DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Di qua e di là dal Reno è in corso, mentre chiudiamo questo numero (20 novembre), una lotta molto importante: nei medesimi giorni, i ferrovieri di Francia e Germania stanno bloccando quasi completamente il traffico su rotaie. Uno dei tanti giornali-spazzatura di cui sono piene le edicole italiane titolava: “Colpo al cuore dell’Europa!”. E’ un’esagerazione, tipica del giornalismo che vuole a ogni costo suscitare sconcerto e sensazione. Ma una parte di verità c’è: ed è quella che più fa paura alla classe dominante – quella stessa verità che una pratica politica riformista ha nascosto e volutamente dimenticato.

I proletari in lotta hanno eccome la possibilità di “colpire al cuore” lo status quo. Nella lotta, cresce la consapevolezza dell’enorme forza potenziale racchiusa nel numero e nella collocazione dentro il processo di produzione e distribuzione delle merci e dentro quella rete di connessioni che si riassume nell’espressione “servizi pubblici”. Nella lotta, essi comprendono la necessità dell’organizzazione, che superi via via gli steccati della mansione, della categoria, dell’azienda, della città, della regione, della nazione. Nella lotta, l’internazionalismo, da concetto astratto e a volte (in un mondo appestato dallo schifo del localismo e del nazionalismo) difficile da afferrare, si fa realtà vivente, oltre che esigenza concreta. E’ questo l’insegnamento più grande che matura sulle due rive del Reno.

Ma a esso deve accompagnarsi anche, ed è l’elemento decisivo, la comprensione che la lotta e l’organizzazione da sole non bastano: a esse deve aggiungersi la direzione, l’intervento di quell’organo politico che solo è in grado di far uscire le lotte dal ghetto chiuso della rivendicazione economica (cui il nemico di classe – il capitale, sia esso pubblico o privato – potrà anche cedere, ma soltanto sotto la pressione della lotta, e facendo poi comunque di tutto per rimangiarsi domani ogni concessione strappata dai lavoratori oggi), per proiettarle verso una dimensione ben più alta e diversa, verso la strada della preparazione rivoluzionaria.

Vediamo ora più da vicino quanto sta avvenendo.

In Francia, dopo il grande sciopero del 18-19 ottobre, in cui i ferrovieri della Sncf e della parigina Ratp, insieme ai lavoratori delle aziende energetiche collegate (Electricité de France e Gaz de France), avevano pressoché paralizzato la rete ferroviaria nazionale (e parigina in particolare), ecco che i ferrovieri sono di nuovo scesi in lotta. Allora, l’adesione era stata del 73,5% (cifre ufficiali): in servizio era rimasto solo il 5% dei treni, avevano viaggiato solo 46 TGV su 700, ed erano stati cancellati quattro treni Londra-Parigi. Oggi, i ferrovieri sono protagonisti di un nuovo sciopero nazionale, iniziato alle 20 del 13 novembre, seguiti il 14 dai lavoratori del trasporto pubblico di Parigi e dai dipendenti di Edf e Gdf: la prospettiva, mentre scriviamo, è di protrarlo per almeno 62 ore, ma l’agitazione si è trasformata in una vera lotta a oltranza. I motivi dello sciopero sono sempre gli stessi: il sistema pensionistico introdotto dopo la Seconda guerra mondiale (fiore all’occhiello del welfare state francese) prevede che chi ha un lavoro usurante possa andare in pensione con 37,5 anni di contributi invece dei 40 anni richiesti agli altri lavoratori. Ma ora il governo (braccio esecutivo dello stato, che a sua volta è il comitato d’affari del capitale) deve tagliare a destra e a manca e sotto i suoi colpi dovrebbero anche cadere i “privilegi” di chi fa un lavoro usurante! Liberté, fraternité, égalité, nel nome del Capitale! Se riuscirà a durare fino ad allora, lo sciopero dei ferrovieri si salderà poi a quello dei lavoratori della Funzione Pubblica che incroceranno le braccia per un giorno contro il piano di 23mila esuberi nel settore per l’anno prossimo.

In Germania, i macchinisti dei treni, che – come scrivevamo nel numero scorso – avevano già scioperato ai primi di ottobre bloccando buona parte del traffico passeggeri, sono tornati alla carica, con altri due giorni di sciopero nel settore merci, fra il 10 e l’11 novembre, che (sempre mentre scriviamo) stanno protraendosi oltre i limiti dichiarati inizialmente. Anche qui, ricapitoliamo la complessa vicenda: i macchinisti in sciopero aderiscono alla GdL e sono in agitazione da luglio, chiedendo aumenti salariali fino al 31%, il ritorno dell’orario di lavoro alle 40 ore settimanali con l’abolizione dell’aumento di un’ora introdotto anni fa e un contratto separato rispetto a quello firmato da altri due sindacati (Transnet e GdBA), molto disponibili alle esigenze aziendali. Alla GdL, aderisce circa l’80% dei lavoratori, che sono fra i peggio pagati d’Europa.(circa 1500€ all’inizio della carriera, in mansioni particolarmente gravose). Va anche ricordato che il settore merci delle ferrovie tedesche è gestito da una ditta, la Railon, a partecipazione statale: vi lavorano circa 5500 macchinisti, di cui il 45%, “assunti quando le ferrovie erano ancora un ente statale, conservano lo status di pubblici funzionari, e non possono scioperare, che siano o meno iscritti alla GdL” (Manifesto, 10/11): lo sciopero è stato quindi messo in pratica da “non più di 800-1000 aderenti abilitati a scioperare per ogni turno”. Inoltre, i lavoratori si sono trovati naturalmente contro i tribunali, che avevano vietato scioperi sui “tratti a lunga percorrenza e nel settore merci”, salvo poi vedere le proprie ingiunzioni annullate dal tribunale regionale del lavoro, preoccupato di creare situazioni di eccessiva tensione. Il diritto di sciopero in Germania è regolato da leggi molto restrittive: può essere proclamato solo dopo una complessa dinamica di trattative obbligatorie e previo consenso del 75% degli iscritti al sindacato. Ah, il modello tedesco!

Non si tratta quindi di due storie diverse, o solo episodicamente parallele, ma di un unico, importante esempio di lotta proletaria. Certo, è una lotta limitata e di retroguardia: si tratta infatti di non perdere e di non peggiorare (e inoltre i lavoratori in lotta restano chiusi dentro il recinto delle “categorie”). Ma per noi comunisti è fondamentale sottolineare e propagandare la radicalità del metodo seguito. E’ forse presto per dire se è questo il segno che l’Europa sta finalmente tornando a occupare il centro del “mar delle tempeste” (noi ce lo auguriamo e opereremo, per quanto sta a noi, perché sia così): quel che è certo è che esso impone la prospettiva e manifesta la necessità dell’organizzazione, estensione e raccordo delle lotte – lotte che i bisogni economici renderanno sempre più diffuse. Non è per nulla poco.

Viva i ferrovieri francesi e tedeschi!

PS: Il 21 novembre, sono poi scesi in sciopero anche i ferrovieri ungheresi, contro la progettata chiusura di trentotto linee ferroviarie con conseguente riduzione del personale. A essi, si sono aggiunti i lavoratori della sanità, della scuola, del trasporto pubblico, in lotta contro la riforma delle pensioni. Ben scavato, vecchia talpa!

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2007)

 

 

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