DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

In tutto il mondo, la classe proletaria subisce ancora gli effetti tremendi di una sconfitta quasi secolare. Le sue battaglie (che indubbiamente ci sono, a dimostrazione del fatto che la lotta di classe è connaturata al modo di produzione capitalista) sono sparse, isolate, non ancora in grado di rappresentare quel punto di forza necessario a un vero coagularsi organizzativo. Questa è la realtà attuale, e non può essere abbellita da illusioni pericolose o da tracotanti mistificazioni. D’altra parte, come abbiamo sempre ripetuto, sappiamo che, sotto la multiforme pressione della crisi del modo di produzione capitalistico, questa condizione è destinata a mutare: attraverso strappi improvvisi, arretramenti, faticose riprese. Nulla di lineare, di meccanico, di automatico: proprio per questo, la necessità del partito rivoluzionario e della rinascita di organismi classisti di lotta economica si fa sentire con sempre maggior forza e urgenza.

Così, il risorgere di tali organismi, che siano davvero estesi e radicati nella classe, sarà il passaggio, faticoso ma obbligato, verso un necessario “fronte unito dal basso”: ma né quelli (gli organismi) né questo (il “fronte”) potranno mai essere il frutto di una “volontà”, generosa sì, ma “esterna” alla reale condizione proletaria. Bisogna invece lavorare dentro questa condizione, per raccogliere e indirizzare le esperienze che sicuramente si moltiplicheranno, senza gravarle di compiti che non sono loro, ma con l’obiettivo di estenderle e rafforzarle. Persiste invece, in un'area anarco-sindacalista, operaista e spontaneista, o più genericamente anti-partito, il “mito” degli Industrial Workers of the World (IWW, meglio noti come wobblies).

Gli IWW furono (o, per meglio dire, sono, perché esistono ancora) [1] una battagliera organizzazione proletaria, nata a Chicago nel 1905 su iniziativa di alcuni militanti operai e socialisti da tempo attivi sul fronte di classe e ampiamente riconosciuti come avanguardie dal composito proletariato statunitense. Protagonisti di alcuni dei conflitti più duri ed estesi di quegli anni, gli IWW avevano un programma che mescolava elementi politici e strategie di lotta sindacale, in aperto scontro con il sindacalismo ufficiale rappresentato dalla reazionaria e corrotta American Federation of Labor che escludeva dalle proprie file i più ampi settori di proletari neri, immigrati recenti, donne lavoratrici, disoccupati.

Condussero battaglie che non è esagerato definire eroiche, soprattutto negli Stati dell'Ovest, fra i lavoratori stagionali e migranti, contro la repressione, contro il militarismo e l'ingresso degli USA nella Prima guerra mondiale, e furono alla testa di due celebri scioperi nell’industria tessile all’Est – quello di Lawrence (1912) e quello di Paterson (1913), il primo vittorioso, il secondo sconfitto brutalmente.

La violenta repressione anti-proletaria che si scatenò all'epoca dell'entrata in guerra e negli anni immediatamente successivi, con processi e condanne, oltre che con il ricorso alla più feroce violenza nei confronti dei militanti wobbly (l’autentico fascismo democratico!), indebolì gravemente l'organizzazione, che non ebbe modo di risollevarsi nemmeno negli anni della Grande Depressione. L'invito rivolto agli IWW dall'Internazionale Comunista a partecipare ai lavori del II Congresso (1920) e l'equivoca decisione (da noi già allora criticata) di considerarli “organizzazione simpatizzante” coglieva dunque l'organizzazione in una fase di declino.

L'eredità che gli IWW lasciarono al movimento proletario internazionale fu dunque quella di battaglie combattute in difesa dei settori più marginalizzati, con i metodi di un’aperta lotta di classe che sfociò in parecchi casi in episodi di quasi guerra civile. E fu accompagnata da un'ampia mobilitazione che ricorse abilmente a tutti gli strumenti di propaganda possibili all'epoca: giornali, fogli volanti, canzoni di lotta, fumetti e disegni, comizi improvvisati, ecc., oltre a valide strutture di difesa dei proletari imprigionati. Ed è, quell'eredità, un importante bagaglio di esperienze cui fare riferimento.

Detto questo, però, non si può dimenticare che gli IWW o wobblies non comparvero dal nulla e tanto meno la loro nascita fu un'operazione condotta a tavolino. I loro animatori erano, come s'è detto, avanguardie riconosciute da tempo sul fronte di classe. Erano l’espressione di una quarantina d'anni di battaglie post-Guerra Civile (1861-65), con la faticosa (e non sempre efficace) ricerca e costituzione di organismi operai, in una fase di sistemazione nazionale che rendeva la condizione proletaria fluida (la “frontiera” rappresentava ancora una valvola di sfogo alla concentrazione operaia, il mercato del lavoro si modificava di continuo con l’inserimento degli ex-schiavi neri, una vena di razzismo correva anche nei primi tentativi di organizzazione sindacale...) e continuamente rimescolata dall'afflusso di grandi contingenti immigrati dall'Europa e dall'Asia.

A loro volta, questi organismi nascenti (la National Labor Union, i Cavalieri del Lavoro, l'American Railway Union, la Western Federation of Miners), erano il portato di un acutissimo scontro di classe: le lotte dei Molly Maguires nelle regioni minerarie della Pennsylvania, gli scioperi diffusi del 1877 culminanti nella cosiddetta “comune di St. Louis”, i conflitti del 1886 intorno alla rivendicazione delle “otto ore” culminanti nei “fatti di Haymarket” a Chicago (da cui l'istituzione del Primo Maggio), il decennio di fine secolo con gli scioperi nelle ferrovie, nelle acciaierie, dei minatori e dei taglialegna dell'Ovest...

Furono insomma, i wobblies, lo sbocco in qualche modo inevitabile di un conflitto sociale esteso, profondo e acuto che, influenzato tanto dall’anarchismo velleitario e “di frontiera” quanto dal fragile e confuso socialismo di fine ‘800 (il Socialist Labor Party e poi il Socialist Party of America), cercò di opporsi agli effetti della definitiva formazione nazionale e delle velocissime trasformazioni in senso sempre più accentratore della giovane economia capitalistica, sviluppatasi in anni convulsi e destinata, con la Prima guerra mondiale, ad affermarsi sulla scena internazionale, prendendo decisamente il posto del “vecchio” capitalismo inglese.

Di quell’esperienza, che alla pratica di lotta sul piano economico e rivendicativo mescolava elementi politici confusi e velleitari (“creare la società nuova nel guscio della vecchia”, offrendo anche un “piano” di riorganizzazione sociale di tale “ordine nuovo”, basato essenzialmente su una visione aziendalista, incentrata sul luogo di lavoro nelle forme “ereditate” dal captalismo), si passa oggi a esaltare in maniera romantica soprattutto gli elementi più “ideologici”: l’organismo di base che si fa carico anche di un discorso politico (ma apertamente “anti-partito”), la “cultura wobbly”, la spontaneità dell’organizzazione dal basso, e così via. Soprattutto, si pensa di poter rinnovare a tavolino quel tipo di organizzazione, senza ricordarsi che essa fu il risultato di tutto un complesso percorso di esperienze di lotta.

Noi sappiamo che rinasceranno autentici organismi di lotta classista (è lo stesso corso del capitalismo a imporlo!), e allora anche l’eredità dei wobblies, nei suoi aspetti positivi come in quelli negativi, potrà costituire un reale insegnamento. Ma certo non il suo “mito” romantico [2]. Soprattutto, le potenzialità rivoluzionarie di quegli organismi potranno non andare sprecate alla sola condizione dell’esistenza e dell’azione (in essi e intorno a essi) di un solido partito rivoluzionario che si ponga l’obiettivo della presa del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato.

[1] Con qualcosa come 8000 iscritti, l’organizzazione è presente in diverse località degli Stati Uniti, dove ha organizzato lavoratori e lavoratrici della catena Starbucks e di altre realtà dove dominano il lavoro precario e lo sfruttamento intensivo. Sezioni sono poi presenti in Canada, in Australia, in Gran Bretagna e, di recente, anche in Italia. Ricordiamo che agli IWW abbiamo dedicato il lungo articolo “Chicago, 1905: La nascita degli Industrial Workers of the World”, sul n.2/2005 di questo stesso giornale.

[2] Tanto per rimanere in argomento, nemmeno potrà costituire un reale insegnamento l’altro mito corrente: quello del “sindacato di classe”!

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