DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Riprendiamo in questo lavoro a trattare della guerra in corso in Ucraina, mentre si incancrenisce in un conflitto che vede il coinvolgimento della NATO, in una escalation di cui al momento non si intravede la fine. E il cui orizzonte rimane ancora circoscritto alla direttrice storica dell'aggressione all'Europa, temi già in parte trattati nell’articolo “Chi aggredisce l’‘Europa’?”, uscito sul n. 4/2022 di questo stesso giornale.

Tra i numerosi articoli che, da una prospettiva genericamente “marxista”, trattano la questione, non mancano interventi in cui si fa riferimento alle tesi della nostra corrente. Naturalmente, lo fanno seguendo la tradizione idealista del personalismo: cioè, le attribuiscono alla penna dell’“ing. Bordiga Amadeo” (come spesso amano chiamarlo i gazzettieri di varia collocazione), che peraltro mai ha inteso rivendicare proprietà intellettuale, ma ha sempre contribuito al lavoro impersonale e organico di Partito. Ne è esempio un articolo recente (1) che riporta in apertura la seguente citazione, a lui attribuita: “I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale, politica e bellica, della signoria americana sul mondo capitalistico”.

La frase riassume i limiti entro cui i comunisti sono stati costretti a operare finora, e una condizione perché ritornino a essere fattore attivo è la catastrofe della signoria americana. Lo slancio dell'aggressione all'Europa, come analizzata e dedotta nel nostro complesso lavoro di partito degli anni Cinquanta, arrivava fino a Mosca. Ma nella strategia degli aggressori di oggi punta a Pechino e al vassallaggio di quella potenza che, sull'onda di una formidabile e prevedibile crescita iniziata negli anni Ottanta, sta divenendo un potenziale centro di aggregazione di una coalizione di Stati ribelli all'ordine mondiale vigente, minacciante l'esercizio della signoria americana sul mondo capitalistico. Oggi come ieri, i comunisti internazionalisti auspicano la catastrofe del centro imperialista dominante, sia essa innescata da una sconfitta militare o dal riaccendersi della lotta di classe (la soluzione più auspicabile) o di contrasti tra istituzioni e classi dirigenti all'interno del Paese. Non mancano segnali premonitori della possibilità che si realizzino questi ultimi esiti, ma proprio una disfatta militare sarebbe un innesco micidiale per la deflagrazione interna. La superpotenza ha già memoria di umilianti sconfitte, dal Vietnam all'Afghanistan, dalle quali tuttavia è uscita indenne o solo scalfita nel suo ruolo egemone e negli equilibri interni. Pur trattandosi di guerre asimmetriche, condotte contro nemici incomparabilmente più modesti militarmente, mentre oggi è andata a stuzzicare avversari che, quanto a attrezzatura statale e militare, non le sono poi così distanti. L'auspicio della sua sconfitta non è comunque assimilabile e sovrapponibile a quello di una vittoria del fronte avversario, di cui auspichiamo con altrettanta passione la corrispondente catastrofe, trascinata dal crollo generale del vecchio ordine e dalla conseguente liberazione di possenti energie di classe a tutte le latitudini, dai territori degli sconfitti come dei vittoriosi. Auspicio del tutto conforme al senso del nostro radicale disfattismo nei confronti di ogni mostro statale borghese.

Questa posizione sulla guerra, che tiene insieme dialetticamente lotta di classe, antimilitarismo, antiimperialismo, è tracciata senza alcuna indecisione nei nostri lavori di Partito, a partire da Il corso storico del movimento di classe del proletariato. Guerre e crisi opportunistiche, pubblicato nel 1947 (2). All'uscita del secondo conflitto mondiale, si poneva la necessità di riaffermare un corretto inquadramento del tema “guerra”. E così:

Il movimento della classe operaia, che aveva reagito in modo insufficiente alle suggestioni della propaganda borghese tutta mobilitata a presentare la prima guerra mondiale imperialistica nel falso schema del conflitto tra due ideologie e due diversi destini del mondo moderno, così e più gravemente è caduto da ambo le parti del fronte nell'analoga propaganda della presentazione ideologica della guerra attuale. È indispensabile per le sorti avvenire della Internazionale rivoluzionaria che venga restaurata la posizione critica proletaria sul significato della guerra (3).

Il falso schema che colloca l'origine dei conflitti in uno scontro ideologico tenta di riproporre oggi, a 75 anni di distanza, la contrapposizione tra regimi democratici e totalitarismi, propria delle due grandi guerre passate; in realtà, lo scontro odierno richiama il conflitto tra Stati che “ambiscono a uno spazio vitale” e le dominanti “plutocrazie d'Occidente”, come sfida di un sedicente “multipolarismo” al cosiddetto “globalismo”. Al riproporsi di uno scontro che presenta forti elementi di continuità storica, oggi come ieri i comunisti si rifiutano di aderire a questo o quel fronte, sia esso quello delle “liberissime” democrazie d'occidente sia quello delle nazioni reclamanti il “diritto” a uno sviluppo capitalistico affrancato dalla sudditanza al dominus mondiale. Da una parte e dall'altra, la pretesa “crociata” per difendere o conquistare una libertà variamente connotata nasconde uno scontro tra concentramenti di potenza fondato sulla realtà dello scontro di classe sorgente dalle dinamiche dello sviluppo capitalistico:

La guerra è indubbiamente una risultante di cause sociali, ed i suoi esiti militari si inseriscono come fattori di primo ordine nel processo di trasformazione della società internazionale, interpretato materialisticamente e classisticamente. Ma ha rinnegato il marxismo chi crede che le guerre si possano spiegare col misero bagaglio teorico che ne fa altrettante crociate (da Il corso storico, cit).

Anche oggi, da entrambi i fronti, si coltiva un crociatismo contro un nemico additato a pericolo mortale. Gli atlantisti non si fanno remore a chiamare alle armi contro una minaccia da Oriente alla democrazia e alla stessa libertà dell'Occidente, sebbene sia l'una che l'altra sopravvivano, oggi più smaccatamente di ieri, solo come simulacri. Da parte loro, la propaganda russa ha buon gioco a porre l'attuale minaccia all'integrità del territorio del loro Stato in continuità storica con le disastrose invasioni di Napoleone e Hitler, e perfino con le crociate medievali dei cavalieri teutonici contro gli slavi del Baltico (4).

Che la si veda in un senso o nell'altro, per entrambi i fronti di crociata si tratta, perché per entrambi – indipendentemente dal grado di fondatezza delle motivazioni poste a giustificazione dell'intervento – è una questione di vita e di morte: o crolla la Russia o rischia il crollo tutto il sistema economico politico militare imperniato sugli Stati Uniti. In realtà, mentre nella NATO si coltiva l'ambizione di portare alla disgregazione della federazione russa, l'attuale raggruppamento di Stati fautori di un nuovo “multipolarismo” non può perseguire la catastrofe della signoria americana, di cui teme gli effetti dirompenti per i rapporti di classe interni e mondiali. Ciò che persegue è un nuovo assetto del mondo capitalistico che dia loro più spazio e autonomia, e a questo fine si dispone a ogni compromesso che lo riconcili con l'odiato nemico. Quasi lo stesso atteggiamento del fronte che ardì sfidare la supremazia angloamericana nell'ultima guerra mondiale:

Dal canto proprio i regimi dell'Asse impostavano la loro ostentata campagna contro quelle che definirono le "plutocrazie" su un rapporto reale, marxisticamente esatto e pienamente diagnosticato da Lenin nell'Imperialismo, ossia sulla stridente sproporzione tra la densità delle popolazioni metropolitane e l'estensione degli imperi coloniali, per cui Germania, Giappone e Italia presentavano condizioni sociali antinomiche a quelle di Francia, Inghilterra, America e anche Russia: ma rivelarono sia nella condotta di guerra che nello stesso contro-imbonimento propagandistico la loro soggezione di classe ed il loro timore reverenziale per il principio del capitalismo plutocratico e per le sue potenti cittadelle mondiali di Inghilterra e di America, che avevano attraversato gli ultimi convulsi 150 anni di storia senza fratture, nella storica continuità dei possenti apparati statali. Il nazismo volle ricattare gli agglomerati statali nemici, perché scegliessero tra il disastro militare e la concessione all'odiato concorrente imperialista di una adeguata quota dello spazio sfruttabile del pianeta” (Il corso storico, cit. – Nostro grassetto).

Allo stesso modo, Putin il terribile, che in passato ha sempre operato per il coinvolgimento della federazione russa nel consesso dei grandi d'Occidente e coltivato un rapporto privilegiato con le vecchie potenze europee, ha assunto la fatale decisione di mandare le proprie truppe in Ucraina solo quando l'arrogante avanzamento della NATO in est Europa aveva superato tutte le linee rosse, con grave pregiudizio della sicurezza dello Stato russo. Né ha inteso iniziare una vera e propria guerra, ma un'”operazione militare speciale”, con relativo limitato dispiegamento di forze e di obiettivi, che non avrebbe dovuto o voluto coinvolgere la NATO stessa. Solo a fine anno 2022 si è dovuto rassegnare a pronunciare la dura parola guerra per definire quanto accadeva in Ucraina. Queste esitazioni mettono in piena luce la soggezione di classe della dirigenza russa, a scapito di tutti i pronunciamenti guerrasantisti di Vladimir e colleghi, per quanto assai più pregni di spessore storico e politico delle bolse prediche dei bonzi del grumo atlantista. Un tal genere di “proclamatori della libertà dei popoli e delle nazioni”, che oggi vorrebbero prospettare alle masse dei loro paesi una guerra santa contro il colosso atlantico, è pronto a disperderne le speranze di riscatto in cambio di un qualsivoglia compromesso che garantisca una nuova stabilità dell'ordine capitalistico e del dominio borghese. Facile previsione è che, se le vicende belliche volgessero a loro favore, essi fermerebbero il loro slancio ben prima della soglia oltre la quale il vacillante dominio americano si tradurrebbe in catastrofe interna e potrebbe aprire così vaste possibilità all'azione indipendente del proletariato. In un altro nostro testo, la questione è posta come centrale rispetto alle possibilità di ripresa del movimento rivoluzionario di classe:

Tesi 7. Non esaurisce il problema storico che ogni valutazione crociatista della guerra, come conflitto di ‘ideologie’ tra democrazia e fascismo, era tanto deteriore come quella del 1914, a motivi di libertà, civiltà e nazionalità. Tali scopi di propaganda coprono da entrambi i lati lo scopo di conquista di mercati e di potenza economica e politica; ciò è giusto, ma non basta. La fine del capitalismo non avverrà che come una serie di esplosioni dei sistemi unitari che sono gli Stati territoriali di classe: questo è il processo da individuare e, potendolo, da affrettare: dal tempo delle guerre imperialiste è escluso che lo si affretti con una solidarietà proletaria politica e militare. Ma non è meno importante decifrarlo, e adeguarvi la strategia della Internazionale dei partiti rivoluzionari. A tale linea di principio, la politica russa ha sostituito la cinica manovra statale di un nuovo sistema di potere, e ciò dimostra che esso fa parte della costellazione mondiale capitalistica. Di qui il movimento della classe proletaria dovrà duramente risalire. E la prima tappa è: intendere.” (da “Raddrizzare le gambe ai cani”, in Battaglia comunista, n.11, 1952 – Nostro grassetto).

A questo proposito, va richiamato e chiarito dialetticamente il presunto “scandalo” dell'auspicata vittoria dell'Asse di un Bordiga costretto all'isolamento mentre la guerra era in corso. Ecco come un articolo del quotidiano Avvenire riporta il suo giudizio sulla scarsa determinazione di Hitler nel condurre la battaglia d'Inghilterra:

“Il 10 giugno (data della dichiarazione di guerra di Mussolini) fu dunque per me quello che si dice un gran giorno. Ora però che Hitler si è ammosciato incomincio a perdere la fiducia che avevo riposto nell’Asse per lo strozzamento e l’abbattimento del così detto colosso inglese, cioè per il maggior esponente del capitalismo. Hanno paura di far crollare l’Inghilterra, hanno paura perché sanno che con essa crollerà tutto il sistema capitalista. […] Spero ancora che Hitler non rinunzierà alla lotta, e andrà  fino in fondo, sino alle estreme conseguenze” (5) .

Possiamo anche dubitare che queste parole gli siano attribuibili “alla lettera” (cfr. la nota 5). Ma non v'è dubbio che il loro senso corrisponda pienamente alle valutazioni nostre sul secondo conflitto e sulle prospettive nefaste aperte – e confermate dalla storia – dalla vittoria degli angloamericani. Si riconosce a Germania Italia Giappone il merito di aver tentato di scardinare la supremazia anglosassone, nella speranza di aprire così nuove possibilità di ripresa del movimento proletario internazionale. Sotto questo profilo, il patto Ribentropp-Molotov risultava meno scandaloso dell'abbraccio mortale di Stalin con le democrazie imperialiste d'Occidente, al quale non solo per lungo tempo le prospettive rivoluzionarie, ma la stessa Russia, non sarebbero sopravvissute. Nel nostro testo già citato sopra, si stabilisce che, da parte della Russia,

“... in entrambe le fasi sono abbandonate le direttive rivoluzionarie, ma [...] col secondo movimento lo Stato russo, mentre ha guadagnato forze e risorse per il suo avanzare capitalistico interno, ha contribuito alla soluzione conservatrice della guerra, evitando con un enorme apporto di forza militare una catastrofe almeno del centro statale di Londra per l'ennesima volta indenne dalla bufera bellica. Tale catastrofe era una condizione estremamente favorevole per un crollo degli altri Stati borghesi, cominciando da Berlino, per un incendio dell'Europa” (“Raddrizzare le gambe ai cani”, cit.).

Fino all'Operazione Barbarossa, gli stessi stalinisti avevano sostenuto il valore “rivoluzionario” di quel patto contro il “tradizionale sistema capitalista rappresentato da Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia”, e adottato una politica di vero e proprio spalleggiamento dei regimi fascisti (6). La tendenza a operare improvvise “svolte” è un'invariante dell'opportunismo, come invariante è il terrore della rivoluzione che sovrasta le inimicizie più aspre tra contendenti imperialisti, e alimenta il dubbio se l'imperialismo debole russo di oggi, al di là delle parole di sfida pronunciate di fronte al mondo da Putin, quasi a ergersi a guida della crociata dei popoli contro lo strapotere atlantico, abbia poi le palle per scavare la fossa al nemico d'Occidente. In questo senso, lontanissimo da quello della propaganda atlantista, anche noi possiamo azzardare il parallelo Putin-Hitler, con il necessario distinguo che, se Hitler, invece di concentrarsi sul colpo di grazia alla “perfida Albione”, si lanciò nella sciagurata invasione dei territori sovietici (con ciò credendo di ingraziarsi i nemici angloamericani e sedersi con loro al tavolo della spartizione), Putin non ha modo di rendere servizio agli stessi se non calando le brache. Questa sorta di “messa al muro” è anche il gran punto debole della strategia atlantica e forse la chiave di tutta la vicenda.

Il piano dell'Occidente capitalistico messo in atto in Ucraina, il cui significato strategico si inquadra nella “dottrina Wolfovitz”, risalente al 1992, è chiaramente espresso in un passo di un'intervista a Carl Bildt, personaggio che a pieno diritto esprime il punto di vista delle élites politiche d'Occidente:

“La sola prospettiva di soluzione del conflitto è la sconfitta militare e politica della Russia, ottenuta grazie alla resistenza ucraina, all’effetto delle sanzioni, e soprattutto alla crescita del dissenso interno alla classe dirigente russa, che risulterà in una rimozione del Presidente Putin e in una nuova configurazione della politica russa, più favorevole all’Occidente e più aderente alle caratteristiche politiche e socio-economiche da esso predilette; ciò che andrebbe a beneficio della stessa Russia, che conoscerebbe così un migliore sviluppo economico nella libertà. (7)

Il problema di un simile piano è di non avere alternativa al successo totale, alla sconfitta e all'assoggettamento della Russia. Che succede se non funziona? Insomma, il “piano” c'è, ma la sua ottusità riflette la profondità della crisi del capitalismo finora dominante e del suo codazzo di gregari, tutti aggrappati alla certezza di detenere una superiorità in aeternum. Ne nasce il sospetto che l'occidente imperialista si sia cacciato in un vortice dal quale sarà sempre più difficile uscire. L'escalation dell'invio di armi, col kit completo del personale tecnico per farle funzionare, è segno di una mancanza di strategia, perché quelle armi non determineranno alcuna svolta alla guerra. Gli esiti possibili sono il coinvolgimento diretto della NATO (pura follia) o l'abbandono della presa sulla Russia, e ciò vorrebbe dire una completa disfatta di quanto resta della credibilità di Stati Uniti nel vassallaggio delle potenze europee. La terza eventualità è una lunga guerra di logoramento che metterà in ginocchio, oltre la già devastata Ucraina, la stessa “Europa”.

Fatto si è che l'intervento russo in Ucraina ha portato alla luce una grande novità nello scenario mondiale: non è solo la Russia, ma gran parte del mondo che, rifiutandosi di condannare l'azione militare russa, sceglie di non piegarsi ai diktat della potenza atlantica. Tale inedito atteggiamento non risponde certo alla libera volontà di quelle classi dirigenti, della cui vocazione servile si possono elencare infinite riprove, ma a un reale mutamento nei rapporti di forza che obbligano gli Stati Uniti a una postura offensiva per tentare di contrastare il principale contendente, la Cina, nella sua inarrestabile avanzata in economia, tecnologia, forza militare e, conseguentemente, influenza politica interazionale. Dopo decenni di interventismo americano, guerre devastanti, destabilizzazione di Stati, cambi di regime, uso spregiudicato del terrorismo e chissà quante delizie che al comune mortale non è concesso conoscere (chi ha temerariamente infranto il tabù, come l'eroico Assange, sta pagando un prezzo altissimo), ora incombe la situazione che la dottrina Wolfovitz intendeva scongiurare: l'emergere di potenze in grado di contrastare la signoria americana sul mondo capitalistico. Ciò a conferma che nessun piano o strategia, per quanto ben congegnato, può alla lunga contrastare l'azione dei processi materiali legati allo sviluppo capitalistico e alle sue contraddizioni.

La guerra, che unitamente alle sanzioni occidentali avrebbe dovuto portare in tempi brevi all'annientamento dello Stato russo e della sua economia, ha invece catalizzato una serie di reazioni, quali il parziale abbandono di molti Paesi dell'utilizzo del dollaro negli scambi internazionali e l'adozione di monete nazionali e di sistemi di pagamento alternativi allo Swift controllato dall'Occidente, il calo del finanziamento internazionale del colossale debito americano, lo “sganciamento” di tradizionali alleati quali Turchia e Arabia Saudita, e perfino di alcuni Stati del “cortile di casa” del Sudamerica. Si tratta di conseguenze potenzialmente devastanti che potrebbero far tremare dalle fondamenta l'assetto del centro imperialista dominante e tutto il campo di alleanze che vi gravita attorno, nonché tutta la smisurata impalcatura finanziaria che ne rappresenta la potenza economica. In breve, a essere in crisi è la presa che il colosso atlantico esercita ancora sul mondo. Pur con la dovuta premessa che i giochi non sono fatti, e che è sempre possibile un potente colpo di coda che posticipi il disfacimento cui è condannato qualunque “incrollabile” impero, la novità del momento è la possibilità reale che questo crollo avvenga, e ciò indipendentemente dalla volontà e dalla determinazione delle classi dirigenti del fronte multipolare in via di formazione. Siamo pertanto in presenza di uno di quegli svolti da cui dipende la possibilità reale che, nelle nuove condizioni, prenda avvio una nuova epoca in cui il proletariato e quindi i comunisti possano ritornare ad essere protagonisti della storia. Gli Stati Uniti hanno necessità vitale di muovere guerra contro tutti gli ostacoli che si frappongono alla loro riaffermazione come potenza egemone, passando di necessità attraverso un ulteriore rafforzamento della presa su uno spazio vitale che già abbraccia l'intero mondo. Ma ciò li espone al rischio di una accelerazione dei tempi della loro caduta.

Per noi, l'auspicio del crollo della signoria americana non coincide con un pur comprensibile sentimento anti-americano o da una istintiva simpatia per i popoli dominati, che potrebbe far da sostrato a una sorta di “crociatismo degli oppressi”. Per quanto il concentramento di potenza atlantico sia stato e sia responsabile di crimini orrendi, noi attribuiamo la perversione morale dei suoi strumenti umani alla pressione di potenti forze materiali che agiscono seguendo le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico. Noi ci affidiamo al proletariato internazionale e agli esiti dello scontro tra le classi, affermiamo la centralità di questo scontro nel processo rivoluzionario e neghiamo che

“alla guerra tra le classi si surroghi l'urto militare degli stati e degli eserciti. Il fatto determinante dello sviluppo sociale resta la lotta tra le classi, accesa ovunque in tempi successivi, e senza di questo non potremmo spiegarci lo svolgersi stesso delle guerre, col nuovo carattere generale e di massa del militarismo moderno (“Guerra e rivoluzione”, 1950, ripubblicato in Quaderni del Programma Comunista, n.3, giugno 1978).

Ugualmente consideriamo la guerra funzionale alla conservazione del capitalismo in nuovi assetti, senza che sia possibile farvi particolare affidamento come portatrice di soluzioni alle contraddizioni del capitalismo, se non nei limiti di un temporaneo nuovo equilibrio di forze che dovrebbe consentire una ripresa dell'accumulazione su nuove basi.

Tuttavia, ribadita la lotta di classe come fattore storico decisivo, storia e teoria ci ricordano che tra guerra e dinamiche di classe vi è una stretta correlazione, che il ricorso alla guerra generale è un atto a cui il Capitale è spinto da forze materiali, dall'evoluzione dei rapporti tra le classi, dalla necessità di una risposta complessiva alla crisi generale dei meccanismi di accumulazione e riproduzione, e come tale apre tanto alla possibilità di una soluzione quanto di una disfatta. In ogni caso, anche per il Capitale la guerra è un salto nel buio, mette a rischio di esplosione quei “sistemi unitari che sono gli Stati territoriali di classe”

Sono i campi di forza dei grandi potenziali imperiali che determinano tali mutamenti [nei rapporti sociali tra le classi, ndr], non contrasti sociali e politici locali, e ciò poiché quei potenziali derivano da tutto il complesso delle forze produttive e sociali nel mondo, dall'interesse della classe capitalistica e dalle violente reazioni che le contraddizioni economiche sollevano contro di lei” (“Il proletariato e Trieste”, in Battaglia comunista, n.8/1950).

La situazione creata dalla guerra, dallo scontro tra grandi potenziali imperiali, produce quei mutamenti nei rapporti tra le classi che, rompendo consolidati equilibri, spingono nuovamente all'azione forze anche da lungo tempo sopite. Dalla guerra, dai suoi sviluppi e dai suoi esiti, ci si attende l'aprirsi di una crisi dei fronti interni, cui affidare le prospettive di un rilancio della battaglia rivoluzionaria del proletariato. I vantaggi derivanti da una posizione imperialista si riflettono sulla condizione proletaria, creano una comunanza oggettiva di interessi tra proletari e borghesi a scapito delle nazioni dominate, nutrono le aristocrazie operaie, alimentano l'opportunismo, fondano i presupposti generali di un relativo benessere che fa da legante dell'intero corpo sociale. Il 7 ottobre 1858, Engels scriveva a Marx, rilevando

l'effettivo, progressivo imborghesimento del proletariato inglese, di modo che questa nazione, che è la più borghese di tutte, sembra voglia portare le cose al punto da avere un'aristocrazia borghese e un proletariato accanto alla borghesia. In una nazione che sfrutta il mondo intero, ciò è in certo qual modo spiegabile (citato da Lenin, L'imperialismo, Editori Riuniti, 1974, p.147).

Ciò che valeva allora per l'imperiale Inghilterra vale a maggior ragione per l'imperiale America di oggi, beneficiaria di ultima istanza del flusso mondiale di capitali e garante dell'assetto capitalistico dell'intero globo. Il crollo dell'imperialismo americano, anche solo come sostanziale ridimensionamento del suo ruolo dominante e dell'enorme rendita che ne deriva, minerebbe i pilastri alla base del precario equilibrio tra proletariato e borghesia nel cuore dell'imperialismo egemone.

Altrettanto fragili appaiono gli equilibri sociali nella vecchia Europa. Lo testimoniano i movimenti di protesta in Francia e i recenti scioperi in Inghilterra e nella stessa Francia. I costi del forzato decoupling energetico, e più in generale economico e politico, con la Russia, sono destinati nel breve periodo a gravare sulla condizione delle grandi masse d'Europa e a fornire combustibile per un incendio generalizzato. È prevedibile che uno dei contraccolpi della violenta aggressione all'Europa, coinvolta volente o nolente in una guerra suicida, sarà la crescita di movimenti sempre più connotati in senso anti-americano e, con l'aggravarsi delle difficoltà in cui versano strati sempre più estesi della popolazione e alla crescente proletarizzazione dei ceti medi, sempre più di segno apertamente classista.

Il giudizio sullo scontro tra concentramenti di potenza di assai diverso spessore si fonda dunque sulla stretta relazione in virtù della quale la guerra scaturisce dalle condizioni della società di classe e retroagisce con i suoi effetti su quelle stesse condizioni. Di qui l'auspicio. Il che non esclude affatto l'eventualità che un successo dell'imperialismo dominante si ritorca sull'intero assetto del capitalismo mondiale in conseguenza di una risposta proletaria nel Paese sconfitto, e del riaccendersi della fiamma della rivoluzione mondiale in una nuova Comune, a Mosca o altrove. Le vie della Rivoluzione non saranno infinite come quelle che si attribuiscono al Signore, ma non si riducono a una sola opzione, e tra le storicamente possibili quella che sembra avere attualmente le condizioni più favorevoli per realizzarsi passa per il crollo dell'imperialismo americano (8). Poco male se la via si rivelerà diversa, purché la Storia finalmente la imbocchi.

 

NOTE

1- https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/24235-raffaele-sciortino-stati-uniti-e-cina-allo-scontro-globale.html. Si tratta della presentazione di un recente libro sullo scontro Stati Uniti-Cina. La citazione è tratta dalla Premessa del 1953 al nostro Dialogato con Stalin. (https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/pre_dialostalin.htm)

2- Il testo, pubblicato nel 1947 sul n.6 della rivista Prometeo, fu redatto quando sul territorio italiano era ancora in corso la guerra contro la Germania.

3- In Per l'organica sistemazione dei principi comunisti, edizioni il programma comunista, 1973, pp. 82-92. Le successive citazioni, salvo diversa indicazione, vanno riferite allo stesso testo.

4- Dimitri Orlov, L'ultima crociata. https://www-dedefensa-org.translate.goog/article/la-derniere-croisade?_x_tr_sl=fr&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc.

5- R. Festorazzi, “Bordiga, il leninista che sperava nell'Asse”, L'Avvenire, 9 agosto 2016, reperibile su Internet. Nell'articolo, si precisa che la sorprendente esternazione fu riferita alla polizia da un informatore ai tempi del soggiorno di Amadeo e famiglia in quel di Formia. Il contesto in cui sarebbero state pronunciate lascia molti dubbi sulla loro autenticità e, anche ammettendola, quantomeno sulle motivazioni. Amadeo potrebbe aver inteso tenere alla larga la polizia fascista rimarcando la sua distanza politica da Stalin, e comunque, trattandosi di una conversazione privata riferita da terzi, non può essere attribuita tout court a Bordiga.

6- Peregalli-Saggioro, Amadeo Bordiga, Gli anni oscuri (1926-1945), Quaderni Pietro Tresso n.3, 1997, Edizioni Bi-Elle Firenze, p. 43 (nota 181) e 44.

7- https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24507-roberto-buffagni-john-mearsheimer-e-carl-bildt-sulle-prospettive-della-guerra-in-ucraina.html

8- Il n.11/2022 di Limes è dedicato quasi interamente ai vari aspetti della crisi americana, di cui si analizzano i numerosi fattori di divisione interna. Cfr. anche il n.4/2023 della medesima rivista, intitolato “Il bluff globale”.

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