DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nel numero scorso di questo giornale, nell’esaminare il contratto-bi-done recentemente firmato dalle organizzazioni sindacali dei lavo-ratori metalmeccanici in Italia, scrivevamo: “Il contratto capestro è già operativo, dunque: manca la Riforma del contratto di lavoro”. Le “parti sociali” si sono già rimboccate le maniche e non c’è dubbio che vedre-mo presto questa “riforma”, più probabilmente grazie a un governo “di sinistra”. Sarà un’ulteriore fregatura, e anzi qualcosa di più: sarà un ul-teriore, deciso passo avanti nell’aperto attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei proletari. Un passo avanti… Infatti, quest’attacco è in corso da tempo. Da un lato, lo è da sempre, perché il Capitale non può che attaccare il Proletariato, spremendone plus-lavoro e cercando di abbassare in tutti i modi i “costi di produzione”. Dall’altro, è un fatto che negli ultimi quindici anni, in Italia (ma il discorso non è poi diverso altrove), sotto la pressione della crisi e-conomica che sempre più attanaglia il modo di produzione capitalistico, quell’attacco s’è intensificato ed è stato condotto con rivelatrice conti-nuità, non importa quale fosse il “colore” del governo in questione. Proprio su questo aspetto vogliamo ora tornare. La continuità dell’attacco della classe dominante al salario, all’orario, alle condizioni generali di vita e di lavoro, è una delle costanti della dinamica storica. Che cosa c’è di nuovo in tutte le vicende dello scontro tra i due vettori opposti di forza storica: salario contro plusvalore? Che cosa c’è di nuovo, di originale, in tutte quelle figure contrattuali, sintetizzate oggi sot-to il nome di “flessibilità lavorativa” e “precarietà sociale”? Che cosa c’è di incomprensibile nel fatto che le organizzazioni sindacali, sempre più spin-te a convergere verso lo Stato borghese e divenute quasi del tutto parti in-tegranti di esso, istituiscano un sistema di relazioni stabili, approntando u-na serie di ammortizzatori sociali, per prevenire ogni ripresa della lotta e-conomica e quindi frenare ogni possibile radicalizzazione? La questione fondamentale per i comunisti è analizzare la realtà capitali-stica e intervenire nel processo inevitabile di separazione delle classi so-ciali in un dato periodo storico e nella lotta che ne dovrà scaturire. Marx di-ce espressamente di non aver scoperto le classi né la lotta delle classi, ma di aver “dimostrato che l’esistenza delle classi è semplicemente legata a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; che la lotta di clas-se conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio all’abolizione di tutte le classi e ad una società senza classi” (“Lettera a Weydemeyer”, 5 marzo 1852). Ai comunisti sta il compito di individuare e allargare con l’intervento nella realtà la faglia di rottura della prassi sociale. Per tal motivo, le nostre “ri-vendicazioni economiche” per il proletariato costituiscono indicazioni di lotta, basi di lancio essenziali alla rivoluzione di classe.Per icomunisti non esistono due tempi, quello della lotta economico-sindacale di difesa e quello politico della lotta di classe: si tratta di due aspetti di un solo movi-mento.Quando rivendichiamo salari più alti per le categorie peggio paga-te, non ci spinge un principio di equità, ma la necessità di far convergere la classe su posizioni uniche di lotta sia economiche che politico-organiz-zative, e la riduzione del ventaglio salariale va nella direzione opposta a quella aziendale del capitale, sia economicamente che politicamente. Quando rivendichiamo il salario integrale ai disoccupati, agli immigrati, ai giovani in cerca di occupazione, ai precari,qualunque sia la loro categoria di appartenenza, di nuovo non è uno spirito di giustizia, ma un’indicazio-ne di lotta che spinge verso l’antagonismo di classe. Quando parliamo di drastica riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, invochiamo e-spressamente la possibilità materiale e fisica che la riduzione di tale tempo possa risolversi in un recupero psico-fisico e dunque in un im-pegno di lotta contro lo sfruttamento, la produttività, i ritmi di lavoro snervanti. Quando infine parliamo di sciopero,non ci riferiamo al dirit-to in quanto tale, ma alla lotta, allo scontro di classe contro classe: parliamo infatti di sciopero a tempo indeterminato, ad oltranza e sen-za preavviso. Non si tratta dunque di rivendicazioni economiciste, riformiste o mas-simaliste (come potrebbe pensare qualche ingenuo che non ha capi-to nulla della dialettica storica), ma di parole d’ordine concrete, atte a condurre la classe a riconoscere se stessa in quanto tale, in feroce opposizione al modo di produzione capitalistico, e di conseguenza a prepararsi non solo alla difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro nel modo più efficace, senza illusioni di riforme o patteggiamenti, ma alla lotta totale contro il regime del capitale.

Le lotte in Italia dal dopoguerra a oggi

Limitiamo pure il nostro lavoro di scavo relativo all’attacco alle condi-zioni di vita e di lavoro del proletariato al periodo che va dalla fine del secondo conflitto mondiale a oggi. La prima cosa che balza agli occhi èproprio la decisiva continuità nell’attacco da parte dei governi di de-stra e di “sinistra”. I punti di scontro all’interno della fabbrica (almeno in Italia, e fino alla fine degli anni ‘70: ma la questione era anche abba-stanza generalizzata in tutt’Europa) vertevano per lo più sulla produt-tività, sui ritmi di lavoro, sull’ampiezza del ventaglio salariale, sui premi di produzione, sugli orari, mentre nel resto della società, a causa dell’inflazione a due cifre, oggetto dello scontro furono soprattutto i punti della scala mobile, con la determinazione del famoso paniere. Dalla fine della guerra fino al 1954, si assiste a un processo di unifica-zione del punto di contingenza, viene abolita la differenza per catego-ria e per sesso, la rilevazione trimestrale diventa unica, rimane in piedi la divisione territoriale (13 zone: le cosiddette “gabbie salariali”). Que-st’ultima viene abolita nel 1969, mentre nel 1975 il punto di contin-genza viene unificato in tutti i settori industriali e nel 1978 viene utiliz-zato lo stesso punto anche nel Pubblico Impiego. Dalla fine degli anni Sessanta fino alla fine degli anni Settanta, si ha un periodo abbastan-za turbolento per le lotte economiche e sindacali: in particolare, nel biennio 1968-69. Nel 1980, l’occupazione della Fiat, i trenta giorni di lotta e la sconfitta che ne segue, con la firma del contratto da parte dei sindacati contro la volontà degli operai, mettono termine a quel ciclo. Il vero punto di svolta era stata la crisi del 1974-75. Una serie di attac-chi si sussegue negli anni ‘80 senza che si abbiano segni di risposta di una qualche rilevanza da parte della classe. Nel 1983, per raffredda-re l’inflazione, il punto viene ridotto del 15% (e ovviamente i salari ven-gono ridotti della stessa percentuale). Nel 1984, è il governo Craxi a e-liminare 4 punti di scala mobile (è sempre la cosiddetta sinistra ad at-taccare il salario): la scala mobile finisce ormai per coprire solo il 60% dell’aumento del costo della vita. Nel 1986, il riporto della scala mobi-le diventa semestrale: si tenta mediante referendum di ripristinare la scala mobile, ma il referendum è bocciato. Nel 1991, governo e sin-dacati si accordano per il suo smantellamento. Nel 1992, la scala mo-bile non c’è più: rimane un’indicazione automatica concordata fra le parti sociali, una percentuale programmata in anticipo, e non più quel-la reale. Da allora, il passaggio dal 60% in giù avverrà automatica-mente, secondo il Patto sociale di concertazione concordato nel 1993. 1 Dalla fine degli anni Settanta, i salari cominciano a subire un crollo continuo e con essi anche la sindacalizzazione e soprattutto le lotte di difesa economica. Negli anni Novanta, sembra ripresentarsi qualche episodio di combattività, ma si tratta di movimenti di breve durata che non lasciano alcun segno di continuità. Gia prima, negli anni Ottanta, sulla scorta della politica reaganiana e thatcheriana (liberalizzazione dei settori pubblici, “privatizzazioni” generalizzate, apparente rinuncia aogni forma di interventismo statale, attacco ai vecchi ammortizzato-ri sociali), si cominciò a parlare di nuove figure contrattuali, più flessi-bili rispetto alle precedenti. Ben presto, queste si moltiplicano con l’aumento della disoccupazione e dell’immigrazione, determinate dal-le crisi di sovrapproduzione e dall’uso sempre più generalizzato dell’automazione nell’industria e nei servizi2. Con la flessibilità nella produzione e nei servizi, nasce il “nuovo preca-riato”. Ma quante di queste figure contrattuali sono veramente “nuo-ve”? Per restare nella realtà del secondo ‘900, i contratti stagionali in campagna e temporanei in edilizia, le forme di apprendistato e di for-mazione del lavoro giovanile, il caporalato in agricoltura, il lavoro a cot-timo diffuso nell’edilizia e nell’industria, il lavoro irregolare nell’artigia-nato e nei servizi, l’illegale (?) lavoro nero, il precariato nella scuola e nel pubblico impiego, regolarizzato con sanatorie periodiche: tutto ciò è una costante dell’organizzazione del lavoro capitalistico. Queste figu-re venivano create per stabilizzare la forte discontinuità del processo di produzione capitalistico, la perdita di competitività delle grandi im-prese, l’impaludarsi del mercato, la concorrenza crescente. Ed esse riappaiono nell’ultimo decennio, sempre più pesantemente, per lo svi-luppo delle metastasi prodotte dalla crisi economica e dall’imputridi-mento dei rapporti di produzione.

La riforma del salario e dei contratti (1993)

Questa riforma fornirà la traccia di un percorso lungo il quale, negli an-ni successivi, si dispiegherà l’attacco alla classe operaia. Tutti gli in-terventi e le leggi successive avranno come base questa traccia, che si tenderà a rendere operativa: legislature di destra e di “sinistra”, in-differentemente, la riconosceranno come fondamento. L’intero pac-chetto degli interventi è costituito da una serie di misure che qui elen-chiamo nelle linee essenziali. L’inflazione programmata: dopo aver eliminato la scala mobile, s’in-troduce un aumento in base non ai dati Istat, ma a un valore di como-do, molto al di sotto di quello reale – il che mette i salari in condizione di stare al di sotto dell’aumento del costo della vita. Il contratto nazionale: viene diviso in due momenti distinti, scadenza salariale e normativa ogni due anni ciascuno. Il momento salariale ha solo come indicazione il recupero dell’inflazione programmata: un ag-giustamento periodico automatico secondo i firmatari; la contratta-zione aziendale esclude quella nazionale, nel senso che non entra nel merito della prima: gli incrementi saranno legati alla produttività, qua-lità e competitività dell’azienda, sempre che su tali questioni l’azienda voglia aprire la trattativa (i temi sono quelli del lavoro notturno, dello straordinario, dei ritmi di lavoro, dei licenziamenti, della cassa integra-zione, dell’esposizione a rischi e nocività). Il ritardo contrattuale: se si prolunga oltre i tre mesi, l’incremento sarà del 30% in più dell’inflazione programmata; se di sei mesi, del 50% e non ci sarà recupero una tantum. Appare chiaro che il ritardo sarà un fatto normale, in quanto conviene all’azienda che il ritardo si paghi so-lo il 30% o il 50%. Il salario d’ingresso: la contrattazione sarà fatta a livello regionale, e pertanto vengono istituite le Agenzie Ufficiali per l’Impiego, che sosti-tuiranno gli Uffici di collocamento. Ci saranno tanti salari d’ingresso re-gione per regione e tanti salari fabbrica per fabbrica a parità di man-sione. Si divideranno così i giovani all’interno e all’esterno della fabbri-ca aumentandone la concorrenza. Vengono create per la prima volta le Agenzie d’affitto private per l’occupazione nelle fabbriche e nei ser-vizi, l’assunzione sarà temporanea e tenderà (allora si disse!) a soddi-sfare esigenze straordinarie o per sostituire assenti. L’Agenzia è un nuovo datore di lavoro promosso per legge, come il caporalato tra i braccianti. Si avrà così un doppio sfruttamento, sia in fabbrica che fuori: nuove forme di concorrenza tra i lavoratori, nessuna possibilità di lotta contro l’Agenzia che risulta il padrone in ultima istanza, nessu-na forma di assistenza malattia e pensionistica. I padroni così non a-vranno le mani legate da responsabilità sociali. Il diritto di sciopero: una parte dell’accordo prevede che nei tre mesi precedenti il rinnovo del contratto e nel mese successivo all’accordo viga una tregua sindacale che, se violata, verrà punita con sanzioni pecuniarie. Ciò significa che, nel periodo più importante, quello in cui i lavoratori tentano di far pressione per difendere le proprie condizioni di lavoro, con un accordo (autoregolamentazione) si spunta l’arma della lotta. Nel Pubblico Impiego, questo divieto era già stato intro-dotto anni prima, con una legge (la 146 del 1990) che dovrebbe “ga-rantire” i servizi pubblici essenziali; la stessa legge introduceva la pre-cettazione, che obbligava il lavoratore a essere sul posto di lavoro du-rante il conflitto, pena una sanzione pecuniaria da 100 a 400.000 lire e nei casi più gravi portava al licenziamento. L’esperimento viene ora esteso e ampliato a tutti i comparti del mondo del lavoro. La nascita delle RSU: per gli imprenditori significano il tramite con le organizzazioni stipulanti il contratto nazionale e le rappresentanze a-ziendali titolari delle deleghe assegnate dai contratti medesimi. Perché questo si attui, le RSU saranno formate per 1/3 dai delegati decisi dai sindacati firmatari dei contratti nazionali e per i rimanenti 2/3 dai dele-gati votati dai lavoratori sulle liste presentate in azienda. In questo mo-do, le Confederazioni avranno la maggioranza delle RSU, in quanto 1/3 viene loro assegnato per legge e sui rimanenti 2/3 esse potranno ancora raccogliere i voti dei lavoratori. Le organizzazioni autorganiz-zate verranno spinte a farsi avanti per cercare di assumere una posi-zione direttamente interessata alla compatibilità aziendale e a entrare nella divisione di quella parte della torta costituita dall’1/3 dei rappre-sentanti per diritto legale.

Dopo il 1993

Le legislazioni successive in materia di lavoro si adatteranno alle varie esigenze contingenti. La “Legge Treu” di alcuni anni dopo (‘96-’97) ha il carattere della completezza, intervenendo su tutti gli aspetti dell’or-ganizzazione del lavoro, dalla formazione-lavoro (apprendistato) alla struttura dei normali contratti (tempo pieno, part-time, determinato, in-determinato) e a quella dei contratti atipici ( parasubordinato, socio-cooperativo, autonomo). La “Legge Biagi”, nata successivamente (14/2/’03), anche se forma-lizzata dal centro-destra (“Libro bianco” o Legge 30), presentatasi co-me “legge delega” ( da riempire a volontà), si muove sulla precedente originaria intelaiatura. La continuità può essere colta ancor più chiaramente nelle valutazio-ni avanzate nel corso della legislatura di centro-sinistra (1996-2001). Si scriveva infatti in quel periodo che la disciplina dei contratti a tem-po indeterminato era troppo rigida; che in una riforma del contratto del lavoro occorreva discutere di tutto, anche dell’articolo 18; che era ne-cessaria una maggiore possibilità per le imprese di risolvere i contrat-ti tramite licenziamenti con indennizzo; che il nanismo delle imprese i-taliane era dovuto allo “Statuto dei lavoratori” che produceva un effet-to-soglia sciagurato; che si doveva passare dalla “tutela del posto di lavoro” alla “tutela del mercato del lavoro”; che il problema dei 15 di-pendenti poteva essere affrontato con misure analoghe a quelle del lavoro sommerso (un periodo senza vincoli per le imprese che hanno più di 15 addetti); che bisognava scordarsi del posto fisso… La “Legge Treu” fin dall’inizio della legislatura dunque regolarizzava l’intera questione dell’organizzazione del lavoro, ormai matura per di-venire attuativa. Il tentativo di cancellare l’articolo 18 dello “Statuto dei lavoratori” appare in sintonia e in continuità con le posizioni ormai ge-neralizzate di attacco alle condizioni di lavoro da parte dei due schie-ramenti: e se fallisce è perché ci si rende conto che non è quello il mi-glior punto di attacco – occorre piuttosto aggirare l’ostacolo, sfruttan-do al meglio lo stesso pacchetto, trasformatosi poi in “Libro Bianco”. Nel luglio 2004 si rendono operative le Agenzie di lavoro interinale co-me titolari privati di una serie di attività che prima competevano al ser-vizio pubblico (l’intermediazione tra lavoratori e datori di lavoro e l’au-

1. A questo proposito, si può notare che, in que-ste settimane, si discute da parte del “sindacali-smo di base” di ripristinare la scala mobile nella riforma dei contratti con una legge di iniziativa popolare: di reintrodurre il meccanismo automa-tico di rivalutazione delle retribuzioni. Secondo Cobas, Unicobas, Cub, Sincobas, occorre por-tare i “salari in grado di reggere i colpi del caro-vita, difendere il potere d’acquisto e restituire ai contratti la funzione di redistribuzione della ric-chezza prodotta”. Occorre – aggiungono – rive-dere il paniere, in modo che possa rispecchiare i consumi reali dei lavoratori. Si vogliono dunque raccogliere 50.000 firme e introdurre nella cam-pagna elettorale i temi del lavoro. Il sostegno va da Rifondazione ai Verdi, dal Pdci ad Attac, As-sociazione consumatori, Unione Inquilini, ecc. La proposta è tipica di un sindacalismo economici-sta, che non si rende conto che una funzione di redistribuzione automatica della “ricchezza” non è diversa da una programmazione regolata dell’inflazione. Invece di mettersi sul piano della lotta, che può incidere sulla distribuzione strap-pando almeno una porzione di plusvalore ai pa-droni, si cerca di concordare la soglia più o me-no alta del paniere…

2. Si tratta del “famoso” toyotismo della seconda metà degli anni ‘80, che riformerà il vecchio fordismo legato alla rigida catena di montaggio: ridottissimi tempi di produzione, automazione allargata, organizzazione della produzione per gruppi omogenei, robotizzazione delle stazioni, flessibilità. Il toyotismo, dopo un’iniziale fase sa-lutata con entusiasmo dai soliti “scopritori dell’acqua calda”, in meno di un quinquennio la-scerà più danni che benefici all’economia giap-ponese, da cui si era dispiegato, se è vero che per più di un decennio (1990-2002) il Giappone rimarrà in coma produttivo – a conferma che so-lo dalla massa di forza-lavoro impiegata (il capi-tale variabile) può ancora emergere la speranza, per il capitale, di opporre una controtendenza al-la caduta del saggio medio di profitto…

3. Vedi appunto il nostro articolo di commento, sul n.1/2006 di questo stesso giornale.

torizzazione a fornire servizi di orientamento e qualificazione. Nel 2005, si disciplinano l’appalto dei servizi, i trasferimenti di rami d’a-zienda e la revisione del lavoro a tempo parziale; poi, s’introducono il lavoro intermittente, il contratto di inserimento, e infine (luglio 2005) le normative per il nuovo apprendistato. Gli aggiustamenti del ministro Maroni della legge 30, per legittimare e rendere operative le Agenzie del lavoro, hanno permesso di passare la notazione di “datore di la-voro” all’”appaltatore di lavoro”, rendendo possibili appalti di mera manodopera e scorpori di rami d’azienda da cedere a società con-trollate dallo stesso imprenditore, formalmente autonome. Lo scopo era quello di attaccare i lavoratori, che continuano a lavorare con una minore retribuzione e minori diritti, perché il rapporto non intercorre più con l’imprenditore. Per quanto riguarda le altre figure atipiche – a chia-mata (on call), occasionale, job sharing, di inserimento – , pur essen-do figure marginali, hanno prodotto un effetto di cumulo con le altre fi-gure. I contratti a termine hanno avuto una completa liberalizzazione, in quanto i decreti legge permettono una reiterazione all’infinito dello stesso contratto. Il cambiamento delle “collaborazioni coordinate continuative” (“co.co.co”) in “collaborazioni a progetto” (“co.co.pro.”) (gennaio 2005) non ha portato alcuna nuova tutela su malattia e con-tributi. Altri ampliamenti si sono avuti sui contratti a tempo determina-to, sostitutivi del lavoro in affitto. Peggiorativa è stata anche la discipli-na del part-time con l’introduzione di un’accentuata flessibilità. La percentuale ancora elevata di contratti a tempo indeterminato (ri-spetto a tutti gli altri) e per l’insieme di tutti gli occupati, di cui si vanta la presenza, non dice che il precariato dilaga in modo massiccio tra le nuove generazioni (tra il 2003 e il 2005, il processo di sviluppo di que-ste forme si incrementa a cascata, fino a raggiungere percentuali prossime al 50%).

Il programma dell’Unione

Con tale programma, si dice, si vorrebbe superare, abrogare la “leg-ge 30” e impegnarsi in una vera riforma. Se ci sarà riforma, e molti ne dubitano, si dovrà disciplinare tutta la materia: appalti, esternalizza-zioni, trasferimenti d’impresa, regime dei rapporti di lavoro nei gruppi societari. Si dovrà superare la distinzione tra lavoro subordinato e pa-rasubordinato, eliminare una serie di rapporti precari, articolare una serie di incentivazioni e disincentivazioni per la stabilizzazione del la-voro subordinato a termine, disciplinare il controllo e la lotta al lavoro nero e di quello dei migranti, sommare le due tutele nel mercato e nel posto di lavoro, e quindi rivedere la disciplina degli ammortizzatori so-ciali con una loro universalizzazione al di là dei settori, la questione de-gli esuberi, le ristrutturazioni, le delocalizzazioni. Inoltre, si dovrà porre mano a una legge sulla rappresentatività e democrazia sindacale. La “riforma” in realtà non si farà, proprio per la ragione che essa è già stata scritta e riscritta, sia nelle sue linee generali che in quelle opera-tive: tutta l’impalcatura (“Riforma 1993”, “Pacchetto Treu”, “Libro Bianco”) già esiste ed è frutto dell’operato del centro-sinistra. Il con-tratto dei metalmeccanici del gennaio 2006 ne è una riprova, proprio perché premessa a quella “riforma” 3. Esso ha infatti alla base la fles-sibilità e la precarietà (l’apprendistato e gli orari plurisettimanali, la for-mazione e l’inserimento ne sono gli strumenti portanti). L’accordo sul contratto con la Confartigianato conferma poi senza alcun dubbio la linea di tendenza generale verso il cosiddetto “federalismo contrat-tuale” e la pressante delegittimazione del Contratto nazionale. Il carattere di continuità fra le due compagini governative è dunque e-vidente. Certo, il governo di centro-destra si è presentato con una lo-gica più decisionista e diretta, dato che le regole della concertazione con i sindacati confederati gli andavano di traverso, pur accordando privilegi speciali a Cisl e Uil. Quanto al governo di centro-sinistra, es-so ha portato al massimo la flessibilità dell’entrata nel mercato del la-voro, mettendo in piedi innumerevoli tipologie di contratti atipici a di-sposizione degli imprenditori, situazione che non ha eguali in Europa. Il governo di centro-destra ha organizzato le uscite a livello individua-le (dismissioni e licenziamenti), che erano già a buon punto a livello collettivo (mobilità, licenziamenti, ecc). Le “riforme sul lavoro flessibi-le” sono poi opera di entrambi gli schieramenti.

Le linee-guida della nuova “riforma”

Dato per inteso che la “riforma contrattuale” del 1993 è superata per le due compagini governative, cerchiamo di capire le linee-guida del-la nuova: possiamo dedurle da una serie proposte avanzate sul “So-le-24 ore” del 24/2. Oggi, le figure precarie ammontano a 44, per altri sono 22 e per altri ancora 14. A sentire lor signori, queste figure non sono troppe; anzi, ci si chiede se non è venuto il tempo di buttare a mare le vecchie figure contrattuali, e praticamente estenderle al nu-mero complessivo dei lavoratori: il menù potrebbe diventare ricco, con contratti su misura, una volta stabilito un nucleo di diritti comuni sull’equo compenso, la salute e la sicurezza – in pratica, le due parti (datore e lavoratore) si recano presso una terza parte e certificano la formula contrattuale. Altri trovano esagerato avere tante figure: oc-correrebbe stabilire uno standard salariale per tutte le categorie (per e-sempio, 5 euro l’ora); poi, uno standard contributivo, aumentando quello degli autonomi e riducendo quello dei dipendenti, senza inci-dere troppo sulle pensioni; infine, uno standard di sicurezza a costo zero. Nello stesso tempo, occorrerebbe inserire un reddito minimo di povertà (400 euro) e, per i giovani, un “cursus honorum”: 3 anni per a-vere un contratto a tempo indeterminato (6 mesi di prova iniziale, in-serimento dal settimo mese a 3 anni, dal terzo anno in poi il vero e pro-prio contratto). Per quanto riguarda l’apprendistato, si osserva che si è giunti alla si-tuazione paradossale, date le attuali tipologie estremamente variega-te, di rimanere apprendisti fino a 34 anni: infatti, se un giovane, dopo aver fatto l’eterno precario, subordinato a tempo determinato o para-subordinato, viene assunto a 29 anni in fabbrica, dopo il suo periodo di apprendistato (secondo l’ultimo contratto può arrivare a 5 anni) ter-mina la sua gavetta a 34 anni. C’è poi un’altra figura da sistemare, quella del cassintegrato: poiché deve valere il principio della responsabilizzazione del dipendente, per evitare l’assistenzialismo bisogna indurlo all’attività forzata. Se il cas-sintegrato rifiuta un’offerta di lavoro congrua rispetto alla sua profes-sionalità, perderà il sussidio. Ma dovrà tornare in carico all’impresa? Per occupare questi lavoratori, si potrebbero attivare, pensa il mini stro, le Agenzie del lavoro interinale, che offrirebbero contratti che non potrebbero essere rifiutati: a tempo determinato (9 me-si), con una spesa salariale che potrebbe essere per legge inferiore al 20%. In questo modo, si perderebbe il reintegro nel posto e si avreb-be un contratto meno retribuito. La “sinistra” troverà molto interes-sante la proposta, dato che fa scandalo l’assistenzialismo. Il socio-lavoratore è un’altra figura contrattuale diffusasi come la peste in ogni angolo produttivo. Su questa matrice societaria, la “sinistra” potrebbe investire un bel po’ di risorse spendibili ideologicamente e praticamente, a tutti livelli, dall’industria all’agricoltura e servizi, cer-cando di garantirne la stabilità. Fin dagli inizi, si è fatto credere che le cooperative sarebbero state un’attività produttiva autogestita dai la-voratori: in realtà, la posizione del socio-lavoratore delle tante società cooperative ha costituito un avamposto per rimodellare l’intero diritto del lavoro. Con la Legge del 7 marzo 2001, si permette infatti di diffe-renziare a piacere la forma contrattuale che regola la prestazione. Il socio-lavoratore di cooperativa stabilisce un rapporto di lavoro, in for-ma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale. La ricaduta re-tributiva per i soci in rapporto di lavoro subordinato è stata quella (si di-ce!) di un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, e comunque non inferiore ai mi-nimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine. Per quelli in rapporto di lavoro diverso da quello subordinatole società cooperative corri-spondono al socio-lavoratore un trattamento economico complessi-vo proporzionato ai “compensi medi” in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo. Non è un caso che le cooperative, rifuggendo dal rapporto di dipendenza, abbiano poi configurato qual-siasi prestazione del socio-lavoratore come “lavoro autonomo” o “col-laborazione non occasionale”: ciò ha consentito di aggirare l’obbligo di rispettare i “minimi” retributivi definiti dalla contrattazione collettiva e di riferirsi invece ai “compensi medi (?) in uso per prestazioni analo-ghe rese in forma di lavoro autonomo”.

Il contratto dei Metalmeccanici

Il 18 gennaio 2006, la Confindustria e le tre sigle sindacali di categoria hanno chiuso il contratto dei Metalmeccanici. Si tratta del primo esem-pio di “riforma del contratto di lavoro”, vero incipit del futuro prossimo dei rapporti politico-aziendali. “Questo contratto […] apre una prospet-tiva sul nuovo modello contrattuale”, è stato l’unanime commento. L’af-fermazione che la “lotta” vertesse sulla questione salariale era solo par-zialmente vera: in ballo era prima di tutto la garanzia di un terreno uni-tario di regole sulla flessibilità e sulla produttività. “E’ stato fatto un buon affare”, ha detto il presidente della Federmeccanica Calearo ( “Il Sole-24 ore”, 20/1), “adesso la contrattazione deve cambiare, il sindacato de-ve trasformarsi in un vero partner dell’impresa […]; i sindacati hanno a-vuto la vittoria simbolica di 100 euro, ma noi abbiamo dato alle azien-de la soddisfazione di sostanza”. Le confederazioni sindacali, dopo a-ver messo una pietra sopra una serie di lotte (blocchi stradali e ferrovia-ri) proclamate per chiudere la vertenza al più presto, dovevano coprire gli accordi molto più importanti sottoscritti verbalmente sulla questione dell’apprendistato e dell’orario di lavoro. Per giunta, la “vittoria dell’u-nità” delle tre sigle di categoria contro gli accordi separati dei due anni passati doveva essere festeggiata al meglio. Torniamo dunque a esaminare quest’accordo “vincente per i lavora-tori”. Intanto, i 100 euro sono lordi e rappresentano l’aumento della 5a categoria (sulle 8 presenti), suddiviso in tre tranches di 60, 25, 15 (ab-bastanza tempo perché possa essere assorbito dall’inflazione! non per nulla, la durata del contratto è stato allungata di sei mesi, fino a giugno 2007!), mentre l’aumento per i lavoratori di 1a categoria è di 62 euro lordi scaglionati (37,5; 15,63; 9,37). Come arretrati per il 2005, i lavoratori riceveranno 320 euro onnicomprensivi e non incidenti sul T-FR (erogati in due tranches). Per i lavoratori privi di contrattazione e ai livelli minimi tabellari (i più poveri dei poveri), si è data una mancia una tantum di 130 euro a titolo perequativo una volta all’anno. Ma vediamo la parte normativa, quella su cui puntavano le due parti: la questione dell’apprendistato, che costituiva la parte più importante per le ricadute di flessibilità e di precariato (alla faccia di chi pensa che il nuovo governo ridimensionerà la Legge 30!). Le nuove regole del re-clutamento sono una vera e propria opera d’arte: si arriva a una du-rata di 5 anni per la 5a categoria, a 4 anni e sei mesi per la 4a e a 3 an-ni e sei mesi per la 3° – tutta forza-lavoro a disposizione, speranzosa e a basso costo, che non ha proprio nulla da apprendere (le macchi-ne incorporano la forza-lavoro senza alcun bisogno di esami!), ma de-ve solo sognare un’assunzione a tempo indeterminato (si parla del 70%, ma è tutto da contrattare!) che non verrà mai perché i cicli di cri-si si susseguono uno dopo l’altro. L’operazione consiste in realtà nel-la programmazione anticipata… dei licenziamenti, e non delle assun-zioni. La copertura della “sinistra sindacale” su questo aspetto è evi-dente. Essa sa bene che l’accordo è stato concordato contro i lavo-ratori: “L’apprendistato rappresenta una sfida collettiva per tutti”(!?) (Rinaldini, segretario della Fiom, “Il Manifesto”, 20/1). L’altro capola-voro è l’orario plurisettimanale: in base alle “ragioni produttive e di mercato”, i lavoratori saranno messi di fronte a orari flessibili, che o-scilleranno tra le 32 e le 48 ore settimanali e che possono partire im-mediatamente in tutte le aziende interessate (ancora precariato e fles-sibilità!). Per quanto riguarda la retribuzione, si passerà attraverso tre livelli: inizialmente, si sta nel minimo contrattuale di inquadramento; in un secondo tempo, ci si dovrà accontentare di un inquadramento in-feriore di un livello a quello di destinazione; infine, il salario sarà uguale a quello previsto. Le modalità di assunzione e di formazione sono an-ch’esse perle di “saggezza contrattuale”, funzionali alla precarietà: tempo di apprendistato e flessibilità costituiranno la base dell’attività antioperaia che le due parti vorranno esercitare in piena armonia con la riscrittura del nuovo contratto. Il dessert finale è rappresentato dal-la “Commissione permanente di confronto”, che si dovrà nel frattem-po costituire relativamente ai temi della competitività, della produtti-vità, dell’orario, del mercato e delle condizioni del lavoro, e su cui c’è un’unanimità che nemmeno si conosceva al tempo delle… corpora-zioni fasciste! Si discuterà di tutto, fornendo al prossimo governo l’a-genda programmatica delle nuove relazioni industriali: “Serve un con-tratto nazionale che dia il minimo [!] e rinvii tutto il resto alla contratta-zione aziendale [...], devono cambiare il sindacato e le relazioni indu-Quale è la nostra risposta a queste considerazioni? Proprio perché sappiamo che così vanno le cose, rivendichiamo più alti salari per le categorie peggio pagate, contro le posizioni sindacali che, legate alle aziende e allo Stato, facendo lo stesso ragionamento, dividono i pro-letari in livelli e parametri allargando il ventaglio salariale, perché non hanno alcun interesse a unificare la lotta contro il capitale, mirando sempre a boicottare le forme spontanee di aggregazione e separan-do una realtà che spesso tende a unire i proletari delle diverse fasce.

Una nuova conferma: il contratto con la Confartigianato

Il 15/2, le confederazioni sindacali hanno firmato il contratto con le imprese artigiane: il “primo contratto federalista”, così è stato subito battezzato, perché prevede un forte decentramento regionale della contrattazione – altro esempio di “riforma”. Angeletti (Uil) cerca di smentire questa interpretazione affermando che invece esso riconferma tutte le funzioni del contratto nazionale, in modo particolare su diritti, inquadramento, orari e salari: “con i dovuti adeguamenti, può rappresentare un utile riferimento per l’intero mondo del lavoro” (“Il Manifesto”). Anche la Cisl ritiene che si tratti di “un’intesa importante che definisce la riforma del modello contrattuale e rilancia le relazioni sindacali e il sistema della bilateralità” (cioè della concertazione!). Il “contratto interconfederale” per tutte le categorie vale 4 anni e riguarda

1.400.000 lavoratori. Questo livello generale di contrattazione si limi-ta a definire l’aumento salariale secondo i parametri dell’inflazione pro-grammata, più alcune questioni normative valide in generale: toccherà poi ai due livelli regionali (uno interconfederale e un altro di categoria) definire i recuperi salariali legati alla produttività. La più grande cate-goria del mondo artigiano, quella dei metalmeccanici, la Fiom, non ha firmato l’intesa. Dice Cremaschi: “è una devolution contrattuale per cui il contratto nazionale permette solo il recupero dell’inflazione pro-grammata, poi tutto il resto è affidato a quelli regionali”. Marcelli, coor-dinatore nazionale della Fiom, aggiunge: “esprimiamo giudizi negativi sia di metodo che di merito in quanto si svaluta il livello nazionale, l’u-nico che può differenziare anche i più deboli. Quattro livelli di concer-tazione (categoria, regione, territorio e azienda) sono tanti, questa in-tesa crea un intreccio di funzioni che debilita il contratto nazionale, in sintonia con la Confindustria, che tuttavia ha bisogno comunque di u-na contrattazione centralizzata”. No comment!

Congressi regionali e Congresso nazionale della Cgil

Intanto, nei congressi regionali in preparazione del XV Congresso Na-zionale della Cgil e in attesa del referendum sul contratto, si lancia l’al-larme sul tentativo di eliminare il contratto nazionale a favore dei con-tratti di secondo livello aziendali, locali e regionali, con la rinascita del-le gabbie salariali. Si teme un periodo senza regole, in cui “prevalga anche l’idea della lotta alla concertazione” (!?). Al Congresso della Fiom (“Il Manifesto”, 8/2), una settimana prima del referendum, lo stesso segretario Rinaldini proclama con enfa-si: “Abbiamo riconquistato il contratto”. Poi, comincia a elencare le più recenti “vittorie” (?), tra cui la firma del contratto a Melfi, dopo che la lotta, esplosa scavalcando le RSU, repressa dalla polizia sol-lecitata da Cisl e Uil, e soffocata con un referendum all’interno dell’azienda, aveva creato le premesse di un’unificazione delle lot-te in tutto il comparto Fiat, da nord a sud. Ma il suo chiodo fisso è quello della “democrazia e della rappresentanza sindacale”: chiede al prossimo governo “una legge che le regolamenti con annesso referendum, consegnando nelle mani dei legittimi proprietari la de-cisione su contratti e accordi”. Non c’è che dire: mentre la Confin-dustria cerca battitori liberi come Cisl e Uil, che vantano di non a-vere le mani legate da coloro che li eleggono, abili nello svendere a seconda delle circostanze gli interessi dei lavoratori (“rappresen-tanza di mandato”, la chiamano) e nel sollecitare le forze dell’ordi-ne, Rinaldini vuole che lo Stato regolamenti la democrazia e la rap-presentanza, che la collaborazione sia legittimata e garantita da leggi (bella trovata: la democrazia operaia diretta dallo Stato e ga-rantita dalle forze dell’ordine!). E non manca di vantare (“Il Manife-sto”, 11/2) la capacità con cui si è riusciti (bene, bravi!) a giungere unitari con Fim e Uilm all’appuntamento contrattuale dopo due an-ni di contratti separati. Alla vigilia del Congresso, Epifani, segretario generale della Cgil, lancia un nuovo “Patto del lavoro” alle altre or-ganizzazioni sindacali, proponendo loro di riscrivere una “Carta dei valori” del sindacalismo confederale, una forma più avanzata di u-nità sindacale, per tentare di abbattere, in quanto non ha più futu-ro, il modello del “sindacato corporativo e chiuso”. Cisl e Uil gli ri-spondono picche respingendo patti di cui… non hanno bisogno. Al Congresso, sia in apertura che in chiusura, come da copione, Epi-fani propone al centro-sinistra un “Patto di legislatura” per la prossima stagione politica 2006-2011, una nuova concertazione incentrata sul-la “giustizia fiscale”. L’antifona è sempre la solita, sentita e risentita ne-gli anni 1996-2001, quando venne a crearsi un vero cordone sanita-rio a protezione del “ governo amico” contro le lotte di difesa econo-miche. La lotta all’evasione fiscale fa parte della stessa sceneggiata, la politica dei due tempi (prima sviluppo, poi redistribuzione) è ancora la vecchia ricetta per stroncare ogni lotta “nella situazione di crisi econo-mica in cui il Paese si trova”. Per quanto riguarda i rapporti di lavoro precari, essi devono costare di più sia in termini salariali che contribu-tivi, il lavoro parasubordinato deve uscire dalla nebbia tra lavoro di-pendente e autonomo, il Contratto nazionale deve restare…Tutto qui. C’è da meravigliarsi se la Confindustria, per bocca di Montezemolo, dopo la stipula del contratto dei metalmeccanici, fa l’elogio della se-rietà delle proposte della “sinistra”, e se il “ Corriere della sera” ne ap-poggia apertamente la linea? “L’identità di vedute tra Epifani e Prodi è ai limiti dell’imbarazzo”, si dice da più parti. I proletari si preparino: la “sinistra democratica”, con il suo codazzo di neo-papisti, di stalinisti di vecchio pelo, di disobbedienti pentiti, di e-terni portaborse e pennivendoli, si appresta a lanciare la vecchia rete. La padellata di promesse elettorali porterà solo a nuove disillusioni, in-debolendo la capacità dei lavoratori di rispondere punto su punto all’attacco che viene loro portato da ogni parte. Resta da vedere se cadranno tutti nella rete, o se invece settori importanti sapranno rea-gire, uscendo da una storia troppo lunga di sconfitte. Si tratterà allora di ripartire di lì, da quelle reazioni, per estenderle, organizzarle, indiriz-zarle, e farne la base per la creazione di un futuro, più ampio fronte di lotta. Il nostro posto è e sarà lì.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2006)

 

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