DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Globalizzazione

La globalizzazione non è altro che l’insieme dei processi economici conformi allo sviluppo imperialista del Capitale. Essa si presenta come liberalizzazione degli scambi e dei movimenti di capitale, possibili solo in un quadro internazionale che raggruppa Paesi economicamente e politicamente associati. A partire dalla metà degli anni ’80 del ‘900 e sull’arco di trent’anni, l’intensificazione degli investimenti e l’organizzazione della struttura produttiva e finanziaria hanno trasformato la realtà economica e i rapporti tra gli Stati. Questa situazione ha determinato altresì l’incremento del commercio internazionale, l’ampliamento della delocalizzazione, la crescita straordinaria della produttività e della precarietà del lavoro su larga scala; e ha permesso anche alla logistica di spingere i processi distributivi, ottimizzandoli. “Il gioco del mercato dev’essere libero da frontiere, regolamentazioni, tariffe doganali”, ecco lo slogan ripetuto dai quotidiani economici e dall’ideologia dominante. “Purtroppo – aggiungono poi – quel che frena la competitività è la rigidità dei salari e la regolamentazione del lavoro. Avanti dunque con la precarietà, la riduzione dei salari, l’aumento degli orari di lavoro!”. All’uscita dalla crisi 2007-8, la globalizzazione è entrata in una fase di turbolenza protezionista, che minaccia una guerra commerciale.

 

Così come l’apertura dell’economia (la globalizzazione) si manifesta in quanto diminuzione dei costi di trasporto delle merci, riduzione crescente delle barriere doganali, costituzione di aree economicamente integrate, crescente disponibilità di prodotti tecnologicamente avanzati ed espansione delle società multinazionali, allo stesso titolo la chiusura dell’economia (il protezionismo) si manifesta come difesa delle “proprie” risorse naturali (materie prime e beni alimentari primari) e dei propri prodotti industriali, tramite i dazi che ostacolano l’importazione dei prodotti stranieri. La condizione secondo la quale ogni paese ha interesse a specializzarsi nel settore produttivo in cui è più concorrenziale e a privilegiare all’estremo le proprie esportazioni molto presto, in realtà, non sarà più in grado di essere soddisfatta; al contrario, si tradurrà in una chiusura nei riguardi della domanda interna.

 

La rappresentazione perfetta della globalizzazione è l’integrazione produttiva di capacità di lavoro diversificate. L’intera economia mondiale è ormai basata su sistemi economico-nazionali interdipendenti e la manifattura internazionale è un gigantesco organismo articolato e coeso. I paesi guida della manifattura (Usa, Cina, Germania, Gran Bretagna, Giappone, Francia, Italia) sono una cosa sola con il capitalismo internazionale. Il meccanismo produttivo globale, che il presidente USA Trump pensa di congelare con i dazi, attaccando le catene globali del valore e pensando così di poter nazionalizzare la produzione collettiva, è tale da portare a contraddizioni sempre profonde nell’economia. Tanto per fare un esempio: la costruzione del Boeing 787, ad esempio, è un puzzle globale di fatica e di sudore, e fa capo a numerose componenti dell’aeromobile (dalla fusoliera alle trasmissioni, dai motori agli sportelli, dai carrelli ai timoni, dalle ali ai portelloni, ecc.), e alla sua costruzione hanno partecipato 12 aziende di altrettante nazioni (Boeing, Rolls Royce, Saab, Subaru, Spirit, Kawasaki, Utas, Leonardo, Safran, Latéocoère, Kal, Chengfei).

Viste su un piano più generale, le importazioni americane dalla Cina (per categorie come i cellulari, i tablet, l’arredamento e le lampade, i modem e le apparecchiature elettriche, le parti e gli accessori dei computer, le calzature, i computer e i lettori magnetici) tenderanno a creare una montagna di merci. La partita produttiva è diventata sempre più complessa, considerando l’infinità di prodotti che vanno dalle auto agli iPhone e ai televisori “fabbricati” in Cina, il cui prezzo conta meno del 4% e che sono semplicemente assemblaggio di un’infinità di parti costruite in altrettanti paesi. La Cina ha un ruolo dominante in questo assemblaggio di merci grazie a una combinazione di salari bassi e di un esteso ambiente industriale costituito da aziende di supporto: ma gran parte del valore in realtà viene da altri posti. Quanto del “disavanzo commerciale” degli Usa è plusvalore per le aziende cinesi? Quanto del “Made in China” è veramente prodotto del solo proletariato cinese? La Cina ha accumulato immense plusvalenze finanziarie (6 delle 10 prime banche del mondo sono cinesi, e tutte statali) con cui sono stati comprati titoli di Stato Usa e investite al di fuori delle infrastrutture e dei salari cinesi.

Il capitalismo, funzionando secondo la dinamica illimitata del “libero scambio”, si è manifestato in questi decenni come imperialismo. Esso nasce dalla necessità dei grandi trust mondiali di spingere sulle altre nazioni la sovrapproduzione interna e la conquista dei mercati. Cause determinanti sono stati la caduta del tasso di crescita dell’economia e l’aumento delle disuguaglianze in tutti i Paesi. Alla diminuzione della crescita si è accompagnata, a causa della riduzione del capitale variabile, l’insicurezza sociale, il calo della domanda interna e l’indebitamento: nulla di strano, quando i salari sono stagnanti e il lavoro è sottopagato, che la domanda possa solo provenire dall’indebitamento nazionale e dal credito, nel tentativo di preservare il proprio livello miserabile di vita. “La questione dei dazi non riguarda l’Europa”, spiegano a Bruxelles: “Essa è tutta legata alla sovracapacità cinese nel settore siderurgico, ai bassi salari cinesi: occorre chiarire i punti oscuri della vicenda, convincere gli americani a penalizzare semmai l’acciaio cinese piuttosto che quello europeo e giapponese”.

La tempesta perfetta che si abbatterà sull’intero sistema economico e sociale mondiale si accoppia, oggi, tanto alla crisi di sovrapproduzione quanto alla spinta che il protezionismo minaccia per l’innalzamento dei dazi americani del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio e per le ritorsioni degli altri Stati imperialisti (tra cui principalmente la Cina) che, grandi produttori di merci, andranno l’uno contro l’altro, in rotta di collisione, “per tentare di riequilibrare” un'economia orientata verso l’export e accusata di dumping (basso costo del lavoro, legislazione protetta dallo Stato, apertura alle nuove tecnologie mondiali). Pur subendo gli effetti sociali della grande crisi del 2007-8, la Cina ha allargato la propria integrazione sui mercati; la sua forza economica si è tramutata in una sequenza di avanzi commerciali, divenendo così una potenza politica che si è consolidata sempre più preparandosi al sorpasso degli Usa. La politica per i prossimi anni, inaugurata di recente da Xi Jinping, ha tra i suoi obiettivi quelli di smontare le barriere del mercato interno, di pianificare ingenti investimenti per la costruzione di infrastrutture in Asia e in Africa, di espandere l’export e consolidare la propria influenza in aree sensibili del globo.

Sotto la spinta della Prima guerra del Golfo e della crisi economica 1990-91, dopo il crollo catastrofico economico e politico della Russia, l’accumulazione reale e finanziaria mondiale degli anni ’90 comincia a crescere esponenzialmente verso il nuovo secolo spalancando la porta alla crisi economica del 2000-1. Quel lungo periodo di accumulazione e la crisi che ne seguì furono essi stessi le cause della Seconda guerra del Golfo (2003) e del disastro che ha sconvolto l’intero Medioriente; ma acceleratrice fu anche la crescita finanziaria che portò alla crisi di sovrapproduzione e ai crolli in borsa su scala mondiale nel 2007-8 – quella crisi che dura da un decennio ed è stata battezzata “la Grande Crisi del XXI secolo”. Gli Usa, con l’arrivo di Trump e la sua proposta di tagliare fino al 15% le tasse alle imprese nazionali e di agevolare il rimpatrio dei capitali, hanno messo in tensione i sistemi fiscali di molti paesi. Il conflitto che serpeggia oggi nei rapporti tra gli Stati rischia di soffocare l’economia mondiale e prende forza a causa del protezionismo che sembra tornare alla ribalta.

Dall’epoca della presidenza Clinton (1993-2001), dunque, la supremazia tecnologica e finanziaria statunitense ha generato un’ingente accumulazione su scala mondiale, culminata nella crisi. Su tutto ha regnato un Nuovo Ordine Mondiale unipolare, centralizzato. Di quell’Ordine, dopo la crisi successiva del 2007-8, rimane ben poco. Il processo poi si è disteso sul piano mondiale, ha scavalcato le dimensioni nazionali insieme alle piattaforme digitali e ha portato al massimo sviluppo l’indebitamento pubblico e privato USA sotto il peso della crisi finanziaria. Alla caduta del saggio medio di profitto, si è piegata l’economia reale e con essa la forza-lavoro con i suoi bassi salari e la sua precarietà. Lentamente, si è sgretolata non solo la realtà sociale americana, ma anche quella di molte grandi potenze imperialiste. L’Europa, a sua volta, ha ampliato i propri squilibri attorno allo sviluppo tedesco come macchina produttiva tra le più efficienti del mondo.

 

La deriva liberista mondiale

Evidenziamo adesso alcuni dati che servono a illuminarci sulle tendenze riguardanti le esportazioni, le importazioni e i disavanzi commerciali tra le grandi aree dell’economia mondiale, riportati da un nostro precedente articolo (1). Sono quattro le aree economiche prese in considerazione: le prime 4 aree per esportazioni di merci sul totale del 2016 sono la Cina (16,8%), l’Unione europea (15,4%), gli Usa (11,6%) e il Giappone (5,2%). Le stesse 4 aree per importazioni sul totale del 2016 sono gli Usa (17,6%), l’Unione europea (14,8%), la Cina (12,4%), il Giappone (4,7%).

La bilancia commerciale positiva della Cina e della Germania è qui un indice della loro capacità di penetrazione nei mercati esteri e la realizzazione del plusvalore. La bilancia negativa degli Usa indica, al contrario, la difficoltà di esportare le proprie merci sui mercati esteri e di trasferire verso di sé il plusvalore.

Dal primo giorno d’insediamento di Trump, Il Sole 24 ore non ha mancato di sciorinare i dati del disavanzo commerciale USA nei confronti dell’Eurozona nel periodo 2006-2016. Leggiamo per esempio: “Partendo da un disavanzo iniziale di 75,64 miliardi di euro, nei tre anni successivi di accumulazione pre-crisi (2006-2009), esso diminuisce fino a 36,23 miliardi, ma negli anni seguenti (2009-2015) risale rapidamente fino a 119,06 miliardi di euro”. Quanto poi ai dati internazionali, essi non fanno che peggiorare: “nel saldo 2016, a essere in surplus negli scambi di merci con gli Usa sono: la Cina (347,04 miliardi $), il Giappone (68,94 miliardi $), la Germania (64,87 miliardi $), il Messico (63,19 miliardi $), l’Irlanda (35,94 miliardi di $), il Vietnam (32,0 miliardi di $), l’Italia (28,45 miliardi $), la Corea del Sud (27,66 miliardi di $), etc.”. I dati del disavanzo americano (paese debitore) e dell’avanzo produttivo della Cina, Giappone e Germania (paesi creditori) mostrano il trasferimento di plusvalore verso l’Eurozona e i paesi asiatici.

In un nostro articolo del 2014 (2), scrivevamo: “Dal 1990 al 2010, quindi in un ciclo di venti anni, la Cina ha aumentato il proprio Pil del 178%, cioè alla media annua del 8,9%, mentre, durante lo stesso ciclo, gli USA l’hanno aumentato del 52,09% (media annua del 2,46%), la UE del 36,14% (media annua del 1,8%), il Giappone del 23,47% (media annua dell’1,17%), l’India del 178% circa (media annua del 6,5%) […]. Se si prende invece in considerazione la crescita del Pil solo degli ultimi dieci anni del ciclo (2002-2011), vediamo per la Cina […] un valore medio del 9% annuo, per gli USA il valore medio è molto più basso (2,1%), per il Giappone non supera l’1% e per la Germania supera di poco, sempre come media del decennio, l’1%. […] In valore assoluto e facendo riferimento al 2011, il Pil cinese è a circa 11.440 ML$ (miliardi di dollari), lontano da quello USA, 15.290 (ML$). Ma con il tempo la distanza è andata e va sempre più diminuendo. Per esempio, nel 2012 il Pil cinese, sempre in valori assoluti in (ML$), pare si porti a 12.471 (ML$), mentre quello USA sale a circa 15.700 (ML$), con un incremento decisamente inferiore a quello cinese. […] Gli altri Stati, comunque, sempre in quanto al valore assoluto del Pil, sono ormai raggiunti e ben distanziati già da alcuni anni: i dati, sempre del 2011, ci dicono che il Giappone è a 4.497 (ML$) e la Germania a 3.139 (ML$)”.

Il debito pubblico negli stessi paesi è il vero indice dei disavanzi. Il fatto che sui mercati mondiali si fronteggino in linea generale dei grandi creditori da un lato (Cina, Giappone, Germania) e un grande debitore (gli Usa) fa sì che il debito rivesta un ruolo internazionale rilevante nello stabilire una dipendenza reciproca degli uni verso gli altri. Non basta. La stessa economia cinese conosce un boom dell’indebitamento per sostenere la crescita a un tasso non inferiore al 7% e lo stesso Giappone ha il più alto rapporto debito pubblico/Pil del mondo. Non c’è creditore che non sia a sua volta debitore, e viceversa. In realtà, il capitalismo ha raggiunto uno stadio di dipendenza dal debito in misura crescente e, considerata l’evoluzione del suo volume mondiale, sopravvive grazie al debito.

Sempre dal nostro articolo del 2014: “La Cina finora non ha avuto problemi riguardo al suo debito pubblico ed estero. Tranne la risalita nel 2011 al 43,5% del Pil e quella, al 56%, nel 2013, dal 2004 al 2010 la media è stata relativamente bassa: 21% del Pil. Per quanto riguarda il debito estero da 2000 al 2012 questo è cresciuto in Cina da 159 a 697,2 miliardi di dollari, mentre gli Usa crescevano da 862 a 14.710 miliardi di dollari e Germania da 3.626 a 5.624 miliardi di dollari e il Giappone da 1.545 a 2.719 miliardi di dollari”.

In altre parole, la Cina non ha mai avuto bisogno di indebitarsi con gli altri Stati, essendo il surplus esportazioni/importazioni sempre attivo negli ultimi decenni (e addirittura in aumento anche negli anni della attuale crisi economica), con entrate quindi di ingenti somme di valuta estera nelle casse statali. L’attuale aumento del debito pubblico cinese è solo indirettamente (e in parte) un effetto del recente declino del Pil. Soprattutto, esso ha motivazioni più interne, legate cioè alla necessità del rilancio delle infrastrutture, dell’economia e dei consumi interni. Il Sole-24 ore del 19/4/2018 (“La mappa dei debiti pubblici”) riporta i dati in valori assoluti (in ML$) e in percentuale sull’anno 2017 relativi agli investitori interni ed esteri. Essi sono: Usa 20.245 (68,8%; 31,2%); Giappone 4.872 (89,5%; 10,5%); Gran Bretagna 1.966 (72,7%; 27,3%); Germania 1.722 (42%; 58%); Italia 1.912 (64,1%; 35,9%); Francia 1.704 (44%; 56%); Spagna 1.107 (57,5%; 42,5%).

L’aspetto importante è la crescita economica del Pil USA in rapporto al debito pubblico e privato. Trump si abbraccia alla speranza di crescita: a fine aprile 2017, dichiara il proprio obiettivo di una crescita economica del 3%, abbattendo il prelievo fiscale dal 35 al 15% e “disinnescando il peso dell’imposizione non solo sulle società ma anche sulle persone fisiche per spingere l’acceleratore sulla crescita”. Gli economisti di Trump non spiegano in che modo il 3% di Pil possa essere raggiunto per l’ammontare del debito pubblico e privato. Difatti, è impossibile ridurre il debito, da una parte diminuendo le “spese per la sicurezza sociale e le spese sanitarie”, tagliando gli “aiuti” all’estero, attaccando l’occupazione nel pubblico impiego, facendo rientrare una parte di truppe dall’estero, e dall’altra aumentando le spese militari e programmando massicce spese per le infrastrutture… E’ più probabile che il debito vada verso quota 25 mila miliardi di dollari, invece di restare sulla soglia dei 20 mila miliardi, ottenuta sotto la direzione debitoria alimentata da tutti i presidenti repubblicani o democratici. Ci vorrebbe una crescita sostenuta, tale da generare entrate fiscali tanto elevate da pareggiare i conti. Ora, il rapporto deb/Pil alla fine del periodo 1950-80, è sempre in diminuzione in quegli anni (e non ritornerà più al 31,8%), perché dal 1980 la percentuale è cresciuta fino al 104,2% di oggi.

Nelle capitali europee, l’atteggiamento di attesa sulle mosse concrete alimenta uno stato di preoccupazione. “Compra americano e assumi americano” è lo slogan che dovrebbe tenere insieme il progetto del completamento del muro con il Messico con il blocco dell’immigrazione proveniente dai paesi dell’America centrale. I massicci investimenti americani si orienteranno verso il finanziamento delle spese militari attraverso tagli alle spese federali: tra gli aumenti, svettano le spese militari con un’impennata del 10%, alle quali vanno sommati 2,6 miliardi per blindare i confini e 1,6 miliardi per completare il muro con il Messico. Ma i tagli non si fermano qui: riguarderanno anche i programmi sociali e quelli per i poveri, che proiettati su dieci anni raggiungerebbero i 4.500 miliardi. La lista nera riguarda anche la rete del welfare (i buoni-pasto che perdono 193 miliardi, pari a un quarto del totale, e la sanità per i meno abbienti – Medicaid – dove svaniscono 900 miliardi). Altri piani di assistenza sono decurtati di 272 miliardi: i sussidi ai disabili (72 miliardi) con più stringenti criteri di ritorno al lavoro e i prestiti agli studenti in difficoltà che dovranno scendere di 143 miliardi

 

 

Marx-Engels: protezionismo e libero scambio

A proposito del libero scambio, così scrive Marx: “Per riassumere: nello stato attuale della società, che cosa è dunque il libero scambio? E’ la libertà del capitale. Quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto che dare via libera alla sua attività. Finché lasciate sussistere il rapporto tra lavoro salariato ed il capitale, lo scambio delle merci fra loro avrà un bel verificarsi nelle condizioni più favorevoli; vi sarà sempre una classe che sfrutterà e una classe che sarà sfruttata. Davvero è difficile comprendere la pretesa dei liberoscambisti, i quali immaginano che l’impiego più vantaggioso del capitale farà scomparire l’antagonismo fra i capitalisti industriali e i lavoratori salariati. Al contrario, il risultato sarà che l’opposizione fra le due classi si delineerà più nettamente ancora. Ammettete per un momento che non vi siano leggi sui cereali, più dogane, più dazi, che insomma siano interamente scomparse tutte le circostanze accessorie, a cui l’operaio può ancora imputare la colpa della propria situazione miserevole, ed avrete strappato altrettanti veli che attualmente coprono ai suoi occhi il vero nemico. Egli vedrà che il capitale divenuto libero non lo rende meno schiavo del capitale vessato dalle dogane. Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? Non è la libertà di un singolo individuo di fronte ad un altro individuo. E’ la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore. […] Non crediate, signori, che facendo la critica della libertà commerciale abbiamo l’intenzione di difendere il sistema protezionista. Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo. D’altronde, il sistema protezionista non è che un mezzo per impiantare presso un popolo la grande industria, ossia per farlo dipendere dal mercato mondiale, e dal momento che si dipende dal mercato mondiale, si dipende già più o meno dal libero scambio. Oltre a ciò, il sistema protezionista contribuisce a sviluppare la libera concorrenza all’interno di un paese. Per questo noi vediamo che nei paesi in cui la borghesia comincia a farsi valere come classe, in Germania ad esempio, essa compie grandi sforzi per avere dei dazi protettivi. Sono queste le sue armi contro il feudalesimo e contro il governo assoluto, è questo un suo mezzo di concentrare le proprie forze per realizzare il libero scambio all’interno dello stesso paese. Ma in generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. E’ solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio” (3).

A sua volta, scrive Engels: “Per lui [Marx] il libero scambio è la condizione normale della odierna produzione capitalistica. Solo con esso ha pieno sfogo l'immensa energia produttiva del vapore, dell’elettricità, delle macchine, al cui rapido sviluppo si accompagnano, conseguenze inevitabili: lo scindersi della società in due classi, capitalisti e salariati; ricchezza ereditaria ed ereditaria povertà; l’eccesso di produzione in rapporto al bisogno dei mercati; la assidua vicenda di prosperità, sovrabbondanza, crisi, panico, depressione cronica, indi graduale ma effimero rialzarsi del commercio, per metter capo di nuovo alla crisi di sovrapproduzione; in breve, l’espandersi delle forze produttive fino a ribellarsi alle catene di quegli stessi istituti sociali onde ricevettero l’impulso: unica soluzione una rivoluzione sociale, liberatrice delle forze produttive dalle pastoie di un ordine sociale antiquato, liberatrice dei produttori attuali, la grande maggioranza della popolazione, dalla schiavitù del salario. E poiché il libero scambio è l’atmosfera naturale per questa evoluzione storica, l’ambiente economico ad essa più propizio- per ciò, e soltanto per ciò, Marx si dichiarò in favore del libero scambio […] Il commercio inglese toccò cifre favolose, il monopolio dell’industria inglese sul mercato mondiale sembrò più che mai consolidato, spuntarono a centinaia ferriere e tessiture, dappertutto nuove industrie allignarono. Una seria crisi scoppiò nel 1857, ma fu superata, e il progresso dell’industria e del commercio si riaccelerò fino al nuovo panico del 1866, un panico destinato pare, a far epoca nella storia economica del mondo”.

E in America?

Sempre Engels: “Il protezionismo, essendo un sistema artificiale per fabbricare industriali, può dunque sembrare utile non solo ad una classe capitalista tuttora in via di sviluppo e in lotta con il feudalesimo, ma eziandio alla classe capitalista nascente di un paese che, come l’America, non ha mai conosciuto il feudalesimo ma che tocca quella fase dell’evoluzione che impone il passaggio dall’agricoltura all’industria. L’America in queste condizioni, si decise per il protezionismo […]. Da qualche tempo questa è la mia opinione. Circa due anni fa dicevo ad un americano protezionista: ‘Sono convinto che, se l’America inaugura il libero scambio, fra dieci anni avrà battuto l’Inghilterra sul mercato mondiale’. Il protezionismo è, nella migliore ipotesi, una vite senza fine, e non si sa mai quando sbarazzarsene. Proteggendo un’industria, direttamente o indirettamente danneggiate tutte le altre e quindi dovrete proteggere anche queste. Ma in tal mondo danneggiate a sua volta l’industria che avete protetta per la prima e siete tenuti a compensarla: ma questo compenso reagisce come prima su tutti gli altri commerci, onde spetta a questi un compenso, e così via all’infinito. L’America sotto questo riguardo ci offre un esempio appropriatissimo del miglior modo di uccidere un’industria importante con il protezionismo […] Ma il peggio del protezionismo è che, una volta introdotto, non vi è facile sbarazzarvene. Se un’equa tariffa è difficile da combinare, il ritorno al libero scambio è immensamente più difficile […] Ma nessun paese potrà attendere, per tornare al libero scambio, il tempo felice in cui tutte o quasi le sue industrie sfideranno la concorrenza estera in mercato aperto. La necessità del cambiamento si farà sentire assai prima, or in questo or in quel commercio, e dal conflitto dei rispettivi interessi sorgeranno le più edificanti contese, i peggiori intrighi di camorre e le più scandalose cospirazioni parlamentari. […] In capitalismo un’industria o si espande o è condannata a sparire. Un commercio non può restare stazionario: un arresto di sviluppo è il principio della sua rovina: il progresso delle invenzioni meccaniche e chimiche, surrogando sempre più il lavoro dell’uomo e sempre più rapidamente accrescendo ed accentrando il capitale, crea in ogni industria stagnante un ingorgo così di lavoratori come di capitali, ingorgo che non trova sbocco perché lo stesso fenomeno comune a tutte le altre industrie. Così il passaggio da un commercio interno ad un commercio di esportazione diventa una questione di vita o di morte per le industrie che vi sono interessate; ma esse urtano nei diritti acquisiti, negli interessi degli altri, che trovano ancora nel protezionismo più sicurezza o profitto che nel libero scambio. Ne segue una lotta lunga e tenace fra libero-scambisti e protezionisti, della quale si impadroniscono i politicanti di mestiere, che muovono i fili dei tradizionali partiti politici e il cui interesse non è che il conflitto si risolva, ma anzi è che perduri; e il risultato di tale sperpero immenso di tempo, di energia e di quattrini è una serie di transazioni, ora favorevoli all’una, ora all’altra parte e tendenti con moto altrettanto lento quanto poco maestoso verso il libero scambio – salvo che il protezionismo, nel frattempo, si renda affatto insopportabile alla nazione, come è appunto probabile stia per accadere in America” (4).

Più chiaro di così!

Dal protezionismo alla globalizzazione…

Quando Marx scrive sulla questione del “libero scambio” nel gennaio del 1848, il sistema capitalistico è ancora al suo nascere, a parte l’Inghilterra. In Francia, la borghesia industriale, una minoranza dell’opposizione ufficiale, si batte in quel contesto storico contro la borghesia finanziaria e partecipa alla lotta di classe “in alleanza” con il proletariato.

L’epoca della transizione tra i due modi di produzione, quello feudale e quello borghese, il primo al tramonto e il secondo nascente tra il XVI e il XVII secolo, viene sottolineata da Marx come epoca pre-capitalista. Lo sviluppo del colonialismo, ben prima del XVI secolo in Africa e dopo con la scoperta delle Americhe, ha contribuito non poco al successo della politica mercantilista, consentendo ad alcune grandi potenze di costituire mercati potenzialmente autosufficienti dove rifornirsi di metalli preziosi e di materie prime per lo sviluppo delle attività produttive. Il mercantilismo fu la politica economica che prevalse in Europa, basata sul dato materiale che la potenza di una nazione è dovuta alla prevalenza delle esportazioni sulle importazioni. L’espansione del commercio internazionale e lo sviluppo dell’industria avvennero lentamente, come lentamente avanzarono la divisione del lavoro e lo sviluppo del mercato. Il protezionismo consentì inoltre allo Stato di intervenire sulle aziende in difficoltà in diversi modi: colpendo con forti dazi doganali i prodotti analoghi fabbricati all’estero e importati nel paese, pagando premi di esportazione per i prodotti di quelle industrie inviati all’estero, talvolta vietando addirittura l’importazione dei prodotti di altri paesi.

Quando Adam Smith formula la teoria del “libero scambio”, spiega che solo la dinamica produttiva aziendale aperta all’esterno può demolire le posizioni protezioniste. Riconducendo la Ricchezza delle nazioni allo sviluppo economico, egli non ha bisogno che dall’alto discenda l’intervento dello Stato, in quanto è solo nel mercato che – spiega –si creano i “meccanismi di autoregolazione” (laissez faire), che assicurano l’equilibrio tra domanda e offerta. Sempre secondo Smith, sono il comportamento individuale e l’iniziativa privata tesa a soddisfare l’interesse individuale a condurre verso il “benessere” nazionale, in quanto nella sua posizione locale quell’interesse egoistico può valutare, meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore, la specie di industria interna che il capitale può impiegare.

Ma non è l’“idea smithiana” a orientare la realtà economica, e nemmeno lo è l’uomo dello Stato interventista difeso dai protezionisti, che possono indirizzare i privati al modo in cui dovrebbero essere impiegati i capitali. La spiegazione più adeguata all’integrazione economica e agli scambi commerciali, è quella fornita successivamente da David Ricardo nella sua Teoria dei costi comparati: è la divisione internazionale della produzione, resa possibile dal “libero movimento internazionale” delle merci, che assicura in ogni paese la realizzazione del migliore sfruttamento delle risorse naturali e l’uso della forza lavoro. A sua volta, nei Principi di economia politica, Stuart Mill scrive che l’importazione di merci estere ha luogo solamente se essa è un “vantaggio razionale”: impedire l’importazione o imporre dazi significa rendere il lavoro e il capitale del paese meno efficienti di quanto sarebbero altrimenti.

Per circa un secolo dalla pubblicazione delle opere di Smith e Ricardo, il termine “mercantilismo” ebbe un connotato negativo. La svolta protezionistica del XIX secolo si ebbe con l’Unione doganale tedesca, lo Zollverein, che riorganizzò il mercato interno tedesco tramite l’abolizione delle frontiere locali. Da allora gli economisti si posero in difesa dello” Stato mercantile chiuso”, convinti che il blocco dei traffici commerciali fosse la condizione necessaria per mantenere lo Stato, isolato dalle perturbazioni esterne, lontano dalle rivalità tra nazioni e quindi dalle guerre. Da ciò, la necessaria difesa di barriere doganali per lo sviluppo delle industrie nazionali. L’industria, soprattutto quella manifatturiera, fu l’elemento essenziale della potenza dello Stato, ancora esclusivamente fondato sull’agricoltura. I dazi erano necessari per sostenere le industrie nascenti, proteggendole dalla concorrenza di quelle straniere: dazi che alla fine sarebbero dovuti essere eliminati, per dar vita a un sistema universale di libero scambio. La svolta provocò una reazione politica ed economica degli altri paesi più avanzati con l’apertura di vere e proprie “guerre commerciali”, da cui nacque il progressivo affermarsi di posizioni nazionalistiche e autarchiche. Il percorso dal 1830 al 1866 è il passaggio dalle industrie domestiche tedesche, fondate sul lavoro manuale, a quelle spietatamente schiacciate dalla concorrenza delle fabbriche a vapore inglesi. La trasformazione della Germania da paese agricolo a paese industriale aprì la strada alla nascita della nazione tedesca, che ebbe il suo battesimo nella guerra franco-prussiana del 1870-71, in cui la lotta del movimento proletario durante i gloriosi mesi della Comune di Parigi esplose in tutta la sua grandezza. Dal 1874 al 1878 il commercio si sviluppò rapidamente raggiungendo quello inglese. Da quegli anni in avanti, il protezionismo domina in tutti gli Stati: in Francia, in Germania, in Inghilterra e in America... In quanto si trattava di Stati esportatori di grano, il commercio marittimo si impose come libero scambio: ma, quando la Germania cominciò a requisire all’estero le grandi provviste di grano, da tutte le parti s’invocò il protezionismo. Anche in Francia gli effetti del protezionismo furono almeno per due secoli al centro della dinamica politica e sociale.

Quanto agli Stati Uniti, dalla fine del ‘700 (e poi in particolare da Lincoln in avanti) fino al 1945, essi sono stati la patria e il bastione della politica protezionista. I dazi doganali, strumenti per redistribuire il reddito, furono introdotti, a favore del nord manifatturiero e a spese del sud esportatore di materie prime. L’acciaio, che per tutta la prima metà del ‘900 fu difeso con dazi molto elevati, oggi con Trump torna a simboleggiare il ritorno verso il protezionismo, che gli Stati Uniti hanno abbandonato nel secondo dopoguerra mettendosi alla guida di un ordine internazionale basato sulla “cooperazione” multilaterale. Questo ritorno alla tradizione fa soffiare oggi pesanti venti di guerra commerciale. La Prima guerra mondiale e il primo dopoguerra furono al centro della violenza dittatoriale degli Stati imperialisti in lotta fra di loro. Le dittature borghesi nelle forme democratiche e socialdemocratiche, fasciste e naziste, dominarono il panorama politico e sociale. Ma prima la Rivoluzione proletaria d’Ottobre e poi la Grande Crisi del 1929-32 si abbatterono politicamente ed economicamente sul teatro europeo, sconvolgendolo e annunciando il secondo conflitto mondiale. Durante la crisi di Wall Street, il presidente Hoover fu costretto ad assecondare l’imposizione di dazi in molti settori e questi rallentarono la ripresa degli Usa spalancando le porte dell’inferno. Anche la Gran Bretagna, da sempre campione del libero scambio, alzò i dazi doganali e lo stesso fecero la Germania e il Giappone arroccandosi nelle proprie aree di influenza. L’Italia fu, in quegli stessi anni ’30, il paese più danneggiato dalla guerra commerciale. All’inizio del II conflitto mondiale, divenne chiara la consapevolezza che la crisi era stata una delle cause della catastrofe e fu gioco forza dare al mondo una nuova struttura politica ed economica. Negli anni di crisi, la politica economica americana volle proteggere le attività produttive nazionali mediante interventi statali ispirati alla logica del Welfare State. Di fronte alla stagnazione economica e alla disoccupazione, la soluzione fu trovata ancora nel protezionismo e nell’isolamento economico delle nazioni.

A Bretton Woods (1944), l’interesse nazionale e internazionale fu ripristinato dando a esso un nuovo assetto monetario e commerciale, che non poteva essere che protezionista. L’interventismo statale in campo economico si propose di conseguire obiettivi che la libera iniziativa privata non era in grado di ottenere – un intervento statale che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso un programma di spesa pubblica, limitando i fattori inflattivi e contenendo quelli deflattivi. Con il secondo dopoguerra, tuttavia, la comunità economica si pose in parte anche su posizioni liberiste e ci si spinse a ridurre le barriere commerciali beneficiando dei vantaggi del libero scambio, accordi generali sulle tariffe e sul commercio, riorganizzazione del commercio mondiale affidato all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) con il compito di vigilare contro interventi protezionistici e limitazioni del commercio. I meccanismi di politica economica sono stati sempre accompagnati a tutela di singoli settori o prodotti, soprattutto per l’affiorare di posizioni protezionistiche nei periodi della depressione economica mondiale (1974-75), come avvenne a causa delle crisi petrolifere. L’inversione di tendenza si ebbe a metà degli anni ’80, con il pieno sostegno da parte di alcuni governi (Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Usa) a iniziative economico-politiche ispirate a criteri di neo-liberismo. Iniziative confermate, nel corso degli anni ‘90, dalle dinamiche di crescente globalizzazione dei mercati, istituzionalizzatasi in una serie di ampie aree di libero scambio in ambito europeo (Unione Europea e Gatt) ed estendendosi nelle Americhe e in Asia.

e di nuovo indietro, verso il protezionismo?

Fin dall’inizio della sua presidenza, Trump ha disposto il ritiro dalla Tpp (Trans Pacifico Partnership), dal Ttip (Trattato transatlantico) e dal Nafta (North American Free Trade Agreement). Un gigantesco atto di politica protezionistica investirà l’area del Pacifico – lasciando aperto l’intero spazio di liberalizzazione economico e commerciale alla Cina – e dell’Atlantico – lasciando libero lo spazio commerciale all’Europa tedesca – oltre all’area americana, che comprende gli Usa, il Canada, e il Messico. La probabile uscita degli Usa dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) produrrebbe, oltre alla disgregazione dei rapporti commerciali, anche l’imposizione di tariffe sulle importazioni. Se poi aggiungiamo l’uscita dall’accordo di Parigi sul clima, il panorama dell’isolazionismo americano si farebbe più ampio, e più solido sarebbe il legame tra la Germania e la Cina in attesa degli aggiustamenti dei trattati rispettivi, cedendo alle richieste degli Usa o subendo le restrizioni imposte dai dazi. Sciogliere, dunque, tutti i trattati commerciali, liquefare tutte le relazioni di scambio: queste sembrano le indicazioni protezioniste di Trump. Isolazionismo, nazionalismo, contrazione del commercio mondiale, chiusura delle frontiere, ritorno allo scambio di materie prime, dis-organizzazione del sistema finanziario, svalutazioni competitive: questi gli spettri agitati dai libero scambisti. E gli spettri protezionisti? La crescita illimitata senza regole fa della forma-Capitale un mostro che rischia di sfociare in una guerra; il calo del saggio di profitto e l’impossibilità di trovare nuovi sbocchi sono i supplementi che spingeranno verso la guerra. L’attuale massiccia produzione di armi letali e la spinta alla ricostruzione, che seguirà alle distruzioni massicce prodotte dalla guerra, farà il resto. Ma questo è ancora globalizzazione! Le misure protezionistiche non si riducono alle tariffe doganali e alle quote d’importazione: a esse si affiancano anche le leggi che limitano gli investimenti delle imprese straniere e le sovvenzioni ai produttori, ma anche le svalutazioni, le misure sociali o fiscali e non ultime le norme tecniche e sanitarie. Per dirla grossa: si pensi ai “fondi di convergenza sociale” in seno all’Unione Europea, alla “rilocalizzazione della produzione” (che non è il kilometro zero!), al “rafforzamento cooperativo” tra i grandi attori industriali, alle “strategie comuni” in materia di produzione e conquista dei mercati. Il protezionismo, in una parola, è l’adozione della “preferenza comunitaria europea” in tutti i campi, ovvero lo scontro tra i colossi industriali. L’obiettivo è quello di regolare gli scambi commerciali immaginando grandi zone geografiche di dimensione sufficientemente estesa. Il mostro globale in chiave nazionalista o il mostro nazionale in chiave globalista?

Facciamo alcuni esempi.

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La Rust Belt (cintura di ruggine) è un’espressione che indica la regione degli Usa compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi e si riferisce a fenomeni come il declino dell’economia, lo spopolamento e il decadimento urbano, dovuti alla contrazione del settore industriale, un tempo molto attivo. Questa regione era conosciuta in passato come il cuore industriale statunitense, dalla metà del XX secolo. Da qui è partita la delocalizzazione delle più grandi manifatture americane, qui è cresciuta l’automazione e qui è cominciato il declino delle acciaierie e delle industrie del carbone. In quest’area, una massiccia occupazione proletaria si era estesa sull’intero territorio, preceduta da un’intensa immigrazione, cui ha fatto seguito la precarietà del lavoro e la povertà. Le economie locali si sono specializzate, poi, in produzioni su larga scala di prodotti finiti per l’industria pesante, di beni di consumo e di trasporto di materiali grezzi. Le diverse aree hanno preso il nome di cintura della produzione, delle fabbriche, dell’acciaio o del granoturco, mentre le grandi pianure prendevano il nome di granaio d’America. Lo sviluppo delle industrie in quest’area è stato in parte dovuto alle vie d’acqua, ai canali, alle strade asfaltate e alle ferrovie. Qui, le infrastrutture dei trasporti collegarono i minerali di ferro o del carbone estratto, qui furono connesse le grandi città industriali, e per decenni gli immigrati garantirono agli impianti industriali riserve di manodopera a basso costo. Si tratta di un’illusione ottica, spiega Paul Krugman: “non c’è alcuna possibilità di riportare indietro tutte quelle fabbriche siderurgiche e tutti quei posti di lavoro perduti anche se bloccassimo completamente le importazioni. In parte perché un’economia moderna non usa così tanto acciaio, in parte perché possiamo produrre acciaio usando molti meno lavoratori e in parte perché i vecchi stabilimenti sono stati sostituiti da mini fabbriche che usano rottami ferrosi e sono collocate in altre zone. Insomma, è soltanto una fantasia” (5).

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Sul piano del deficit commerciale americano qual è il rospo che la Cina dovrà ingoiare? Semplice: l’amministrazione Usa vorrebbe che la Cina diminuisse il suo surplus di 100 miliardi di dollari, surplus che ammonta a 375 miliardi di dollari. Basterebbe che gli Usa aumentassero le loro esportazioni, basterebbe spingere per ottenere l’apertura del mercato cinese. Le regole del Wto debbono essere ugualmente rispettate: non si può discutere di riduzione delle tariffe al di fuori di un’intesa generale. Oltretutto, c’è un comune interesse euro-americano a difendersi dallo sviluppo economico e tecnologico della Cina. Bruxelles e Washington negano infatti a Pechino lo status di economia di mercato e l’accusano di sostenere la propria crescita con pratiche scorrette (cyber-spionaggio, sussidi pubblici, manipolazione dello yuan, scippo di tecnologie). Usa ed Europa sono preoccupati per l’acquisizione di società di punta in settori strategici e innovativi da parte di gruppi cinesi. La competizione cinese si basa soprattutto sull’hi-tech e sul “Made in China 2025”, un piano di investimenti per promuovere lo sviluppo dei settori chiave (intelligenza artificiale, aerospazio, energia e settore biomedico) e la Cina non può fare concessioni su questo campo. Sulla proprietà intellettuale, gli Usa gridano che a centinaia di miliardi l’anno ammonta il furto dei segreti industriali, e non è questione né di copyright né di marchi, ma di trasferimenti di tecnologie strategiche non sottoposte a controlli da parte delle autorità cinesi.

Gli Usa sostengono che la loro dipendenza dall’importazione di acciaio e di alluminio è cruciale, e che l’assenza della siderurgia è un pericolo per la sicurezza nazionale, perché queste materie prime vengono impiegate non solo per l’industria metalmeccanica ma anche per l’industria bellica. I dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, entrando in vigore, permetterebbero di rivitalizzare l’industria americana che nel corso degli anni si è fortemente ridimensionata. I dazi alle importazioni europee, a loro volta, sarebbero devastanti per i consumatori americani: le misure protezionistiche non porterebbero ad aumentare i posti di lavoro del manifatturiero negli Usa, ma nemmeno lo farebbe la riapertura delle miniere di carbone, su cui vorrebbe puntare Trump. Si guadagnerà qualche posto di lavoro nell’industria siderurgica, ma si perderanno posti di lavoro in molti altri settori, come ad esempio nell’industria automobilistica. Quasi tutti gli studi sui dazi sull’acciaio indicano che al netto hanno fatto perdere posti di lavoro.

L’economia verrebbe aiutata solo temporaneamente dai dazi, perché il deficit commerciale americano negli ultimi 35 anni non ha smesso di aumentare. La vera questione è, dunque, che l’economia americana a livello globale non regge, e arranca invece dietro i surplus commerciali mondiali degli altri paesi. Denunciando le iniziative di Washington e cercando soluzioni condivise al problema della sovrapproduzione mondiale di acciaio, l’industria siderurgica europea non può che rispondere preoccupata a quest’attacco. La responsabilità della crisi della siderurgia, e non solo, viene addossata alla sovrapproduzione cinese. L’Europa, tuttavia, non ha intenzione di affrontare Pechino con il bazooka dei dazi, con il rischio di scatenare una dura guerra commerciale e abbattere il sistema dell’organizzazione multilineare della Wto. L’isolazionismo americano segnala, in questo frangente, la netta separazione tra gli imperialismi dominanti e la chiusura di un’epoca di reciproci vantaggi derivanti da consolidati equilibri. Il protezionismo, cui sembra indirizzarsi il capitalismo americano, tuttavia, esprime qualcosa di più dell’avvisaglia di nuove guerre commerciali: gli Usa non ricoprono più, infatti, il ruolo di locomotiva della produzione mondiale, ruolo comunque finanziato a debito, e il cercare di tornare a esserlo a partire da una politica di riarmo giunge come una minaccia verso l’antica alleanza economica e militare tra Stati Uniti, Europa Occidentale ed Area Pacifico. A titolo di ritorsione per un valore di 6,4 miliardi di euro, l’Unione Europea ha preparato una lista di prodotti made in Usa da colpire.

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Nella dinamica dei disavanzi Cina-Usa vanno a segno i dazi dimezzati sulle auto importate del 25%, e nelle automotive, ma anche nell’aviazione e nella cantieristica navale, nei servizi finanziari e nella difesa dei diritti di “proprietà intellettuale”. Non si discute più del tasso di cambio dello yuan nei rapporti di cambio tra le monete, puntando semmai sui difficilissimi nuovi patti commerciali. I tassi incrociati import/export dei diversi paesi nelle ultime settimane hanno prodotto sconquassi – dicono i cosiddetti economisti – in quanto Pechino sarebbe colpevole di pratiche commerciali sleali. Come risponde la Cina ai muri di Trump? Con una maggiore politica di apertura dei mercati, e non poteva che essere così: occorre fornire un incentivo alle ditte occidentali per investire in Cina, dato che dal 2008 la Cina è il primo mercato per numero di veicoli prodotti, il più grande mercato per le vendite, orientate alle regole antismog verso i veicoli elettrici. Ma Trump ha continuato ad attaccare i paesi europei e asiatici, Germania e Cina in testa, responsabili di danneggiare gli Stati Uniti nelle relazioni di scambio: è di oltre 150 miliardi di dollari il deficit commerciale degli Usa nei confronti della UE, ed è lunga la lista dei punti di divergenza, se non proprio di attrito. Non poteva poi mancare la questione dell’utilizzo degli Ogm: gli Usa la considerano una ingiustificata barriera al proprio export di mais e soia per i vincoli che ne limitano l’impiego in Europa in nome della salute, e discorso analogo viene fatto per la carne di manzo agli ormoni.

Questa situazione non è altro che il riflesso dell’incapacità delle borghesie nazionali, organizzate negli Stati imperialisti, di superare le proprie contraddizioni. Al di là delle loro parole, i fatti stanno preparando il passaggio dalla guerra commerciale alla guerra guerreggiata. Tant’è vero che perfino su Il sole 24 ore del 5/5 u. s., a proposito di “Quello che gli Stati Uniti vogliono dalla Cina” (p.4), si può leggere: “Più che una piattaforma negoziale, il documento presentato [dalla delegazione americana nel primo round del confronto economico bilaterale tenutosi a Pechino – NdR] alla controparte cinese (e che Pechino respinge) sembra un pacchetto di richieste di riparazioni di guerra imposte a uno Stato sconfitto, con tanto di scadenze da rispettare”.

C’è bisogno di ulteriori commenti?

Note

(1) Cfr. “‘America First!’ ed Europa tedesca”, Il programma comunista, n.4/2017.

(2) “L’economia cinese dal 1949 alla crisi economica generale attuale (III)”, Il programma comunista, n.6/2014. Le fonti utilizzate sono: The Conference Board Total Economy Database, gennaio 2010; e CIA World Factbook.

(3) K. Marx, “Discorso sulla questione del libero scambio”, 9 gennaio 1848.

(4) F. Engels, “Dazio protettivo e libero scambio” (1888, prefazione all’edizione statunitense del “Discorso sulla questione del libero scambio” di K. Marx, citato sopra).

(5) Paul Krugman, “Sulla Cina si rischia l’‘effetto ottico’”, Il Sole-24 ore, 25/3/2018.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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