, oltre all'aggiornamento dell'espositore coi dati delle moderne ricerche, anche una familiarità del lettore con l'arduo appa­rato matematico di cui abbisognano. Ma in seguito all'Antidühring di En­gels e al Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, la scuola marxista dovrà allestire questo studio.

 

La tesi cui esso arriverà dopo aver vagliate le obiezioni indeterministe e soggettiviste di tutte le sponde, è la possibilità della conoscenza obiettiva, ossia della trattazione generale delle relazioni proprie della natura e della storia umana. Come strumento di tale conoscenza si pone non più il dio rivelante o l'io entrospiciente, ma il lavoro comune e sociale della scienza teoretica ed applicata come fatto collettivo e ad un certo punto anche fatto di classe e di partito. La tesi originale della gnoseologia marxista è che la conoscenza umana è un sistema di relazioni tra due campi dei fatti della natura non diverso per misteriosi princìpi da tutti gli altri sistemi di rela­zioni reali. Il pensiero umano può registrare le impronte dei processi esterni secondo una trasmissione da comprendersi con quelle stesse risorse che valgo­no a stabilire, per dirla con un esempio, la corrispondenza tra la storia pas­sata del pianeta e le tracce che ce ne tramanda la stratificazione e disposi­zione geologica dei terreni.

 

Associare Marx all'eclettismo scettico dei vari contingentisti, o esistenzia­listi che oggi si chiamino, coll'argomento che egli ammise il gioco, nel processo storico, degli uomini, e non pretese che le merci il danaro o le macchine passeggiassero da soli sulla terra determinando l'atteggiarsi degli individui politici od economici, significa appunto non aver capito questo, che il nostro modo generale di vedere i fatti, e se si vuole la nostra filosofia, di noi marxisti, corrisponde a non attribuire nulla di escatologico e di stupe­facente all'intervento dell'essere umano tra le pietre le piante e gli animali, per cui il metodo di trattazione debba da un momento all'altro salire sui trampoli di una ebbrezza astrale e vibrare per l'incontro di « attività » ineffabili...

                                                

Invero non ce la volevamo prendere con l'esistenzialista che — il en a du culot! — pretende incasellare Marx, ma coi pudori filosofici della dirigenza del P.C.I. Esaminare le carte filosofiche di questo può fare incorrere nell'ira di Togliatti, il quale pretende che per parlare di filosofia bisogna averla studiata. Se con ciò egli un giorno intendeva dar peso alla impostazione teoretica nel partito, gli va data ragione, ma se voleva intendere che filosofia e politica di partito fossero due campi non comunicanti, allora aveva torto marcio.

 

Il bagaglio filosofico del socialismo italiano alla nascita del partito co­munista veniva dalle lotte con le due deviazioni volontaristiche del revisioni­smo, sindacalista da una parte, riformista dall'altra, che entrambe arieggiavano la sfiducia sulla sicurezza delle previsioni rivoluzionarie e volevano ridurre il movimento a posizioni pratiche e momentanee, sentendo come tutte le correnti opportunistiche del movimento proletario le influenze dei pensatori borghesi allora di moda, i James i Bergson e così via...

 

Il gruppo che oggi ha in mano il P.C.I. confluì in apparenza nella corrente del marxismo ortodosso, ma nacque da posizioni che anche econo­micamente e socialmente erano assai discutibili, col suo «concretismo» per cui ad ogni buon fine il tormentoso dubbio, se proprio la dittatura rivolu­zionaria e l'ordine comunista sarebbero arrivati, doveva essere controllabile ogni quindicina con un metodo analitico, leggendo per esempio la busta paga di un tornitore della Fiat.

 

Altre origini filosofiche di dubbio conio si ritrovano nella simpatia di molti dei dirigenti attuali del Partito con il crocianesimo ed altre filosofie idealistiche; perfino alcuni, avviati bene o male sulla via marxista, dichia­ravano di avere salito qualche scalino «accostandosi» a Croce.

 

Ma queste non sono che inezie. Da allora si è fatta molta altra strada. Sarebbe far torto a don Benedetto Croce l'imputargli le attuali tendenze esistenzialiste. Croce potrà essere l'esponente del pensiero borghese classico, dopo le sue escursioni a ritroso nel campo marxista; potrà essere considerato, oggi che il liberalismo è la più morta di tutte le dottrine in lizza, una caria­tide o un fossile, ma ciò non basta per attribuirgli odore di putrescenza in atto, per accomunarlo ai crepuscolari ai tremolanti ai decadenti agli snobs e ai cinedi della scuola di Sartre e compagni.

 

Comunque, le consegne di ortodossia filosofica e l'obbligo di far profes­sione di materialismo dialettico della più bell'acqua i nostri capi tradizionali e teoreti del partito di Togliatti non le possono derivare che da Mosca, che in questo come in tanti altri campi ha tagliato corto ed ha da tempo am­monito di non uscire dalle linee del dato figurino.

 

Ora è proprio la linea di Mosca che, scostandosi nella lotta politica e nei metodi tattici sempre più dalla via rivoluzionaria, ha segnato anche nella dottrina un ripiegamento spaventoso, checché sia scritto nei testi di lezioni delle università, e sebbene anche lassù si siano inscenate crisi di liqui­dazione di pensatori aberranti.

 

Rispetto alla via che i proletari di avanguardia del mondo erano sicuri di poter seguire negli anni della vittoria di ottobre, dopo la prima stabile conquista del potere da parte della classe operaia, dopo la travolgente cam­pagna di critica e di attacco a tutte le posizioni del passato, teocratiche, asso­lutistiche, borghesi, democratiche, socialdemocratiche, l'attitudine dello stato russo, del gruppo politico che lo ha nelle mani, dei gruppi che lo seguono all'estero, con le inverosimili inversioni e gli incredibili adattamenti e rinne­gamenti delle prime posizioni, non si cifra con sigla migliore che con quella dell'esistenzialismo.

 

L'esistenzialismo è il tentativo di dare all'opportunismo politico una decenza filosofica. Così come è lo slip minimum per la decenza dell'opportu­nismo personale.

 

Vladimiro Lenin, dopo avere frustato a sangue il tradimento dei social-militari, dei socialpatrioti del 1914, imprimendo loro la stimmata di infamia dell'opportunismo perché avevano rinnegata la visione generale storica della avanzata internazionale proletaria per difendere la esigenza esisten­ziale della contingente patria borghese minacciata, proclamò, mentre l'a­zione rivoluzionaria si innestava alla   teoria   e   alla   critica   in   Russia,   la inesorabile antitesi che riempiva di sé il mondo di quell'altro dopoguerra: o la organizzazione della economia mondiale da parte della rivoluzione proletaria avanzante, o il suo dominio sotto il potere capitalista. Prima che il formidabile antagonismo fosse risolto, le armi della guerra sociale non potevano e non dovevano essere deposte. A questo appello risposero i partiti comunisti da ogni angolo della terra stringendosi nella nuova Internazionale. Ma alla potenza storica di questa visione tesa oltre le angustie di spazii e di tempi seguirono purtroppo le insidie delle concessioni e dei compro­messi. Si ripiegò sull'esame insidioso delle situazioni che sono il terreno di impianto delle manovre dell'opportunismo, la consegna del verbo odierno « esistenzialista ». Si ricadde nella revisione delle prospettive antagonistiche del marxismo. Il capitalismo voleva ancora, riusciva ancora ad esistere. Ciò voleva dire che esso aveva ancora forze tali da vincere la battaglia, da piegare l'assalto rivoluzionario? Poteva essere, e fu infatti così. Ma fu, in questa situazione obiettiva contraria, ancora peggio nel seno della nostra classe, soggettivamente. Si trasse dalla situazione una rettifica della « co­scienza », della « conoscenza » del movimento, così come avrebbe teorizzato platealmente l'esistenzialista di venti anni dopo. Si volle che lo stato rivolu­zionario, proletario, coesistesse senza rinnegarsi con il controllo capitalista del mondo. Lo Stato è a sua volta un soggetto « concreto » con cui non vi è da scherzare, quando regge milioni e milioni di uomini e potenziali di forza immani. La sua tendenza ad esistere e persistere, tremenda e pesante, soffoca il fattore del movimento storico generale, il motore del salto rivo­luzionario da uno all'altro regime sociale, che è e può soltanto essere il partito mondiale di classe. Lo Stato seguitò ad esistere, la dottrina e l'indi­rizzo storico del movimento furono perduti, era lo stalinismo, era la dottrina del socialismo in un solo paese, capolavoro dell'esistenzialismo nel cuore del ventesimo secolo, cento anni dopo la perfezione dell'edifizio teoretico di Marx.

 

Un riflesso delle situazioni vissute in una accezione politica « realista », che non sapremmo meglio definire che come esistenziale, furono gli atteg­giamenti politici decisivi sul piano mondiale per cui si andò con Hitler nel quaranta, con le plutocrazie occidentali (oggi bollate a sangue) negli anni posteriori. Le situazioni dominavano e subivano al tempo stesso l'effetto del senso che noi, ossia lui, lo stato oramai pseudo proletario, dava ad esse. Esistenzialismo puro.

 

In tutti gli altri paesi e nelle diverse condizioni di essi la prassi dei partiti detti comunisti seguiva con lo stesso ritmo e stile. Il fascismo fu visto nella falsissima luce di un dualismo più profondo di quello tra bor­ghesia e proletariato e tutto fu subordinato e prostituito alla esigenza di eliminarlo stringendo connubio con tutti i più disparati elementi interni ed esteri delle correnti democratesche. E per essere brevi non seguitiamo a sciogliere con la stessa chiave di un basso metodo esistenziale le attitu­dini di questi ultimi anni e le loro spregevoli inversioni, dall'apologia del capitalismo di America alla sua denigrazione, dall'articolo sette alla putente rifrittura di anticlericalismo oggi in avvio.

 

E' tutto un prodotto della epoca di decomposizione che si attraversa. La storia ne ha registrate tante altre, coi  relativi precursori dell'esistenzialismo, che vanno dai sofisti greci agli scettici della bassa romanità agli aba­tini atei del settecento. In queste epoche agli assertori dei metodi e delle dottrine aventi forza di generalità storica non restava che la cicuta o il taglio delle vene o la forca, o ciò che per gli impeciati di tabe esistenziale è della cicuta assai più amaro, l'oscurità.

 

Perché gridare il crucifige a quei quattro coboldi che dopo la vittoria, non dell'antifascismo, ma degli oggi infamatissimi « fascisti » Montgomery e Eisenhower, si posero ansiosi quesiti non di coscienza e conoscenza storica di classe e di partito, ma di esistenziale contingenza, e come dopo difficili spareggi avevano tra il '22 e il '24 optato per Mussolini, credettero nel '44 buon gioco tesserarsi per Stalin?

 

Essi sono completamente a posto, nell'atmosfera e nello stile del tempo. La contraddizione e l'incoerenza, la colpa della profanazione dottrinale, re­stano tutte in quelli che, dopo essere stati i responsabili e i costruttori di questo andazzo indecoroso, trovano ancora comodo, in contingenti svolte della situazione e della manovra, bestemmiare la fedeltà ai principi co­munisti. 

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