DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.


     Introduzione

I. Filosofia soprannaturale di un biologo molecolare
      I.1. Cosa dice la biologia molecolare
      I.2. Creazione soprannaturale della cellula ideologica
      I.3. Creazione soprannaturale degli organismi ideologici
      I.4. La metafisica dell’evoluzione
      I.5. Caso, Necessità, Probabilità
      I.6. Engels e il 2° principio della termodinamica
      I.7. La Cittadella Scientifica Universale

II. I criteri distintivi umani e il ruolo avuto dal lavoro
              nel processo di trasformazione della scimmia in uomo
      II.1. La nozione di antropomorfismo è legata a quella di tecnicità
      II.2. La corteccia media e la sua evoluzione
      II.3. L’evoluzione tecnica degli Antropiani


      
Conclusione

 
 
 
Introduzione

Accade alle ideologie, come a tutte le produzioni umane, di percorrere nel loro ciclo la parabola: nascita, sviluppo, senescenza.

Vi fu un tempo in cui la coscienza teorica poté illudersi di essersi affrancata dai limiti ad essa imposti dalla Storia. La filosofia aveva perso il suo grigiore perché in tutte le sue manifestazioni la vita rifioriva: la borghesia rivoluzionaria, giacobina in politica e materialista nelle idee, poteva allora attribuire un significato universale e permanente alla sua ideologia di classe storicamente effimera. Felice epoca quella in cui una classe inebriata dai suoi successi teorici, politici e militari poteva fantasticare di essere sfuggita alle maglie di ferro del proprio tempo! La Ragione aveva fatto giustizia dei pregiudizi oscurantisti della scolastica medievale e delle favole del pretume di campagna; la rivoluzione democratica aveva spazzato via le illusioni religiose e i fantasmi della vecchia demonologia insieme alle barriere feudali, ai tributi e alle corporazioni, sgombrando il campo allo sviluppo della scienza, della manifattura e della grande industria, della libera concorrenza e della democrazia. Si apriva un’era di progresso generale, scolpita sui frontoni del nuovo ordine sociale, e simbolizzata dalla fiera insegna repubblicana sigillante la nuova arca dell’alleanza.

Ma, ahimè, il risveglio fu brusco e repentino! La Storia si incaricò di riportare alla ragione questa borghesia che, nel suo esuberante trionfalismo, aveva scambiato i propri pregiudizi di classe per principi atemporali; in realtà, la sua vittoria era offuscata dalla comparsa di un’altra classe, che proiettava su di essa la sua ombra, e che era destinata ad essere la sua antagonista e la sua affossatrice. Per scongiurare i nuovi pericoli che per i suoi limiti di classe si portava dietro fin dalla nascita, la borghesia si mise anch’essa a fantasticare e, per meglio esorcizzare le sue paure, si rifugiò nelle superstizioni del passato.

Nella sua fase rivoluzionaria, la sua filosofia della natura era fondata su basi materialiste e deterministe. Già dal XVII secolo, l’inglese Locke aveva mostrato che le idee nascono dai nostri contatti col mondo esterno, mentre Toland riprendeva la vecchia tesi di Democrito. In Francia, la Mettrie batteva la strada aperta dal materialista Gassendi e definiva l’uomo una macchina perfezionata, senza bisogno di tirare in ballo alcuna forza trascendente (anima, spirito o coscienza), dal momento che giudicava «il pensiero tanto poco incompatibile con la materia organizzata che sembrava esserne una proprietà». Questa corrente sfociò nei sistemi di Helvetius e di d’Holbach che, ripudiando i surrogati religiosi dell’innatismo, dimostrarono che la conoscenza è il risultato dei nostri rapporti col mondo esterno e non ne costituisce che il riflesso sotto forma di idee: alla nascita l’uomo non possiede che la facoltà di sentire, la quale sta alla base dello sviluppo successivo di tutte le sue facoltà intellettuali. Essi misero altresì in evidenza il ruolo giocato dall’educazione e dall’ambiente sulla formazione del carattere e della personalità.

Quanto alla filosofia sociale, la borghesia, al principio divino, garante dell’ordine feudale e della stabilità della divisione in tre stati, sostituì il Principio Democratico, fondato su di una antropologia che voleva leggi uguali per uomini uguali in diritto, e che ben esprimeva il proprio dominio di classe basato sulla libera concorrenza e sul rapporto di compravendita della forza lavoro. Questo principio in realtà mascherava i reali antagonismi che la nascente opposizione del quarto stato con la sua pretesa di formulare rivendicazioni proprie poneva sul tappeto. Nella sua fase rivoluzionaria, la borghesia aveva dunque un’ideologia dualista: materialista in quanto lo sviluppo delle forze produttive implicava il postulato di oggettività inerente alla conoscenza scientifica; idealista in quanto di fronte ad essa si ergeva già una nuova classe rivoluzionaria, il proletariato.

La fine del ciclo delle rivoluzioni democratiche borghesi nell’area europea si accompagna con la stabilizzazione dei rapporti capitalistici di produzione. E mentre nella sua fase antifeudale la borghesia aveva propugnato una concezione del mondo essenzialmente materialista, nel suo attuale periodo di imperialismo reazionario il rapporto si è rovesciato. Posta davanti alla necessità storica della propria sparizione, essa tenta di esorcizzarla negando il determinismo, non solo nelle dottrine sociali, ma fin nella sua concezione della materia e della vita. Resistere al proletariato, questo il suo solo programma, il principio fondamentale di tutta la sua ideologia; conservare il suo potere politico, questo è ormai per essa il problema essenziale. Ecco il segreto del suo formidabile rinculo teorico. Il ciclo dell’ideologia borghese è finalmente chiuso. Al termine della parabola essa si ricollega alle sue origini, al vecchio idealismo comune a tutti gli ordini sociali sempre alla ricerca di una stabilità impossibile e illusoria. Le sue categorie portano i nomi di contingenza, libertà, epistemologia critica, Umanità.... Poveri e derisori testimoni di una classe senza via di scampo, incapace di padroneggiare le forze produttive da essa stessa messe in moto e impotente a comprendere il senso della Storia che globalmente le sfugge di mano!

In questa ottica vanno intesi gli attacchi portati contro il materialismo dialettico da J. Monod, premio Nobel per la medicina, nel suo saggio "Il Caso e la Necessità".

Questo museo degli orrori dello scientismo borghese presenta un duplice interesse. Prima di tutto rivela crudamente la triste situazione in cui versano le scienze della natura (in special modo la biochimica) imbrigliate dalla metafisica che in esse si infiltra da tutti i pori, le decompone e le spinge verso catastrofi teoriche inaudite. La teoria dell’evoluzione può così diventare tranquillamente il regno dell’onnipotente «caso», proprio mentre da tutte le direzioni ci ossessionano con la trasmissione invariante di un preteso «codice»(1) genetico, perché si dimentica la verità elementare: è solo nelle condizioni sperimentali artificiali di laboratorio che le specie esistono in sé, come artefatti, come formule esaustive, come «mostri». Per contro, esse vanno studiate nel loro ambiente naturale, ove non costituiscono che uno dei poli della relazione che le collega al loro biotopo in un continuum dialettico in cui reagiscono reciprocamente, trasformandosi ed evolvendosi. È desolante dover ribadire cose tanto evidenti, che sono alla portata di un bambino di dieci anni, ma diventate misteriose per degli «scienziati» di categorie metafisiche e invischiati nelle insolubili contraddizioni dell’idealismo del loro ambiente sociale.

Il secondo motivo di interesse del saggio è dato dal fatto che esso ci permetterà di riscoprire un testo sempre nuovo, anche se vecchio di un secolo, e che in questa corte dei miracoli idealista sarà per noi un bagno di giovinezza teorica. Esso, affrontando i meccanismi dell’evoluzione umana, dimostra che il lavoro è il fattore materiale della trasformazione e del passaggio dalla «scimmia» all’uomo. Con questo, il patriarca del comunismo rivoluzionario, Federico Engels, si pone ben al di sopra delle «rozze» novità della «scienza» borghese.

Ma prima conviene fare la conoscenza del nostro Don Chisciotte della biologia molecolare e soffermarci sulla critica che egli muove al marxismo, critica che rivelando una grossolana incomprensione – non importa se reale o voluta – si riduce in sostanza a tre accuse.

1 - Aver abbandonato il postulato di oggettività (!) con la pretesa di voler applicare la dialettica ai fenomeni della natura, e finendo così col «proiettare nella natura inanimata la coscienza che l’uomo ha del funzionamento intensamente teleonomico (ossia finalista, n.d.r.) del proprio sistema nervoso centrale». Come si vede, il nostro fanfarone non ha capito che Marx ha una volta per tutte rimesso sui piedi quell’Hegel di cui Monod deride «l’enorme e pesante monumento» con la sufficienza risibile dell’«uomo di scienza» borghese.

Per noi, ineleganti realisti, la conoscenza è dottrina della realtà, di tutti i fenomeni naturali e sociali senza alcuna «aggiunta estranea». Se il nostro metodo è dialettico, questo non deriva per nulla dal fatto che noi cercheremmo, come Monod rinfaccia ad Engels (!), di scoprire nella natura «un progetto ascendente, costruttivo, creatore (allo scopo) di renderla finalmente decifrabile (?) e moralmente significante (?!)», ma deriva dal fatto incontestabile che la legge della materia e della vita è il divenire, che il divenire è nelle cose come nel pensiero: dialettica.

Citiamo qui un testo di partito che non lascia a questo proposito alcun dubbio: «La dialettica per noi in tanto è valida in quanto l’applicazione delle sue regole non viene contraddetta dal controllo sperimentale. Il suo impiego è certamente necessario, poiché dobbiamo pure trattare i risultati di ogni scienza con lo strumento del nostro linguaggio e del nostro ragionamento (sussidiato dal calcolo matematico: anche le scienze matematiche però per noi non si basano su pure proprietà del pensiero, ma su proprietà reali delle cose). La dialettica, cioè, è uno strumento di esposizione e di elaborazione, nonché di polemica e di didattica, essa serve alla difesa contro gli errori ingenerati dai metodi tradizionalisti del ragionamento (corsivo nostro) e per raggiungere il risultato, assai difficile, di non introdurre incoscientemente nello studio delle questioni dati arbitrari basati su preconcetti. Ma la dialettica è a sua volta un riflesso della realtà e non può pretendere per sé stessa di obbligarla o di generarla. La dialettica pura non ci rivelerà mai nulla di per sé stessa, tuttavia ha un enorme vantaggio rispetto al metodo metafisico perché è dinamica, mentre quello è statico... In conclusione la dialettica ci serve, sia (come dice Marx nella prefazione a "Il Capitale") per esporre quanto la ricerca analitica ha assodato, sia per distruggere l’ostacolo delle forme teoretiche tradizionali (c. n.). La dialettica di Marx è la più potente forza di distruzione. I filosofi si affannavano a costruire sistemi. I rivoluzionari dialettici distruggono con la forza le forme consolidate, che vogliono sbarrare la via all’avvenire. La dialettica è l’arma per spezzare le barriere, rotte le quali è rotto l’incanto della eterna immutabilità delle forme del pensiero, che si svelano come incessantemente mutevoli, si plasmano sul mutamento rivoluzionario delle forme(2).

2 - Essersi accanito a ripudiare ogni forma di epistemologia critica di tipo kantiano, e questo da Marx fino a... Zdanov. Pare di sognare! Passiamo sopra a Zdanov, immortale teorico del «realismo socialista» e ad altre simili trovate: non si può pretendere da un biologo piccolo-borghese che capisca la differenza tra uno dei padri del comunismo e un pallido falsificatore o innovatore stalinista al soldo dello Stato popolare panrusso; ma quello che non si può passare sotto silenzio è l’attacco circa il ripudio dell’epistemologia critica.

Da alcuni anni, un nuovo virus ha colpito quell’inverosimile provincia teorica che è la Parigi letteraria: l’epistemologia sta al «pensiero» come la polluzione sta alla vita quotidiana: una moda, una preoccupazione mondana. Si deve al serissimo Althusser questa inopinata infatuazione per una corrente intellettuale che altro non è se non la versione modernizzata di un kantismo mal digerito. Secondo questo ideologo del P.C.F., la «filosofia marxista» dovrebbe mettersi al servizio (com’è cavalleresco!) delle scienze «oggettive» e soprattutto «neutre», ossia librate al di sopra delle classi, allo scopo di difenderle dagli attentati dell’ideologia e quindi favorirne lo sviluppo. Per questo castratore del marxismo, col quale abbiamo regolato i conti a suo tempo(3), il materialismo dialettico diviene la teoria dei modi di produzione... delle conoscenze, un criticismo imbastardito delle scienze borghesi infeudate al capitale. Noi mostriamo, al contrario, che se le scienze non sono altro che ricette miranti al massimo di redditibilità, se il loro sviluppo è incerto, ristagna o addirittura rincula, se intere branche della ricerca non corrispondono ad alcuno dei bisogni reali dell’umanità, se anzi quelle che risponderebbero a questi bisogni non possono svilupparsi, la causa non è tanto «ideologica» quanto sociale, dal momento che la scelta degli oggetti e degli obiettivi della scienza riveste, più ancora delle sue costruzioni, un carattere di classe. Solo la rivoluzione libererà la «scienza», insieme a tutte le altre attività sociali dell’umanità.

3 - Di essere impotente, in ragione dei suoi a priori filosofici, a comprendere qualsiasi teoria scientifica, in questo caso quella... «del genio, come determinante ereditaria (sic!) invariante nel corso delle generazioni e persino delle ibridazioni». Su questo punto ritorneremo più avanti. Per ora ci limitiamo a notare che la citazione sul metodo dialettico riportata più sopra basta a far giustizia di questa accusa, che vale tutt’al più contro lo stalinismo (peccato di gioventù di Monod!) di cui dicevamo nello stesso testo che «legato al conformismo di posizioni costituite, manca delle possibilità di continuare questa lotta (della dialettica contro la metafisica, n.d.r.) anche nel settore scientifico».

Come si vede, il «critico» è assai severo: il materialismo dialettico altro non è ai suoi occhi che un «animismo», un saggio di «sistemazione soggettiva della natura», e come tale un puro coacervo di «confusione», «nonsenso», «assurdità», e così via.. Sembra di sentire Duhring, già zittito da Engels nel secolo scorso. Ma non buttiamoci giù: come insegnava Lenin nella sua polemica d’inizio secolo contro gli empirio-criticisti Mach, Avenarius, Bogdanov e soci: «È impossibile non discernere dietro la scolastica gnoseologica dell’empiriocriticismo la lotta dei partiti in filosofia, lotta che traduce in ultima analisi le tendenze e l’ideologia delle classi nemiche della società contemporanea. La filosofia moderna è altrettanto impregnata dello spirito di partito quanto quella di duemila anni fa».

La citazione calza a pennello al preteso «materialismo meccanicista» di cui Monod tanto mena vanto, ai suoi vani sforzi per mettere a terra la dialettica, nonché alla sua metafisica del caso, che ci tocca ora prendere di petto, continuando contro l'ideologia borghese una secolare lotta di partito.
 
 
 
 

I. Filosofia soprannaturale di un biologo molecolare
 
 

«Oggi che basta interpretare in modo dialettico, cioè secondo il loro nesso, i risultati dello studio della natura..., la filosofia della natura è morta per sempre. Ogni tentativo di resuscitarla non sarebbe solo superfluo, sarebbe un regresso».

Questo celebre giudizio di Engels tratto dal suo "Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca" trova clamorosa conferma ne "Il Caso e la Necessità", opera militante borghese che, con la pretesa di rifiutare il materialismo dialettico è semplicemente scivolata sotto il livello della stessa scienza borghese.

Spogliati dall’involucro ideologico nel quale Monod li racchiude e li dissimula, i risultati in questione, ottenuti grazie all’uso di microscopi elettronici «capaci di ingrandimenti fino a 500 mila volte e di svelare strutture ultramicroscopiche della grandezza di 1 millimicron» (il micron è un millesimo di millimetro), possono così riassumersi:

«1) a dispetto delle sue dimensioni infinitesime, la cellula mostra una straordinaria complessità che supera di gran lunga quella dei calcolatori più moderni e 2) l’organizzazione cellulare è caratterizzata dal dualismo acidi nucleici-proteine, dualismo che corrisponde approssimativamente (corsivo nostro) alla coppia nucleo-citoplasma»(4).

Se, come diceva Lenin, «la giustezza della dialettica dev’essere verificata dalla storia delle scienze», il nostro materialismo dialettico nulla ha da temere dai microscopi elettronici. Non si potrebbe avere conferma più clamorosa della geniale anticipazione di Eraclito che lo stesso Lenin così formulava: «Lo sdoppiamento dell’uno e la conoscenza delle sue parti contraddittorie è l'essenza (una delle essenzialità, una delle note caratteristiche o peculiarità fondamentali, se non la fondamentale, della dialettica»(5).

Per costruire la sua «filosofia naturale», Monod usa tre procedimenti: in primo luogo, egli forza il significato oggettivo dei fatti osservati nel suo settore particolare; in secondo luogo, egli pretende di spiegare tutti i fenomeni complessi dell’evoluzione sulla base dei soli «principi» della biologia molecolare che, va sottolineato, non sono soltanto fatti parziali stabiliti in un campo particolare di quel vasto insieme che è la scienza biologica, ma sono fatti snaturati dall’ideologia; in terzo luogo, sostituendo la metafisica pre-hegeliana alla dialettica razionale, egli, dalla banale constatazione empirica che accanto a fenomeni regolari spiegati dalla scienza esistono fatti fortuiti (o semplicemente nuovi) assai più difficili da spiegare, trae la conclusione idealistica che è il Caso a reggere l’intero Universo, in cui lo spirito dell’uomo introduce arbitrariamente un ordine e una necessità, nonché la conclusione nichilista che, a guardare le cose da vicino, tutta la biosfera e il suo risultato ultimo, l’uomo pensante, avrebbero anche potuto non esistere! Detto fatto, il Professore, neanche fosse Dio, abolisce con la sola forza del pensiero se non proprio l’Universo, almeno la storia reale degli ultimi tre miliardi di anni che, a partire dai primi organismi monocellulari, molto più semplici ancora dei batteri del suo laboratorio, ha condotto all’«uomo sapiente», cioè a un mondo nuovo, quello della società. In questo perfetto pedante la società borghese riconosce una delle sue vette intellettuali!
 
 

I.1. Cosa dice la biologia molecolare
 

«Il nucleo, grazie ai geni dei suoi cromosomi, dirige le sintesi specifiche e l’ereditarietà; il citoplasma, con le sue proteine di struttura e le sue proteine-enzimi, è la sede delle attività funzionali e di sintesi. Il citoplasma riceve gli ordini dal nucleo, ed entrambi formano una coppia indissolubile pena la morte»(6).

Dunque, coppia dialettica indissolubile di due «contrari» definiti da funzioni differenti: il nostro materialismo non ha alcuna critica da muovere.

 Proseguiamo: «Come si compie la trasmissione degli ordini per quel che concerne l’elaborazione delle proteine?... Si tratta di fatto di una trasmissione codificata che è registrata da un elemento fisso su un elemento mobile che va a fissarsi nel punto in cui devono attuarsi gli ordini; questi elementi sono delle macro-molecole di acidi nucleici e sono di due specie: il DNA che interessa i geni del nucleo e l’RNA che si trova più comunemente nel citoplasma».

Criticando la mania degli scienziati di identificare il movimento («che è modificazione in generale») col cambiamento di luogo, cioè col movimento meccanico, Engels notava: «Con ciò non si intende dire che ogni forma superiore di movimento non possa sempre essere connessa necessariamente con un effettivo movimento meccanico (esterno o molecolare); proprio così come le forme superiori di movimento ne producono contemporaneamente anche delle altre: non è possibile... vita organica senza modificazioni meccaniche, molecolari, chimiche, termiche, elettriche ecc. Ma la presenza di queste forme collaterali non esaurisce l’essenza della forma principale in questione. Noi ridurremo certamente un giorno il pensiero, sperimentalmente, a movimenti molecolari e chimici nel cervello; ma sarà con ciò esaurita l’essenza del pensiero? ("Dialettica della natura", Movimento meccanico).

Il movimento meccanico di cui si parla qui sopra, anche se non necessariamente inadeguato, non può comunque «esaurire» la cito-fisiologia che, a detta dei biologi, pone «problemi estremamente difficili»: quanto a Monod, sarà meccanicista per principio!

«L’informazione inscritta su schede perforate (il DNA dei geni) è portata da copie di queste schede (l’RNA messaggero) a macchine semiautomatiche programmate (i ribosomi) che assemblano le proteine della specie; queste macchine sono alimentate in parti distaccate (gli aminoacidi) dal RNA messaggero».

Si cade qui nel simbolismo «informatico» e in una fantasticheria da cartoni animati. Le descrizioni non possono essere più evolute della scienza che le formula! Ancora:

«I prodotti manifatturati dalla cellula controllano essi stessi la loro fabbricazione...: all’occorrenza, l’agente operatore che scatena la sintesi proteica è bloccato da un agente repressore. L’operatore è un gene specifico, mentre il repressore una proteina specifica sintetizzata da un gene regolatore. Quest’ultimo ha una controreazione, il primo una reazione positiva... La reazione positiva ha per effetto di accelerare costantemente il movimento, mentre la controreazione costituisce il fenomeno inverso».

Su questo ritorneremo. Infine: «Un altro aspetto del potere auto costruente del vivente è la duplicazione. Al momento della mitosi (divisione cellulare del batterio) la cellula-madre lega a ciascuna delle due cellule-figlie un duplicato del suo corredo genetico nucleare (il DNA); la cellula-figlia è l’esatta copia dell’elemento primitivo: ecco l’autoriproduzione, base dell’ereditarietà». E questo è tutto.
 
 

I.2. Creazione soprannaturale della cellula ideologica
 

Da tutto questo, il glorioso prof. Monod trae tre conclusioni:

1 - «Il meccanismo della traduzione (dell’informazione inscritta nel DNA, n.d.r.) è assolutamente irreversibile. Non si è mai osservato, e d’altronde non sarebbe concepibile, un trasferimento di informazione in senso inverso, dalla proteina al DNA. Questa nozione si basa su una serie di osservazioni oggi così complete e sicure e (corsivo nostro) con conseguenze così rilevanti soprattutto sulla teoria dell’evoluzione che essa si deve considerare uno dei principi fondamentali della biologia moderna... Non si può concepire alcun meccanismo in grado di trasmette al DNA una qualsiasi istruzione o informazione. Tutto il sistema è quindi interamente e profondamente (7) conservatore, chiuso su se stesso, e assolutamente incapace di ricevere un’istruzione qualsiasi dal mondo esterno».

2 - «Questo sistema che stabilisce relazioni a senso unico tra DNA e proteina come pure tra organismo e ambiente, sfida qualunque descrizione dialettica. È un sistema fondamentalmente cartesiano e non hegeliano: la cellula in fondo è una macchina».

3 - «Sembrerebbe dunque che, in virtù della sua struttura, questo sistema debba opporsi a... ogni evoluzione. Non v’è alcun dubbio che sia così, e questo fatto rappresenta la spiegazione di un fenomeno in realtà ben più paradossale dell’evoluzione stessa, cioè la prodigiosa stabilità di alcune specie che hanno saputo riprodursi senza modificazioni apprezzabili per centinaia di milioni di anni» (corsivi nostri) (8).

Chi è quell’imbecille che una volta disse: «La forma di sviluppo della scienza della natura, nella misura in cui pensa, è l’ipotesi?» Noi avremmo cambiato tutto ciò, noi arditi pionieri dei viaggi intermolecolari! Al contrario, noi affermiamo che, proprio nella misura in cui pensa, la scienza della natura si guarda bene dal perdersi in vane supposizioni, ma avanza arditamente a colpi di affermazioni perentorie! Tenetevi forte: «Il dovere che si impone, oggi più che mai, agli uomini di scienza è quello di pensare la loro disciplina nel quadro generale della cultura moderna per arricchirlo... di quelle idee... che essi ritengano umanamente significative» (dalla prefazione a "Il Caso e la Necessità"). Per amore della cultura moderna, dunque, Monod non esita un istante a riabilitare Cartesio, morto nel 1650 e a seppellire, a titolo postumo, Hegel morto nel 1831. Poi soddisfatto del dovere compiuto, ci lascia chiaramente intendere che la commovente invarianza del limulo marino, quest’eroe fra «alcuni« altri della Non-Evoluzione (9), gli sembra ben altrimenti significativo, umanamente parlando, e in ogni caso assai più paradossale di tutta quella cosiddetta «ortogenesi» che da Lamarck (1809) e Darwin (1859) in poi ci hanno propinato a non finire.

Non serve alcun microscopio elettronico per seguire il meccanismo della costruzione ideologica. Quando Monod, sfidando eroicamente il ridicolo, afferma che le relazioni «tra organismo e ambiente sono a senso unico» viene smentito dalla stessa ingenua descrizione che la macro-cibernetica fornisce del processo. Quando la proteina-repressore blocca la sintesi ordinata dal gene operatore, essa non lo fa né per «caso» né in funzione del suo «libero arbitrio». Jacob ci dice che questo fenomeno di «repressione» o di «blocco» è la risposta della colonia di batteri a determinati cambiamenti della composizione del liquido di soluzione che costituisce il suo ambiente. Questa «controreazione» raffigura proprio, anche se in forma caricaturalmente rigida, quella relazione dialettica tra organismo e ambiente di cui Monod non ne vuol sapere, ma senza la quale la vita sarebbe inconcepibile. Il «principio» della cellula batterica (che si ritroverà beninteso sotto altra forma negli organismi complessi) è il centralismo organico, non l’anarchia. Ma la cellula non è una macchina. Essa sfida la descrizione cartesiana che Monod ne dà, e di cui la biologia molecolare in generale non è responsabile. Prima alterazione ideologica.

Se si passa ora alla questione ben più delicata del rapporto nucleo-citoplasma o DNA-proteina, appare stravagante l’affermazione che non v’è «alcun dubbio» che in virtù della sua struttura «il sistema deve opporsi a... ogni evoluzione», laddove se c’è una cosa fuor di ogni dubbio questa è proprio l’evoluzione, con il pretesto che l’osservazione di batteri con tre miliardi di anni di evoluzione alle spalle non consentirebbe agli scienziati moderni di «concepire» come «un’informazione qualsiasi» possa passare dalla proteina al DNA! Seconda alterazione ideologica.

Se lo scopo è quello di spiegare scientificamente la stabilità relativa evidente delle specie nel corso di milioni di anni, l’affermazione che tra organismo e ambiente «la relazione è a senso unico» manca completamente il bersaglio.

Se invece si tratta di verificare sperimentalmente la teoria della non-ereditarietà delle somazioni (10), affermare che il nucleo è «totalmente conservatore», mentre invece è ben noto che in esso avvengono mutazioni, significa andare ben oltre lo scopo. In entrambi i casi, l’unico risultato è quello di ridicolizzarsi inutilmente. In realtà, questi eccessi provano che non è di questo che si tratta. Se Monod «accresce l’informazione», cioè, volgarmente, altera i già magri dati scientifici, è perché le sue mire sono ideologiche.

Poco importa a quest’«uomo di scienza» che le «osservazioni» non possono essere per definizione né «complete» né «sicure» per l’eccellente ragione che la biologia molecolare data da vent’anni mentre l’evoluzione da ... tre miliardi di anni, sicché non esiste neanche lontanamente la possibilità di osservare al prestigioso microscopio anche un solo batterio il cui «codice» genetico non sia stato «corretto» nel corso di un numero astronomico di divisioni cellulari! Poco importa! La nozione dell’irreversibilità della trasmissione di «informazioni» dal DNA alla proteina non è comunque in dubbio: «Le sue conseguenze sono così rilevanti soprattutto per la teoria dell’evoluzione che essa si deve considerare uno dei principi fondamentali della biologia moderna». Perché trattare così sfrontatamente l’esperienza e la teoria scientifica? Perché l’importante è fare i conti una volta per tutte con la teoria dell’evoluzione. Soprattutto. Una nozione così indispensabile al professor Monod per condurre in porto un’impresa tanto audace non può che essere un pilastro della scienza. Oramai, tutti i biologi senza eccezione dovranno comportarsi di conseguenza. Il professore ci propina tutto quanto con il minimo di parole indispensabili. Che densità ideologica!

Di fronte a questa sfida inaudita dell’Anti-Stalin della molecola, come hanno reagito i paleontologi, gli embriologi, gli antropologi, in breve quanti per mestiere avevano potuto fregiarsi finora di speciali diritti sulla teoria dell’evoluzione? Praticando la democrazia degli spiriti, hanno scritto un saggio per difendere il determinismo e una prefazione (11) per proclamare la nullità della Scienza e il proprio personale fallimento in materia... di evoluzione. Mai bilancio così disastroso fu stilato tanto serenamente. Quindi hanno intitolato il tutto «L’Anti-Caos». Con questo genere di difensori, il principio di oggettività non ha, come si vede, nulla da temere dai diktat della biologia molecolare, dalla Scienza della speculazione filosofica, dal determinismo del Caso o dalla democrazia pedante dell’anticomunismo di Monod.

Prima conclusione: Il Professore ha condotto in porto il suo primo tentativo ideologico. È riuscito a trasformare prima la cellula vivente in cellula-macchina, poi in pura idea di cellula, in monade fuori da ogni comprensione profana. Risalendo il corso della Storia, è insomma ritornato alla fonte, alla speculazione greca, agli atomi di Epicuro. Nessuno è quindi più qualificato di lui per spiegarci scientificamente l’Evoluzione biologica, «dal momento che la Scienza stessa proclama la sua bancarotta».
 
 

I.3. Creazione soprannaturale degli organismi ideologici
 

Sulla base della cellula ideologica sarà un gioco da ragazzi procedere alla creazione di organismi ideologici interi. Basterà fare astrazione da tutti quei dettagli empirici complicati e oziosi che rischiano solo di alterare lo schema puro del centralismo autarchico del DNA. «La scienza è l’analisi», che diamine! (12).

Quando i comuni (13) scienziati vogliono dare una definizione in generale degli organismi viventi, cosa dicono?

«Gli esseri organizzati: - vivono assimilando materia esterna, fornitrice di energia (auto-conservazione); - generano altri organismi che perpetuano la specie (riproduzione); - controllano e sincronizzano in permanenza la loro attività (auto-regolazione); - mutano nel corso degli anni (evoluzione)» (da "L'evoluzione biologica o l'Anti-Caos", Le basi biologiche dell’evoluzione).

Nella filosofia di Monod niente potrebbe essere così naturale. C’è in ballo nientemeno che la programmazione di un calcolatore per conto della NASA marziana (Monod ha tradito la sua vera vocazione) in modo che non vengano ficcati nella stessa classe di oggetti un cavallo e un’automobile, un’ape e un cristallo di quarzo: punto di partenza eminentemente biologico!

Tre proprietà basteranno: morfogenesi autonoma - teleonomia - invarianza riproduttiva. Questa la Santa Trinità degli organismi ideologici (14).

La morfogenesi autonoma: consiste nel «carattere autonomo e spontaneo dei processi che costruiscono la struttura macroscopica degli esseri viventi». Un processo «autonomo» non obbedisce soltanto a leggi proprie: è indipendente da ogni altra realtà. Applicando questo concetto all’autocostruzione degli esseri viventi (15), la biosfera sarebbe completamente sottratta alle leggi del resto della natura. Seguiamo l’edificante ragionamento con cui il nostro ideologo pretende di provare una tale straordinaria affermazione.

Del tutto semplicemente, egli comincia con l’opporre «la maggior parte degli oggetti naturali la cui morfologia macroscopica è dovuta in larga parte all’azione di agenti esterni» agli esseri viventi, la cui «struttura non deve praticamente nulla all’azione delle forze esterne, mentre deve tutto (!), dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni morfo-genetiche interne all’oggetto medesimo». Qui Monod supera se stesso! A proposito degli oggetti naturali, egli ci fa notare scrupolosamente che la loro morfologia è dovuta soltanto in larga parte all’azione di agenti esterni: se, per seguirlo, noi proviamo a pensare per esempio che alcuni agenti erosivi (come la pioggia e il gelo, le onde del mare, le miriadi di granelli di sabbia sollevati dal vento del deserto) modellano le stesse forme in rocce molto diverse come il granito e il calcare, che responsabilità la sua! Senza nemmeno rendersene conto ci spinge a considerare il rilievo di una roccia come il risultato... dialettico dovuto in parte alla sua struttura e in parte agli agenti erosivi che agiscono su di essa in funzione della sua situazione geografica. È pur vero che, per quanto inerti e passive, le rocce si trovano in un rapporto dialettico (16) con gli agenti erosivi, mentre sono perfettamente «autonome» rispetto alla estinzione delle specie e al crollo degli imperi da cui non sono assolutamente toccate.

Rispetto agli esseri viventi, al contrario, il nostro singolare biologo dimostra una sfacciataggine che sconfina nell’impudenza. (Ciò ci rafforza nella convinzione che la sua «filosofia naturale» è il degno prodotto della collaborazione immaginaria di un Terrestre ossessionato dalla cibernetica con un «Marziano digiuno di biologia», come lui stesso ha ipotizzato). E l’influenza delle forze esterne sulla loro struttura? «Praticamente nulla». E quella delle forze interne? Ad essa è dovuto «tutto». Insomma attribuendo un 2% alla prima, resta un... 100% per la seconda. Avendo così dato alla logica, all’aritmetica e al pubblico l’assicurazione del suo più profondo disprezzo, Monod conclude: «Un determinismo interno, autonomo, assicura la formazione delle strutture estremamente complesse degli esseri viventi». Perché questo «determinismo» è «autonomo»? Ma perché è «interno», perbacco! Bastava pensarci un attimo. Disgraziatamente per il nostro metafisico, se (per riprendere il suo gergo, sola espressione adeguata del suo pensiero) «il determinismo che assicura la formazione delle strutture infinitamente meno complesse della maggior parte degli oggetti naturali» non è affatto autonomo, come del resto egli stesso ammette («in larga parte»), il motivo non va cercato nel fatto che esso è «esterno», ma nel fatto che tra questi «oggetti» e le forze esterne che agiscono su di essi esiste un rapporto dialettico.

Monod non poteva peraltro «provare» l’autonomia della morfogenesi se non nel capitolo che precede quello sulla cellula, di cui essa costituisce naturalmente una conseguenza logica. Per contro, è riuscito in un’impresa sbalorditiva: aborrendo l’idea marxista che la realtà nel suo complesso è dialettica, egli ha ammesso di fatto che seppure totalmente passivi, seppure destinati senza difesa a una lenta ma inesorabile degradazione, gli «esseri» del mondo minerale sono soggetti a loro volta a questa dialettica. Ma ha escluso teoricamente una simile eventualità per gli esseri viventi, i quali peraltro si trasformano con l’ambiente ed evolvono pena la morte! Paradosso perfettamente spiegabile. Il nostro grande filosofo si fa questo piccolo ragionamento: gli esseri viventi sono attivi e in grado di riprodurre ad ogni generazione il genotipo in un nuovo essere: sono cioè meno dipendenti dalle forze distruttive della natura di quanto non lo siano i non-viventi. Da buon metafisico ne deduce immediatamente che è «l’autonomia» a distinguere gli esseri viventi dagli esseri inanimati. Non può evidentemente entrare in testa a questi dinosauri dell’evoluzione del pensiero umano che sono i non-dialettici che «autonomia» e «dipendenza» non sono affatto dei contrari assoluti, che più un essere è «autonomo» per un verso, più dev’essere «dipendente» per un altro verso. Verificandosi una profonda modificazione del clima e quindi della flora e della fauna, chi avrà più probabilità di sparire: l’animale, per un verso «autonomo», ma legato tuttavia all’ambiente da un’infinità di connessioni diverse, oppure la montagna totalmente «dipendente» dai cicli plurimillenari dell’erosione, ma per la quale la nozione di «ambiente» non ha alcun senso, perché troppo ricca di determinazioni? La risposta non lascia dubbi e mostra che, senza tirare in ballo alcuna diavoleria hegeliana, è il più «autonomo» ad apparire il più «dipendente» - e inversamente (17).

Conclusione: Pretendere che la biosfera costituisca una sfera «autonoma» nell’ambito della natura, significa trasformarla in una sfera soprannaturale in barba ad ogni conoscenza scientifica. Affermare che la morfogenesi degli esseri viventi dipende da «interazioni interne» totalmente affrancate dalle leggi del mondo esterno, significa attribuire loro un’origine mistica e trasformare il loro adattamento alle condizioni di vita sulla terra in un enigma impenetrabile. Oltre ad essere antidialettica, questa tesi si colloca al di sotto dello stesso livello raggiunto dalla scienza borghese (18).

La teleonomia: essa ingloba, pur non riducendosi a questo, la nozione di appropriazione (o adattamento) degli esseri viventi rispetto all’ambiente in cui vivono e quale si manifesta nelle loro strutture e nelle loro attività. Essa significa che gli esseri viventi sono degli «oggetti dotati di un progetto» (Monod) «che nessuna intelligenza ha concepito... e nessuna volontà scelto» (Jacob). Questa categoria ideologica attesta esclusivamente il fatto che l’arcaico dibattito del XVIII secolo contro la teologia e il fideismo, per noi materialisti marxisti chiuso da un bel pezzo, resta pur sempre d’attualità per i nostri ideologi borghesi. La teleonomia delinea insomma una biologia anticlericale: come si vede, il massimo della modernità!

Ciò premesso, scopriamo che la teleonomia è solo «una proprietà secondaria derivata dall’invarianza, la sola proprietà considerata primitiva»: ogni altra concezione sarebbe «incompatibile col postulato di oggettività». Dire «oggettivo» è lo stesso che dire che gli esseri viventi si sono adeguati alle condizioni ambientali perché si riproducono in modo invariante! Ma essi non lo fanno. E anche se lo facessero, ciò non cambierebbe di una virgola la questione: l’invarianza può conservare, ma non produrre alcunché. Se ha il potere di far «derivare» l’adattamento (teleonomia) del «codice genetico» che essa conserva, ciò può avvenire perché quest’ultimo vi si trovano già inscritto: cioè l’adattamento deriva non dall’invarianza ma dal «codice». Ma come fa il «codice» ad «informare» gli organismi adattati? Come, dal momento che è autonomo, si è esso stesso «informato» prima ancora di formarsi, visto che la biosfera non è sempre esistita? In altre parole, qual è la sua origine? Questo il problema. Ma «non è di problema che bisognerebbe parlare, quanto piuttosto di un vero e proprio enigma», risponde il professore. Anche la teleonomia rimane dunque «enigmatica»! La biologia anticlericale si limita a spostare i misteri, non li dissipa. Tutto il suo exploit «scientifico» si riduce a sostituire il detto biblico: «In principio era il Verbo», con il detto para-biblico: «In principio era il programma genetico».

L’invarianza riproduttiva (o invarianza tout court): secondo i «comuni» scienziati prima citati, tra le caratteristiche degli esseri viventi bisogna annoverare il fatto che essi «si modificano nel corso dell’età (evoluzione)». Privi delle certezze scientifiche della biologia molecolare e dei lumi della «filosofia naturale», quei disgraziati sono arrivati ad ipotizzare non solo che gli esseri viventi si sono evoluti, ma che avevano l’attitudine di farlo! Monod non nasconde il suo sdegno per un siffatto semplicismo teorico: «Per la teoria moderna, l’evoluzione non è affatto una proprietà degli esseri viventi poiché essa ha la sua radice nelle imperfezioni stesse del meccanismo di conservazione che costituisce, ed esso soltanto, il loro unico privilegio». Con poche stringate parole, Monod stabilisce le sette folgoranti tesi che gli spiriti mediocri dovranno assimilare per rendersi degni della «teoria moderna»:
1) Il meccanismo di conservazione (della riproduzione) è l’unico privilegio degli esseri viventi;
2) ergo, e anche la loro unica proprietà;
3) poiché, scientificamente, è il privilegio che distingue gli esseri viventi da tutti gli oggetti naturali e dagli artefatti (prova ne è che persino un calcolatore marziano li trova insoliti);
4) in quanto esseri privilegiati non possono annoverare imperfezione alcuna tra le loro proprietà;
5) poiché la fonte del privilegio è la perfezione;
6) ma siccome nessun essere è perfetto se non è immutabile, ne consegue che
7) la riproduzione invariante e pur sempre l’unica proprietà che può essere scientificamente riconosciuta agli esseri viventi: come volevasi dimostrare.

Il resto sono chiacchiere (19).

Se Monod fosse stato solo uno specialista obnubilato dallo studio dei meccanismi dell’ereditarietà, avrebbe potuto, grazie alle libertà democratiche, militare tranquillamente a favore della sua «riproduzione invariante». Cosa di non secondaria importanza, visti i «grandiosi mutamenti che hanno avuto per teatro le ere geologiche e la superficie del pianeta». Ma dal punto di vista di una filosofia moderna, una simile modestia sarebbe stata indecente. Godendo di una totale immunità, Monod ha sferrato un nuovo colpo da maestro: con una semplice inversione dell’ordine dei termini ha sostituito «riproduzione invariante» con «invarianza riproduttiva». (La Filologia ufficiale non aveva voce in capitolo: si trattava di un problema di fondo e non di forma. La lingua deve restare pura, ma il pensiero è libero, in democrazia). E il pensiero di Monod è chiarissimo: è l’invarianza e non la riproduzione ad aver assicurato la continuità della discendenza. Compiendosi all’inizio per semplice divisione cellulare e solo molto più tardi per fusione di due gameti, la riproduzione non è stata che l’astuto mezzo utilizzato dall’Invarianza per evitare (messo da parte ogni finalismo) che si spezzasse il filo che lega gli uomini di oggi al Batterio ancestrale (non si entra qui nel merito della variazione dal batterio all’uomo, che verrà esaminata più avanti). La prova che l’invarianza è senz’altro la caratteristica primaria del vivente è data dal fatto che si può eliminare l’aggettivo «riproduttivo» senza il minimo inconveniente. Il concetto appare così in tutto il suo rigore. Se la tesi era meta- o addirittura para-fisica, il francese era in compenso impeccabile: non fu contestato il diritto di cittadinanza all’«invarianza riproduttiva» nella più «chiara» fra tutte le lingue civili!

Ecco come, in pieno XX secolo, un professore del College de France ha, sulla base di una scienza dell’ereditarietà, improvvisato una filosofia che riduce la riproduzione allo stato di aggettivo amovibile, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo! A tanto si riducono le prodezze soprannaturali degli atei del XX secolo!

Conclusione: quando l’ideologia proclama: «La Vita è l’Invarianza», essa è bizzarra, grottesca, ripugnante. Ma la società borghese intende: «La variazione è la morte». E siccome il movimento della storia la porta irrimediabilmente verso l’annientamento, anche se con una lentezza che mette a dura prova la pazienza dei rivoluzionari proletari, essa riconosce una verità di classe fin dentro una ripugnante bizzarria.
 
 

I.4. La metafisica dell’evoluzione
 

E ora come superare l’abisso che la filosofia «naturale» ha scavato tra sé e il reale? Come trarre un movimento da un’invarianza? Come dedurre l’evoluzione biologica dal «conservatorismo totale del meccanismo duplicatore del DNA» e dall’ «autonomia assoluta» del microcosmo nucleare? Monod realizzerà quest’impresa impadronendosi di un’ideologia trovata già bell’e pronta - la cosiddetta teoria «sintetica», figlia del neo-darwinismo, codificata dai biologi negli anni ‘50 - e sovrapponendole una metafisica che essa non implicava, ma che invece era sicuramente contenuta nella sua «dottrina» dell’invarianza riproduttiva assoluta.

Generalizzando i risultati dei lavori di De Vriès (teoria delle mutazioni nei vegetali, 1901/1903) e soprattutto del fondatore della genetica T.H. Morgan, studioso delle mosche Drosofili (1910/1945), la teoria «sintetica» deve il suo nome alla pretesa di spiegare l’evoluzione da una parte con l’ausilio delle mutazioni dei geni, causa delle variazioni, e dall’altra parte ricorrendo alla selezione naturale, causa dell’adattamento delle specie all’ambiente attraverso l’eliminazione di organismi portatori di mutazioni nocive.

Sul piano strettamente scientifico, le insufficienze di questa teoria sono state rilevate più di una volta: 1) pur ammettendo che le mutazioni hanno delle cause, essa nega tuttavia di conoscerle; 2) essa riduce tutta la macro-evoluzione alla micro-evoluzione, pretendendo di spiegare con l’aiuto di una serie di mutazioni regolari dei geni tutte quelle trasformazioni che la paleontologia, ad esempio, studia con i metodi dell’anatomia comparata, e che sono collegate tra loro da una evidente logica interna, da un principio filosofico di correlazione. Ma se le mutazioni sono dei fatti ormai ampiamente dimostrati, non per questo possono però spiegare l’embriogenesi di una struttura precisa (un cuore, due polmoni, tot vertebre, ecc.) dal momento che rispondono manifestamente a un piano generale (20); d’altronde è chiaro che i meccanismi evolutivi non possono essere stati gli stessi a tutti i livelli tassonomici, per cui ciò che potrebbe valere per degli esseri monocellulari diventa assolutamente insufficiente una volta che lo si volesse applicare alla variazione di organismi altamente differenziati. È perciò inammissibile il monismo applicato alla spiegazione delle mutazioni. Infine 3) essa ignora del tutto i rapporti che intercorrono tra germe e soma, dal momento che esclude senz’altro l’integrazione delle somazioni nel corredo genetico. In breve, si rimprovera a questa teoria di tener conto esclusivamente della differenziazione delle specie, senza spiegare né la genesi di organi estremamente complessi come l’occhio o il cervello (che, se fossero il risultato di mutazioni genetiche, ne avrebbero comportato un’infinita) né la costituzione delle classi e degli ordini (per la stessa ragione).

La prima prodezza di Monod consisteva nel proclamare perfettamente e totalmente soddisfacente questa povera piccola teoria scientifica tanto controversa. Merita perciò che gli si muova l’obiezione classica fatta al mutazionismo e così formulata dal suo collega Jacob in persona: «Per estrarre da una roulette colpo dopo colpo, sottounità dopo sottounità, ciascuna delle centomila catene proteiche che possono comporre il corpo di un mammifero, occorrerebbe un tempo che supera, e di gran lunga, la durata assegnata al sistema solare». Ma che importa al nostro ideologo del calcolo delle probabilità.

Impadronendosi dei dati della teoria sintetica - mutazione e selezione - Monod li trasformerà in concetti - caso e necessità - costruendo sulla base già debole di quella teoria una metafisica di tipo pre-hegeliano. Infine, evocando per pagine e pagine la cosiddetta «gratuità» di fenomeni recentemente osservati dalla microbiologia (come la biosintesi di una data «galattosidasi» ad opera di dati «galattosidi» come l'idrolisi o l’assemblaggio delle sequenze proteiche che sembrano contraddire ogni legge), egli si abbandona senza ritegno ad un accesso di delirio sartriano nel tipico stile lirico-volgare alla Camus: «Il caso puro, il solo caso, la libertà assoluta, ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell’evoluzione!»

Al «caso» sono dovuti il mondo, la biosfera e, beninteso, la società stessa. Secoli di determinismo buttati alle ortiche! Questo il degno coronamento degli sforzi ideologici di Monod, fedele riflesso della decomposizione teorica di quella classe controrivoluzionaria che è la borghesia! È arrivato il momento di vedere come la dialettica razionale spiega le categorie di «caso» e di «necessità» e in quali rapporti essi stanno con i concetti di invarianza e di mutazione.
 
 

I.5. Caso, Necessità, Probabilità
 

Nella "Dialettica della Natura" il nostro Engels (quello stesso Engels che Monod considera a dir poco ingenuo) ha non solo chiaramente posto, ma definitivamente risolto il problema che Monod così pietosamente ingarbuglia:

«Sul piano della teoria, la scienza della natura ha perseverato da un lato nella vuotezza di pensiero della metafisica wolffiana, per la quale qualcosa o è necessario o è casuale, ma non entrambe le cose nello stesso tempo; e dall’altro lato, nel determinismo meccanicista appena un po’ meno vuoto di pensiero, che a parole nega in generale il caso, per riconoscerlo nella pratica in ogni singolo avvenimento... Hegel scese in campo contro entrambe le concezioni con i principii, fino ad allora mai uditi, che il casuale ha una causa perché è casuale, proprio come non ha una causa perché è casuale; che il casuale è necessario, che la necessità determina se stessa come casualità, e che d’altra parte questa casualità è piuttosto assoluta necessità ("Logica", I, sez. III, cap. I, La Realtà). La scienza della natura ha semplicemente lasciato da un canto questi principii come paradossali giochi di parole, come contraddittori assurdi» (21).

 Proprio come continua a fare il metafisico Monod, più di un secolo dopo Hegel!

Avendo stabilito da un lato un principio di invarianza assoluto (fissità del patrimonio genetico) e dall’altro lato un principio di varianza anch’esso assoluto (piccole perturbazioni fortuite e perciò impercettibili e imprevedibili), Monod pensa che questa opposizione sia irrisolvibile con il solo ausilio delle categorie ereditate dalla vecchia metafisica idealista: il caso (come negazione della necessità) e la necessità (come negazione del caso). Viene quindi a trovarsi doppiamente confutato come materialista meccanicista rifugiatosi nelle braccia della metafisica (vedi passo sopra citato di Engels). A un siffatto manicheismo pseudo-biologico, i marxisti oppongono il concetto di varianza o di invarianza relativo: invarianza e mutazione non si escludono, ma sono l’una la condizione dell’altra. Lo stesso trattamento riservano al determinismo stile Laplace, secondo il quale la necessità nega radicalmente la casualità: sulla scorta di Hegel i marxisti comprendono non solo che la necessità è causa della casualità e che la casualità è causa della necessità, ma che la categoria dialetticamente superiore in cui si risolve questa opposizione apparente, «esteriore», non è altro che la possibilità reale o, come si dice oggi, la probabilità. Come si vede, la dialettica svolge qui in pieno il suo ruolo di prevenzione degli a priori metafisici che per gli scienziati borghesi restano sempre la causa delle ricadute nel vecchio modo di pensiero feudale-scolastico!

Lo stesso superamento dell’opposizione necessità assoluta-caso assoluto si ritrova in fisica, e proprio per non aver compreso ciò Monod tenta di presentare il suo antideterminismo biologico come un semplice aspetto dell’antideterminismo generale, verso il quale dovrebbe spingerci, secondo lui, «la fonte di incertezza più profonda che è ancora radicata nella struttura quantistica della stessa materia!» Le leggi della fisica - leggi di conservazione o di invarianza - si applicano, spiega(22), su queste incertezze elementari. Inoltre, tutte le leggi particolari hanno fondamento in una grande legge, quella dell’inesorabile degradazione dell’energia, che trova formulazione nel secondo principio della termodinamica, principio assolutamente non compreso da quell’ingenuo di Engels (23). Applicate tutto questo al mondo biologico e avrete la soluzione!

Per disgrazia del nostro metafisico, la meccanica quantistica non è affatto «indeterminista» come pretende la cattiva letteratura filosofica borghese: il famoso principio di incertezza di Heisenberg, che viene sempre tirato in ballo per affermare il contrario, serve solo a dissolvere il determinismo assoluto (24), insieme a un certo numero di nozioni sclerotizzate (25), in un determinismo tutto affatto rigoroso delle probabilità. La meccanica serve a prevedere, sulla base dello stato meccanico di un sistema in un momento dato e delle forze che agiscono su di esso, il suo «stato» in un dato momento ulteriore. Se non è in grado di fare questo, non serve a niente, e la meccanica quantistica rivendica senz’altro di saperlo fare. La leggenda sul suo «indeterminismo» è nata dal fatto che il punto di partenza era dato dalle concezioni accreditate dalla meccanica classica (Newton) e valide nel suo ambito. Classicamente, la «particella» è una «massa puntiforme» o «punto materiale» il cui stato meccanico è descritto dalle coordinate di posizione e di velocità. Questa concezione non poteva più essere di nessun aiuto per lo studio dei fenomeni osservabili alla scala microscopica degli elettroni e dei fotoni, costituenti ultimi della materia e della luce. A questa scala, in effetti, non solo le definizioni assolute («sostanza delle cose») si risolvono in definizioni relative (diventa impossibile distinguere tra «sostanza» e suoi «attributi»: il corpuscolo elettrico, per esempio, non è più «un piccolo corpo carico di elettricità»), non solo la nozione di massa perde la sua assolutezza (i corpuscoli non possono essere definiti che come degli stati e i loro rapporti che come inversioni da uno stato a un altro stato), ma, come peraltro si evince da quanto precede, diviene impossibile determinare rigorosamente e contemporaneamente la posizione e la velocità della «particella» (o la dislocazione spazio-temporale e la specificazione energetica).

La meccanica quantistica sostituisce quindi alle «categorie» classiche una nuova categoria: la funzione d’onda, che designa la probabilità della presenza dell’elettrone, per esempio, in un punto dello spazio sottoposto al campo di forza del nucleo. La meccanica quantistica perciò non è altro che l’insieme delle leggi e teoremi (26) che permettono di prevedere la funzione d’onda in un istante qualsiasi (se la si conosce in un istante dato), così come le forze che agiscono sulla «particella». Le famose «relazioni di incertezza» di Heiseberg inficiano così poco il determinismo (!) che servono anzi a definire proprio i margini di incertezza, come per esempio la posizione di un corpuscolo di cui è nota la velocità (o inversamente), laddove non è possibile conoscere simultaneamente entrambi i dati: è chiaro che se la regola dei fenomeni fisici fosse... «l’incertezza fondamentale», la «gratuità», e a maggior ragione la «libertà» (!) tanto care ai Sartre-Monod, quest’operazione sarebbe del tutto arbitraria e votata al fallimento. Ma non è così!

In conclusione, l’utilizzazione che Monod fa della fisica quantistica conferma appieno quanto diceva Lenin decenni addietro circa l’impotenza a pensare dialetticamente che, sul piano logico, è alla base dello sfruttamento idealistico della crisi di questa scienza all’inizio del secolo, sfruttamento che, sul piano sociale, serve perfettamente agli interessi della borghesia. Dedicheremo perciò al nostro filosofo della reazione morta questo passo di "Materialismo ed Empiriocriticismo": «L’errore della dottrina di Mach (Monod)... è di non prendere in considerazione ciò che separa il materialismo metafisico dal materialismo dialettico. L’ammissione di non si sa quali elementi immutabili, dell’essenza immutabile delle cose, non costituisce il vero materialismo: è un materialismo metafisico, cioè antidialettico».

Questo è l’uomo che, in nome della Scienza, ha condannato non solo Engels, ma tutta quanta la dialettica.
 
 

I.6. Engels e il 2° principio della termodinamica
 

Attaccando Engels sul 2° principio della termodinamica Monod ha voluto stabilire la tesi dell’incompatibilità di dialettica e scienza (27). Ma per sua disgrazia, la scienza contemporanea ha dato ragione proprio ad Engels. Vediamo come.

Il primo principio della termodinamica non è altro alla fin fine che il principio della conservazione dell’energia. E siccome è un principio di conservazione, non consente di trovare un senso di evoluzione. Ma l’esperienza insegna che i processi fisici hanno luogo sempre in un senso e mai nel senso inverso. Per fare un esempio classico, consideriamo una barra di rame le cui estremità siano a contatto una con un blocco di ghiaccio, l’altra con una fiamma. Viene a stabilirsi allora nella barra un gradiente termico, cioè una temperatura che varia a seconda del settore considerato. Isolando bruscamente la barra dall’ambiente esterno, si constata che essa evolve verso uno stato di equilibrio con temperatura uniforme in ogni sua parte. Supposto che l’energia totale resti costante, non contraddice il primo principio l’apparizione spontanea di un gradiente termico in una barra (o altro sistema) isolata: ma alla luce dell’esperienza questo non avviene mai.

«Un sistema isolato che ha subito una evoluzione non ritorna mai al suo stato iniziale»: questa la definizione del 2° principio della termodinamica, che proprio esperimenti di questo genere hanno generalizzato ed innalzato a verità assoluta. È in questi termini «assoluti e definitivi» che la termodinamica enunciava il 2° principio, che diveniva dunque un principio di irreversibilità dei processi naturali, dal momento che «l’entropia» (grandezza il cui senso di variazione esprime l’irreversibilità) di un sistema isolato può solo aumentare o al massimo rimanere costante, con una tendenza verso uno stato di massima entropia.

Si trattava insomma di un tentativo di applicare il 2° principio non solo alle macchine a vapore, ma all’intero universo. Tentativo che nel secolo scorso portò a questo risultato: l’universo è un sistema isolato (sic!); quindi deve tendere verso uno stato di equilibrio finale in cui tutta la materia e tutti i raggi saranno uniformemente distribuiti e in cui nulla potrà più accadere (in altre parole, in cui l’entropia sarà massima). La previsione di questo stato «di equilibrio finale» dell’universo, o, come si diceva, della sua «morte termica», presupponeva d’altronde uno stato «originario» di squilibrio totale, cioè, sotto un’altra forma, l’idea della... creazione del mondo. Contrariamente a quanto insinua Monod, questa concezione era tutt’altro che accettata da tutti gli scienziati, se pure borghesi, del secolo scorso. Non si va per il sottile, visto che si tratta di imputare ad Engels il crimine di «lesa scienza». Infatti, non aveva forse egli osato negare formalmente il 2° principio dicendo, nella "Dialettica della Natura": «In qualunque modo si formuli il secondo principio di Clausius, esso comporta in ogni caso una perdita di energia... L’orologio dell’universo, per camminare, deve essere prima caricato; e cammina finché non arriva allo stato di equilibrio, dal quale solo un miracolo può farlo uscire e rimetterlo in movimento di nuovo. L’energia impiegata per caricarlo è scomparsa (corsivo nostro), perlomeno qualitativamente, e può essere restituita solo da un impulso esterno (corsivo di Engels)... quindi la quantità di movimento o di energia presente nell’universo non è costante». Ma allora, notava ancora Engels, «tutta la teoria della conservazione della forza è assurda», come sono assurde «tutte le conclusioni che Clausius ne trae; quindi l’energia deve essere stata creata, quindi dev’essere creabile, quindi distruttibile. Ad absurdum!» E concludeva che «nel modo che spetterà agli scienziati dell’avvenire mettere in luce» la contraddizione tra il secondo principio di Clausius e il principio della conservazione dell’energia doveva essere superata. Quegli «scienziati» per noi appartengono già al passato (o al massimo al presente): hanno trasformato il secondo principio in un semplice teorema di meccanica statistica, cioè hanno tolto ogni carattere assoluto a ciò che non era che una estrapolazione e generalizzazione dell’esperienza, per lasciargli solo un significato statistico. Vediamo come, molto schematicamente.

Alla base di questa questione c’è il fatto che la materia non è un continuum, ma è costituita di elementi discreti, diciamo di molecole, definizione che qui può bastare. È normale che le «leggi» o principi che reggono il comportamento, per esempio di una massa di gas, devono potersi spiegare sulla base dei teoremi della dinamica dei sistemi materiali. Ma ci si scontra qui con una difficoltà: il numero delle molecole che entrano in gioco negli esperimenti correnti è talmente enorme che è fuori questione studiare il movimento di ciascuna di esse individualmente presa: bisogna ricorrere alla meccanica statistica.

Prendiamo il caso limite in cui la quantità di gas tende allo zero, come può essere ad esempio quello in cui un serbatoio A contenente solo dieci molecole di gas viene messo in comunicazione col serbatoio B. Supponendo che non ci sia interazione tra le molecole (se ci fosse il risultato qualitativamente non cambierebbe, ma il tutto sarebbe solo un po’ più complicato), ogni molecola avrebbe le stesse possibilità di trovarsi indifferentemente sia in A che in B, e questo indipendentemente dal posto in cui si trovano le altre. L’eventualità più probabile è quella che corrisponde all’equilibrio: 5 molecole in A e 5 in B. Tuttavia, delle eventualità che si scostano dallo stato d’equilibrio devono per forza realizzarsi, anche se la probabilità che si realizzino è tanto più bassa quanto più lo scarto sarà grande. È un po’ come il gioco a testa o croce fatto con 10 monete. La probabilità che si ottenga 0 (zero) «testa» e 10 «croce» (o viceversa) e di 1/1024, mentre è di 252/1024 per 5 «testa» e 5 «croce». Ciò non toglie che se uno lanciasse le monete 1.024.000 volte, quella bassissima probabilità dovrebbe realizzarsi all’incirca 1.000 volte: vi è dunque una differenza essenziale tra una probabilità piccola quanto si vuole e una probabilità nulla! Grosso modo, il secondo principio quale lo si comprende ora discende da questo aspetto «probabilistico», che non ha niente a che vedere col rigetto del determinismo a profitto di non si sa quale «libero arbitrio», ma è semplicemente un’altra forma del determinismo, come Engels, a differenza di tanti scienziati, aveva perfettamente visto. Praticamente, in tutti gli esperimenti correnti, mettendo in gioco un numero di molecole dell’ordine di 1023 (1 seguito da 23 zeri), e un numero totale di concatenazioni dell’ordine di 10 alla potenza 1023  (1 seguito da 1023 zeri), la probabilità che tutto il gas si concentri spontaneamente in uno dei due serbatoi è così ridicolmente bassa che, in pratica, su spazi e in tempi osservabili per noi, possiamo accettare il secondo principio nella sua forma classica. Ma se si esce dai limiti cui sono soggetti la capacità visiva e la durata della vita umana per osservare le cose alla scala cosmica, la prospettiva cambia completamente: nello spazio e nel tempo infiniti, ogni fenomeno possibile deve realizzarsi. Allora la rappresentazione globale che dobbiamo farci del comportamento dell’universo è completamente differente da quella che discendeva dal secondo principio inteso classicamente: anche supponendo che l’universo sia finito, non si può più dire che esso deve evolvere «a senso unico» verso uno stato di equilibrio di massima entropia: tutto quello che si può dire è che lo stato di equilibrio è il più probabile, ma che necessariamente devono presentarsi (seppure sempre più raramente mano a mano che ci si scosta dall’equilibrio) tutti gli stati possibili. In realtà l’universo è infinito, sicché parlare di «sua entropia» non ha più senso che parlare del suo volume o della sua massa! La sola cosa che si può definire è al massimo una densità locale di entropia, che deve rispondere a due requisiti: 1) variare nello stesso istante da un luogo all’altro e nello stesso luogo nel corso del tempo; 2) essere costante in media, a condizione di prendere questa media su grandi spazi per un tempo breve, e viceversa, laddove «grande» va inteso naturalmente alla scala cosmica.

Engels rifiutava di lasciarsi legare le mani dal secondo principio, metteva in guardia dal trarne conclusioni «filosofiche» e prevedeva che si sarebbe dovuto cambiarlo. Ma in nome di cosa? Ma in nome della metafisica naturalmente, assicura Monod, affibbiando al povero Engels l’appellativo di «animista», e mettendo il tutto a carico della ... Dialettica! Balle! Quello che Engels opponeva a una delle leggi della fisica era la concezione globale della fisica. Egli metteva in discussione un’affermazione particolare della scienza in nome dell’affermazione generale della scienza.

Solo la dialettica è, quindi, scientifica.
 
 

I.7. La Cittadella Scientifica Universale
 

Dopo aver visto di fronte a che razza di filosofia «soprannaturale» il mondo borghese, con alla testa il premio Nobel, si inchina, prenderemo in esame come il nostro adoratore dell’irrazionale concepisce un ordine sociale razionale, quello che, in opposizione col socialismo proletario profano, egli battezza «vero socialismo».

Nell’ultimo capitolo del suo libro, Monod prende atto con soddisfazione che la scienza ha conquistato un posto di primo piano nelle «società moderne», ma lamenta che queste ultime, «liberali o marxiste che siano» (?!), rimangono sorde al «suo messaggio» (?), perché vogliono sì utilizzarla per produrre maggiori ricchezze, ma si rifiutano di mettersi al suo servizio. Monod non nasconde la sua profonda disapprovazione e reputa urgente il porvi rimedio attraverso un totale capovolgimento... ideologico! Dopo tutto, la «scienza» è l’attività assegnata al professore dalla divisione sociale del lavoro e che egli, con un’aberrazione abbastanza diffusa, perché derivante proprio da quella divisione, considera come l’unica attività vera. Di qui a pensare che la scienza è anche la sola attività che possa giustificare l’esistenza della stessa società il passo è breve, e Monod lo compie baldanzosamente, lanciandosi nella descrizione di un ordine sociale fondato (sic!) sull’etica (sic!!) della conoscenza, «etica che darebbe luogo a istituzioni votate alla difesa del Regno trascendente delle idee... in cui, liberato dalle costrizioni materiali... l’uomo potrebbe finalmente vivere in modo autentico».

L’organizzazione della specie umana in società stabili, che rispondeva alla necessità di sopravvivere, è stato il risultato delle sue caratteristiche di unica specie produttrice, senza bisogno di altre «giustificazioni». Inoltre, la formazione di un dato tipo di società, il suo sviluppo, il suo passaggio a un tipo superiore sono retti non dai desideri degli uomini, fossero anche premi Nobel, ma da leggi oggettive, come lo sviluppo delle forze produttive, la lotta di classe, la vittoria rivoluzionaria della classe oppressa; beninteso, la collocazione di una attività sociale qualsiasi, compresa la nobile attività scientifica, nell’insieme delle attività umane è anch’essa direttamente o indirettamente subordinata a quei fattori materiali e brutali. Ma di tutto questo il signor Monod non vuol saperne o meglio non è in grado di comprenderlo, non solo perché è complessivamente solidale con la borghesia, ma anche a causa della visione limitata che la sua limitata attività sociale gli impone: ecco spiegato il segreto delle frottole che ci viene propinando sul fatto che in una società razionale non sarebbe la scienza ad essere al servizio della specie, ma, al contrario, la specie al servizio della scienza (?!), magari con l’ausilio di... istituzioni repressive adatte alla bisogna! Eccola allora saltar fuori, ma nel campo storico e sociale, quella «proiezione animista» che Monod ha rinfacciato al marxismo di voler introdurre nelle scienze della natura, ripetendo con sospetta insistenza quest’accusa balorda per pagine e pagine! In altre parole, il signor Monod che, come tutti i suoi compari, rifiuta visceralmente l’applicazione del determinismo scientifico alla società, alla storia e quindi all’avvenire della specie, finisce per sognare una società modellata secondo i pregiudizi particolari della sua casta di appartenenza: mera paranoia ideologica!

Adeguandosi alla moda del XX secolo, Monod presenta come il solo «vero socialismo» il suo «Regno trascendente delle idee». Ma tiene a precisare che il passaggio a questo Eden potrà avvenire solo alla condizione di... «abbandonare totalmente l’ideologia che domina il pensiero socialista da un secolo e più». In altri termini: morte al socialismo scientifico, alla sua maledetta dialettica teorica e alla sua ancora più maledetta rivoluzione pratica. Ma cosa propone in cambio al proletariato rivoluzionario? Nulla. O piuttosto la trasmutazione magica della sua etica personale in una società e (udite!) in uno Stato reali e la transustanziazione degli uomini di carne e sangue in... puri spiriti, sotto l’effetto di una «liberazione dalle costrizioni materiali» di cui questo grande scienziato non si è degnato di rivelare a noi altri, poveri «animisti», le vie e le forme. Come può un borghese reazionario e idealista comprendere che il vero problema è quello della liberazione del proletariato, e al limite di tutta la specie, dalle barbare costrizioni che su di esso fa pesare il dominio del capitale?

È giunto finalmente il momento di volgere le terga a questo sacerdote del caso, a questo «socialista» della proteina, a questo rappresentante classico, perfetto della decomposizione borghese per studiare, come avevamo promesso, il testo di Engels sul «ruolo avuto dal lavoro nella trasformazione della scimmia in uomo». Esso mostrerà chiaramente al lettore che, dopo più di un secolo, l’applicazione delle tesi del materialismo dialettico ai problemi dell’evoluzione ha portato a risultati ben più significativi di quanto non abbia ottenuto la «moderna» teoria neo-darwinista (cosiddetta sintetica) e a maggior ragione la metafisica di un biologo molecolare ammalato di presunzione.
 

 Programme Communiste, n°58, 1973

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