DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

I giornali, pudicamente, non ne hanno dato l’annuncio ufficiale, ma era evidente. Ai primi di novembre, dopo un periodo di relativo declino, la Gonzi International SpA è tornata a occupare la scena: intorno alle elezioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, infatti, l’ubriacatura è stata generale, e in molti, in Italia come all’estero, si sono fumati un altro po’ di cervello, proclamando “nuove ere”, “svolte storiche”, “grandi passi”, “capitoli nuovi”, “nuovi futuri New Deal”, “ritorni agli ideali originari”, e via di seguito. Noi comunisti vediamo le cose in maniera alquanto diversa, da un punto di vista radicalmente diverso. Con l’elezione di Barack Obama a presidente, gli Stati Uniti compiono infatti un altro significativo passo verso la prossima guerra mondiale. Il solito paradosso dei soliti catastrofisti? Spieghiamo con pazienza a chi non si sia del tutto ubriacato o fumato il cervello.

L’economia statunitense è in crisi profonda, e non da oggi. La sua crisi (che ha avuto e ha dinamiche di sviluppo sue proprie, legate inevitabilmente alla situazione di predominio dell’imperialismo americano uscito vincitore assoluto dal secondo macello mondiale) ha seguito lo stesso andamento di quella di tutte le potenze mondiali a partire da metà degli anni ’70 del secolo scorso. Il risultato è stato, fra gli altri, il progressivo indebolimento dell’economia americana (pur sempre dominante) rispetto alle altre potenze, sue rivali storiche (Germania, Giappone) o recenti (Cina, India). Per far fronte a questa situazione nuova e preoccupante, il capitale USA ha dovuto giocare, sul fronte interno (ma, specie nell’età dell’imperialismo, tutti i teatri sono interdipendenti), la carta della “finanziarizzazione” (della borsa e della speculazione); sul fronte esterno, ha dovuto condurre una feroce guerra commerciale contro i suoi concorrenti (politiche monetarie, cartellizzazione, dumping, fusioni, protezionismo, ecc.), che in più d’un frangente, negli ultimi vent’anni, s’è trasformata in guerra guerreggiata: nessun altro significato hanno avuto il succedersi sanguinoso e sanguinario della I guerra del Golfo, della guerra nei Balcani, della II guerra del Golfo, della guerra in Afghanistan (per non dire dei molti episodi di guerra per procura, o più o meno sotterranee, condotta altrove, in primis in Africa). Tutti questi interventi militari sono stati volti, da un lato, a ridare ossigeno alla propria economia asfittica (la macchina da guerra deve funzionare a pieno regime, con un enorme sforzo produttivo e ricadute positive su vari settori), rafforzando al contempo il controllo sulle aree strategiche dal punto di vista delle materie prime e dei loro corridoi di passaggio; dall’altro, a colpire più o meno direttamente i concorrenti più minacciosi o... screanzati, escludendoli dalle stesse aree o bloccandone l’espansione (l’esempio “migliore” lo si è avuto proprio nei Balcani, dove l’allargamento del capitale tedesco verso sud, verso il Mediterraneo e verso aree strategiche, è stato rintuzzato con una guerra sanguinosa, voluta e guidata dall’amministrazione Clinton – grande sostenitore di Obama). 

Ora, tutte queste “medicine” (le uniche note al capitale, fin dalle origini) non solo si sono dimostrate, come previsto, insufficienti a curare il malato, ma hanno avuto, all’interno come all’esterno, tutta una serie di “effetti collaterali” che ne hanno aggravato l’agonia. La crisi economica mondiale (meglio: la sua recente accelerazione, all’interno del ciclo di crisi apertosi a metà anni ‘70) sta procedendo a tutti i livelli, e non c’è “esperto” che non dica che le cose sono destinate ad andare “di male in peggio”: l’economia USA è ferma, la disoccupazione è in aumento vertiginoso specie in certi settori della popolazione (neri, latinos, immigrati – per non parlare della condizione tragica dei clandestini), il settore dell’auto è in crisi profonda (con tutti i riflessi inevitabili), la classe media viene sempre più tartassata, l’indice di fiducia crolla ai minimi storici, si ripresenta lo “spettro del 1929” con il rischio del riesplodere di un forte “malessere sociale” – un complesso di fatti, reali e psicologici, che accomuna la società Usa al resto del mondo. Ciò vuol dire che il processo di erosione del predominio mondiale del capitale Usa si accelera ancor più, di fronte all’inevitabile aggressività di altri capitali concorrenti, essi pure morsi dalla crisi. L’accelerazione è dunque verso un acuirsi ulteriore della guerra commerciale, verso un giro di vite da parte del capitale Usa nei confronti degli altri capitali nazionali; e, di conseguenza e in prospettiva, verso una nuova, necessaria prova di forza, verso un nuovo scontro armato, di dimensioni e implicazioni non più locali, ma mondiali. Come prepararlo? e soprattutto: come prepararsi a esso? 

E’ proprio qui che negli Stati Uniti (e dunque non solo) entra in gioco il “nuovo Presidente”. E anche qui sarà bene spiegare con pazienza. Noi comunisti abbiamo sempre negato a) che gli individui facciano la storia, e b) che a “fare la politica” di un paese siano cariche istituzionali (come quella di presidente della repubblica, del consiglio, o di che altro) o istituti democratici (come il parlamento piuttosto che il consiglio di zona) – cariche e istituti che hanno se mai l’unica funzione di amplificare, come vere casse acustiche, un discorso puramente ideologico, di “consenso nazionale”, del tutto funzionale agli interessi del capitale. Non erano le sparate demagogiche di Mussolini al balcone di piazza Venezia o i “discorsi al caminetto” di Roosevelt alla radio (o, oggi, i dibattiti parlamentari o i salotti televisivi, spesso irriconoscibili gli uni dagli altri), a “fare la storia” – la storia, molto meno rumorosamente ma molto più materialmente, la “facevano” e la “fanno” le banche, gli istituti finanziari, i cartelli, i trust... E, al momento opportuno, i cannoni. Ma certo le parole e i discorsi servivano e servono a imbottire i cervelli: a rassicurarli ed esaltarli, come e quanto è necessario per far filare il mondo del capitale nazionale. Ora, gli Stati Uniti in crisi (come qualunque altro paese in crisi) conoscono anche la crisi (all’interno e all’esterno) del discorso ideologico di consenso nazionale: di quel collante ideologico capace di tenere insieme il “corpo della nazione” negando l’esistenza in esso di interessi antagonisti e inconciliabili e preparandolo a mandar giù medicine amarissime e conducendolo per mano verso una sequenza progressiva di conflitti esterni, prima “culturali” e ideologici, poi diplomatici, infine guerreggiati. Tornare a rendere efficiente e diffuso quel collante ideologico: ecco il problema che sta di fronte alla classe dominante Usa (modello cui si adegueranno via via le altre classi dominanti: la retorica sparsa in Italia e in Francia in quegli stessi giorni sul primo macello mondiale è un buon esempio dell’indirizzo preso). Alla soluzione di questo problema non rispondeva certo una carta tipo Bush (quella dell’ottusa arroganza): risponde invece molto meglio quella (mediaticamente mirabolante) tipo Obama. Sarà lui, con il suo carisma neo-kennediano, con il suo messaggio interclassista e multiculturale, con il suo simbolo esplicito (e ricattatorio: chi ormai può resistervi? solo qualche frangia esaltata, sempre utile al capitale, ma non in questo momento) della “lunga marcia del popolo nero”... Ed ecco che i boccaloni di tutto il mondo abboccano estatici e, in un coglionissimo “lasciateci sognare almeno un po’”, si distribuiscono i biglietti per la serata di “Mister e Miss Gonzo 2009”... Torna sulla scena, fra rulli di tamburi, squilli di trombe e lancio di coriandoli e stelle filanti, la Gonzi International SpA. Intanto, il neo-Presidente mescola gli ingredienti del collante: un colpo al cerchio e uno alla botte. E non c’è dubbio che dovrà varare misure “di rilancio dell’economia” (la povera automobile!), “di risanamento sociale” (la disastrata assistenza sanitaria! la miseria sempre più diffusa! la disoccupazione crescente!), “di riordino del sistema finanziario e bancario” (i mutui! la speculazione! gli istituti traballanti!). Dovrà farlo per evitare sussulti sociali. Ma (e qui il “Ma” è davvero grande come una casa!) da qualche parte dovrà cacciarli, i soldi per tutto ciò: e li caccerà attraverso a) un più intenso sfruttamento del proletariato americano (che dunque perderà tre volte quel poco che, demagogicamente, gli verrà concesso), b) un sempre maggiore indebitamento statale (che verrà scaricato su tutti quei paesi che già ora lo stanno finanziando: la quasi totalità del mondo, gonzi compresi!), c) un’accresciuta aggressività commerciale, e dunque militare. Ed è a questo punto che il collante dovrà dimostrarsi all’altezza, sia all’interno che all’esterno. Avrà cioè inizio il periodo di “preparazione alla nuova guerra”, con tutta la mobilitazione intellettuale e psicologica necessaria (e con il valido aiuto della Gonzi International SpA): il “nuovo New Deal”, le nuove “guerre giuste”, la “minaccia del cattivo di turno”, la “guerra per far finire tutte le guerre”, la “guerra per la democrazia”, ecc. ecc. – il solito repertorio ormai frusto dell’ideologia dominante, bene sperimentato in due devastanti pre-guerra e in decine di “pre-guerricciole” locali.  Il neo-Presidente si rimbocca immediatamente le maniche, e la Gonzi International SpA promette il suo estatico sostegno, dimentica (perché s’è bruciata i neuroni con l’acido di ottant’anni di controrivoluzione) che, negli anni ’30, proprio il New Deal preparò la strada all’intervento Usa nel secondo macello mondiale.  Resta da vedere se il proletariato americano accetterà passivamente di essere di nuovo torchiato e mandato a massacrare e a farsi massacrare: ma la risposta a questo drammatico quesito è strettamente legata al ritorno sulla scena in tutti i paesi del mondo sia del proletariato in lotta sia del partito rivoluzionario in grado di dirigerlo.

 

                                                                                                        Partito Comunista Internazionale

                                                                                                             ( Il Programma Comunista)

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