DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Ripubblichiamo un articolo uscito su queste stesse pagine nel n. /1974, mentre cioè stava chiudendosi il ciclo espansivo del secondo dopoguerra e andava profilandosi l’apertura di una diversa fase, segnata da un andamento ad alti e bassi di una crisi economica, in cui siamo immersi tutt’oggi e che apre inevitabilmente la strada all’unico scioglimento noto al capitale per risolvere le proprie crisi strutturali: una nuova guerra interimperialistica. Compito dei rivoluzionari è analizzare correttamente il procedere e l’approfondirsi della crisi economica e attrezzare il partito a lavorare tra le file della classe proletaria, per guidare e dirigere la crisi sociale, che si sprigionerà dalla crisi economica in maniera non automatica e meccanica. E’ proprio questo il senso – vitale per ogni prospettiva rivoluzionaria futura – dell’articolo, che ci sembra importante ripubblicare proprio in questa fase in cui a dominare è ancora la palude della controrivoluzione, con tutti i riflessi che questa ha anche sul radicamento e sullo sviluppo internazionale del partito rivoluzionario.

 

 

 

Quando si profilano, accumulandosi, i segni di una crisi ciclica del modo di produzione capitalistico (e oggi [1974] questi segni non mancano certo, benché rientri nella consumata esperienza della classe dominante l’arte di ingigantirne la portata per trarne un argomento a favore della concordia nazionale, dell’austerità di vita e della “comune” astinenza), non è facile resistere alla tentazione di attendersi un incontro meccanico e per così dire automatico tra “catastrofe” economica e “catastrofe” sociale e politica. La questione – per questo ne parliamo – non è accademica: dalla prognosi, più o meno agghindata di vesti teoriche, sul “crollo imminente” è accaduto fin troppo di frequente che fosse determinata in senso negativo e non di rado rovinoso la tattica e addirittura la strategia dei partiti operai.

Sul piano dottrinale, l’“errore” (usiamo il termine per evitare l’oziosa esercitazione del giudizio sulla mala o buona fede di chi lo sostiene) ha in parte radice nell’interpretare la frase di Marx secondo cui “una formazione sociale non muore mai prima che siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è sufficiente a contenere” (prefazione a Per la critica dell’economia politica, 1859) non già per quel che dice, cioè – per usare la frase del Manifesto – che “la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio” perché gli angusti confini dei rapporti borghesi possano contenerli; o, in altre parole, che la crisi scoppia per l’urto violento tra le forze produttive associate in frenetica ascesa e modo di produzione a appropriazione dei prodotti paurosamente statico nella sua ristrettezza privata, ovvero, come abbiamo scritto altra volta, per l’insanabile contrasto fra “vulcano della produzione” e “palude del mercato”[1]; ma nell’interpretarla, quella frase, per l’opposto di quel che appunto afferma.

La curva storica del capitalismo, secondo questa visione distorta, ma che si presume pomposamente “scientifica”, si svolgerebbe nella forma tipicamente “evoluzionistica” di una normale sinusoide: la forza produttiva sociale del lavoro, sia pure con saltuarie oscillazioni, cresce fino ad un vertice matematicamente insormontabile, poi rallenta il suo corso e infine gradualmente declina tendendo a zero – ecco allora l’arresto, ecco la crisi, che è dunque sinonimo di un esaurirsi dello slancio grandioso di cui il capitalismo era pur stato il protagonista mondiale.

Come spesso avviene, gradualismo e fatalismo si incrociano accavallandosi in questa prospettiva. E non è un caso che convergano nella sua accettazione l’anticatastrofismo socialdemocratico e centrista [2] e il falso “catastrofismo” immediatista. Per il socialdemocratico d’antico pelo, al punto zero della crisi è scritto negli astri il tranquillo passaggio del potere dalla borghesia agonizzante al proletariato ormai da tempo preparato a raccoglierne l’eredità. Per il centrista di pelo sempre verde, al punto zero né la rivoluzione né la dittatura sono “escluse”, ma solo come accidente temporaneo; quando poi ci si arriva, l’una e l’altra scompaiono dal suo orizzonte, ed eccolo affrettarsi a proporre misure di emergenza, riforme di struttura, combinazioni ministeriali, ecc., col pretesto che comunque il morto è già morto, e più si conserva di ricchezza sociale ereditata, più si salva di forze produttive, minori saranno le doglie del parto della società nuova, se mai doglie saranno. Per l’immediatista, infine, al punto zero la rivoluzione e perfino la dittatura sono benvenute e inevitabili, e tutte le condizioni oggettive e soggettive ne saranno automaticamente presenti; l’albero dell’economia associata attende solo d’essere scrollato perché il frutto maturo cada in grembo all’erede.

Per tutti, la conclusione è data come il passaggio di un astro nella lucente fascia dello zodiaco: per gli uni, il “passaggio al socialismo” è un atto notarile di registrazione del decesso di un fatto avvenuto che non poteva ormai non avvenire; per gli altri, è il prodotto di forze scaturite per determinazione non meno fatale dal felice snodamento di quel fenomeno per eccellenza naturale che è l’agonia di un organismo vivente. I primi – socialdemocratici e centristi – “preparano”i tecnici e gli esperti del trapasso nel tepore ovattato delle cooperative, dei parlamenti, dei sindacati, dei comuni; i secondi attendono dal trapasso che prepari da sé i suoi tecnici e i suoi esperti, persone fisiche o misteriosi organismi che siano: al massimo, li vedono già prefigurati nei meccanismi umani e materiali del “potere in fabbrica”. Per quelli, l’evento è almeno prevedibile come dato di fatto e come forma fenomenica; per questi è previsto come dato di fatto, è imprevedibile come forma fenomenica. Exit la borghesia; intrat il proletariato. La scena storica ha ben poco da invidiare alle classiche scene teatrali.

 

***

La corretta interpretazione marxista è un’altra, e la si trova formulata con estrema chiarezza nel nostro testo “Teoria e azione nella dottrina marxista” (1951), e particolarmente negli schemi raffiguranti, l’uno “la falsa teoria della curva discendente del capitalismo”, l’altro “l’avvicendamento dei regimi di classe nel marxismo rivoluzionario” [3]. Vi si legge: “Marx non ha prospettato un salire e poi un declinare del capitalismo, ma invece il contemporaneo e dialettico esaltarsi della massa di forze produttive che il capitalismo controlla, della loro accumulazione e concentrazione illimitata, e al tempo stesso della reazione antagonistica, costituita da quella delle forze dominate che è la classe proletaria. Il potenziale produttivo ed economico generale sale finché l’equilibrio è rotto, e si ha una fase esplosiva rivoluzionaria, nella quale in un brevissimo tempo precipitoso, col rompersi delle forme di produzione antiche, le forze di produzione ricadono per darsi un nuovo assetto e riprendere una più potente ascesa”.

In questa visione potentemente dialettica, lontana le mille miglia dal fatalismo quanto dal volontarismo, il ciclo storico del capitalismo si presenta nell’insieme come un’erta cuspide, percorsa da oscillazioni più o meno brusche ma a scadenza periodica sempre più vicina, che fa di esso il modo di produzione più caotico e insicuro di tutta la storia; e la possibilità che al vertice della cuspide si verifichi il crollo piramidale del sistema è legata non già al bruto accumularsi di contraddizioni economiche, ma alla doppia condizione che scenda in campo, armata e organizzata, la più grande forza produttiva generata dalle viscere della società borghese, la classe proletaria, e che avvenga il suo incontro con l’organo-guida della battaglia conclusiva, il partito.

È qui che si innesta il secondo e più grave “errore”gradualista e fatalista: quello “di connettere con puro formalismo il processo economico e quello politico” [4]. Peggio ancora, di supporre che il “processo economico” si svolga nel vuoto, come fatto a sé stante, anziché nel gioco complesso di azioni e reazioni fra struttura e sovrastruttura; quasi che capitale costante e capitale variabile fossero corpi solidi o liquidi o gassosi, invece che forze storiche, e la loro contesa un urto fra “categorie metafisiche” invece che fra classi materiali: quasi che, ancora, la borghesia crescesse parallelamente, punto per punto, con la dinamica delle forze produttive, e il proletariato, punto per punto, con la crescita (o con il declino) della borghesia, e dunque la condanna pronunziata dalla storia contro quest’ultima si eseguisse da sé – per… raggiunti limiti di età. Il che significa, contro ogni vigorosa smentita engelsiana, ridurre il materialismo dialettico a volgare materialismo economico.

Non certo per indurre i militanti accorsi a Mosca dall’Europa centrale a cedere le armi, ma al contrario per richiamarli alla coscienza delle pesanti responsabilità di preparazione e predizione che incombono al Partito comunista, Trotsky illustrava in un discorso immediatamente successivo al III Congresso dell’Internazionale – ma sostanzialmente ricalcato sulla traccia sicura del rapporto sviluppato in quella sede – l’apparente “paradosso” (in cui è il senso stesso dell’“imperialismo, fase estrema del capitalismo”) di una borghesia presa alla gola dai propri antagonismi interni, lacerata nella propria struttura produttiva, dislocata nei rapporti internazionali fra gli Stati, e tuttavia al vertice delle sue capacità non solo di difesa, ma di attacco nei confronti della classe nemica; di una borghesia che si sa – o si intuisce – condannata, ma che si rifiuta di accettare inerme il verdetto, e il cui equilibrio dinamico – di volta in volta distrutto, ricostruito, nuovamente distrutto e nuovamente ricostruito, in uno sperpero bestiale di forze produttive – mostra tuttavia una “grande forza di resistenza, di cui la prova migliore è il fatto che il suo dominio non è ancora crollato” [5].

Non era un paradosso, scriveva l’organizzatore dell’Armata Rossa pochi mesi dopo che la stessa tesi era stata svolta sul nostro organo di stampa, Rassegna Comunista (non perché fra Mosca e Milano corresse una “linea calda”, ma perché uno solo era il metro di giudizio ed uno solo il linguaggio): così voleva la forza della dialettica. “Anche se la borghesia è in antitesi completa con le esigenze dello sviluppo storico, resta pur sempre la classe più forte. Non solo, ma si può dire che, dal punto di vista politico, la borghesia raggiunga il vertice della sua potenza, il vertice della concentrazione delle sue forze e dei suoi mezzi politici e militari, di inganno, violenza e provocazione, cioè l’apogeo della sua strategia di classe, nel momento in cui la minaccia di un crollo sociale pesa più immediata su di lei. La guerra e le sue spaventose conseguenze […] hanno svelato alla borghesia il pericolo incombente della rovina. È questo che ha acuito al massimo il suo istinto di conservazione. Quanto è maggiore il pericolo, tanto più la classe, come il singolo, affina le proprie energie vitali per la sua lotta di conservazione. Non dobbiamo inoltre dimenticare [è questo il grande privilegio della classe dominante] che la borghesia si è vista in pericolo di vita dopo di avere acquisito una enorme esperienza politica. La borghesia ha creato e distrutto ogni sorta di forme di governo: si è sviluppata sotto l’assolutismo puro, sotto la monarchia costituzionale, sotto la monarchia parlamentare, sotto la repubblica democratica, sotto la dittatura bonapartista, nello Stato alleato con la chiesa cattolica, nello Stato che perseguitava la chiesa ecc; tutta questa ricca, multiforme esperienza, penetrata nel sangue e nella carne della casta dirigente della borghesia, è ora mobilitata da essa per mantenersi ad ogni costo al potere. Ed essa agisce con tante più doti inventive, raffinatezza, mancanza di scrupoli, quanto più i suoi capi riconoscono il pericolo che la minaccia”.

Cinquantadue anni [ricordiamo che l’articolo è del 1974 - NdR] sono passati da allora: dalla repubblica socialdemocratica alla Noske-Scheidemann [6], la borghesia è passata a quella combinazione di violenza e riformismo che ha preso nome da Mussolini e da Hitler e di qui a quell’altra combinazione di riformismo e di violenza che prende nome dai vincitori del secondo massacro mondiale [le potenze alleate, USA in testa - NdR]: condannato dal tribunale della storia il suo modo di produzione, la borghesia rimane tuttavia in sella. Decisamente (come può spiegare soltanto la dialettica), economia, politica, stato, classe, sovrastruttura ideologica e giuridica, non corrono paralleli come gli armonici fili di una trama: si intrecciano e si sovrappongono in un gioco intricato di effetti che si tramutano in cause, di cause che generano effetti contrastanti, di anarchia economica che stimola la disciplina politica, di fattori di squilibrio che sprigionano fattori di compenso.

Inversamente, quando Marx completa la frase di Per la critica dell’economia politica con l’inciso: “E nuovi e superiori rapporti di produzione non la sostituiscono [la formazione sociale precedente] prima che le loro condizioni materiali di esistenza siano maturate in grembo alla vecchia società”, egli non fissa un termine meccanico o puramente quantitativo all’atto di successione della classe le cui condizioni materiali non solo di esistenza, ma di ascesa al potere, sono già presenti “o almeno in procinto di divenirlo” in seno alla società borghese: meno che mai lo stabilisce in funzione della sola dotazione di forze produttive sociali del lavoro grazie alla quale può sorgere un nuovo modo di produzione e di vita associata.

Lo può credere soltanto chi, ancora una volta, “connette con puro formalismo il processo economico e quello politico”, dimenticando che per Marx, se “la classe operaia possiede un elemento di successo, il numero” – e la dinamica stessa di sviluppo del capitalismo lo aumenta senza posa – , d’altra parte “i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza[7]; e la prima (l’organizzazione) sul piano strettamente economico è costantemente minata dalla concorrenza reciproca fra proletari, la seconda – la conoscenza, posseduta soltanto dal partito, e da esso importata nell’avanguardia della classe – è in pericolo costante d’essere distrutta, anche quando e là dove è acquisita, dal peso immenso dell’inerzia storica dell’ideologia dominante, con riflessi profondi e duraturi che dell’organizzazione medesima fanno, o rischiano di fare, un elemento non di impulso ma di freno.

Lo può credere soltanto chi dimentica che già Marx ed Engels avevano registrato il fenomeno di una “aristocrazia operaia” nata sul tronco dei profitti dell’espansione commerciale e coloniale, e dell’afflusso di giovani e potenzialmente vergini leve proletarie in trade unions ormai nelle grinfie di “luogotenenti borghesi nelle file delle classi lavoratrici” e marcianti sotto la bandiera della tricipite sirena “libertè, égalité, fraternité”; che la fabbrica è a un tempo la scuola di disciplina (Lenin) e il bagno penale (Marx) dei salariati; e che gli stessi fattori oggettivi – disoccupazione, insicurezza di esistenza, miseria, ricaduta periodica negli strati più bassi dell’esercito industriale di riserva, spettro ricorrente della guerra ecc. – che spingono e senza dubbio risospingeranno ancora le masse sull’arena dello scontro sociale decisivo, agiscono non di rado come ragioni di sconforto di demoralizzazione, di aperto o velato crumiraggio.

Lo possono pensare stoltamente coloro che dimenticano oggi (e sono legioni!) che sulla classe operaia mondiale pesa un secolo e più di sanguinose sconfitte, di emorragie senza precedenti, di olocausti senza nome successivi a pur gloriose battaglie, e che, soprattutto, troppe volte e in momenti troppo decisivi si è spezzato – complici od esecutori diretti i transfughi del movimento operaio – il nesso che solo può stabilmente unire “organizzazione” e “conoscenza” mettendo l’una al servizio dell’altra ed entrambi a quello della preparazione rivoluzionaria prima del “rovesciamento della prassi” nella rivoluzione poi: cioè il Partito.

Le inesorabili determinazioni materiali hanno messo e metteranno in moto milioni di proletari, rigenerando organismi immediati imputriditi o generandone di nuovi, ma è scritto negli Statuti della Prima Internazione che “nella sua lotta contro il potere unificato delle classi possidenti il proletariato può agire come classe solo organizzandosi in partito politico autonomo che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti” (par.7a, ripreso nel prologo agli Statuti della Terza Internazionale), e il partito è mancato durante la Comune del 1871 e in quella che forse poteva essere la Comune berlinese del 1919: in entrambi i casi la sua assenza ha significato la sconfitta, e la ferocia con la quale gli sgherri di Thiers si avventarono contro i Federati della Comune di Parigi e gli sgherri di Noske contro gli Spartachisti di Berlino si spiega soltanto con il terrore che, malgrado tutto, dalla sconfitta esso potesse rinascere in armi. Al contrario, il partito era presente e operante nell’Ottobre 1917, e fu la vittoria. Bisognava dunque svuotarlo come partito mondiale – e vi provvide lo stalinismo – perché la rivoluzione cinese incipiente [nel 1927] si chiudesse in un ennesimo, e tuttora incalcolabile in cifre, bagno di sangue, e la crisi del venerdì nero [del 1929], rimbalzata di City in City fra il panico dei governanti e finanzieri, industriali e sbirri, bonzi religiosi e sindacali, passasse senza reazioni proletarie degne di nota, preparando anzi il letto al pacifico trionfo del nazismo [8]. Bisognava distruggerlo fisicamente, fin nei suoi ultimi relitti, perché non rinascesse, mentre infuriava la guerra civile spagnola e si preparava la seconda carneficina imperialistica.

Un’infima, anzi infinitesima minoranza oggi si rende conto di che cosa tutto ciò abbia significato e continui a significare; nessuno degli immediatisti ha anche il pallido sospetto che da una controrivoluzione come quella staliniana la classe operaia non può risollevarsi se non attraverso un penoso calvario, tanto più lungo e penoso quanto più stenta ad albeggiarne la coscienza in quella stessa che pretende di rappresentarne l’avanguardia politica. In una pagina che dobbiamo rivendicare contro le affrettate anche se generose improvvisazioni organizzative del suo autore (non diciamo poi dei suoi squallidi epigoni, e mai dimenticando che l’influenza reale del partito sulle masse è inseparabile dalle determinazioni materiali da cui, malgrado tutto, la classe operaia sarà portata a battersi contro il giogo non solo del capitale, ma delle proprie dirigenze opportuniste anche solo per salvaguardare il pane ed il lavoro), ancora Trotsky scrisse nel 1934, commemorando Rosa Luxemburg: “Quali spese in forze e abnegazione non hanno fatto, dalla guerra mondiale in poi, le masse lavoratrici di tutti i paesi civili o semicivili! Non se ne può trovare un precedente in tutta la storia dell’umanità. In questa misura, Rosa Luxemburg aveva perfettamente ragione contro i filistei, i caporali e gli imbecilli del conservatorismo burocratico ‘incoronati di vittorie’, marcianti diritto per la loro strada. Ma appunto lo spreco di queste energie incommensurabili crea un terreno favorevole alla grande depressione in seno al proletariato […]. Si può dire senza alcuna esagerazione: la situazione mondiale è determinata dalla crisi di direzione del proletariato. Il campo del movimento operaio è tuttora bloccato dalle possenti macerie delle vecchie organizzazioni bancarottiere. Dopo i sacrifici innumerevoli e le delusioni senza fine, almeno il grosso del proletariato europeo si è ripiegato su se stesso” [9].

A distanza di quarant’anni [sempre 1974 - NdR], dobbiamo avere il coraggio di dire che, per quanto grande e profonda sia la crisi del mondo capitalistico, non lo è mai quanto la crisi di direzione del movimento proletario: esso non ne investe soltanto “il grosso”, ma la stragrande maggioranza. Scrivevamo nel 1959: “Non è possibile risalire questa situazione che sotto tutti gli aspetti: dimostrazione che in Russia non vi è costruzione di socialismo; che lo Stato russo, se combatterà, non sarà per il socialismo ma per rivalità imperiali; dimostrazione soprattutto che in Occidente le finalità democratiche e progressive non solo non interessano la classe lavoratrice, ma valgono a tenere in piedi un capitalismo marcio. In questa lunga opera di ricostruzione, che deve mettersi al passo con l’avanzare della crisi della forma di produzione occidentale e americana [oggi possiamo tranquillamente aggiungere: russa], alla quale sono date tutte le condizioni obiettive determinanti con una distanza che qualunque diversivo di politica interna e mondiale non potrà aumentare al di là di qualche decennio, non si deve seguire il miraggio che nuovi espedienti o schieramenti di pretesi studiosi della storia possano valere più delle storiche conferme già date dagli eventi alla originale costruzione marxista rettamente intesa e seguita” [10].

O si intende che ciò significa costruire con questi mattoni la condizione soggettiva fondamentale della rivoluzione – il partito – , costruirlo e difenderlo in tutto l’arco delle sue condizioni di esistenza, o ci si dà per vinti in partenza di fronte ad una crisi che verrà come ne sono già venute tante, e che passerà sul corpo martoriato della classe operaia e della sua avanguardia militante come troppe ne sono già passate.

 

Note:


1. Controprova: “Con quale mezzo riesce la borghesia [beninteso, se il proletariato non ci mette lo zampino] a superare la crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per l’altro, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati esistenti”; dunque riprendendo il ciclo su scala crescente (ancora il Manifesto del 1848).[back]

2. Nella storia del movimento comunista, per “centrismo” (o “massimalismo”) s’intende quell’insieme di posizioni, che tendono a collocarsi a sinistra dell’opportunismo più ottuso, caratterizzandosi per una demagogia di “finta sinistra” a celare una prospettiva puramente riformista. Va detto che, a trent’anni di distanza dalla data di pubblicazione dell’articolo, riformisti e “centristi” si sono talmente annacquati da essere ormai indistinguibili gli uni dagli altri: ma la “funzione” del centrismo rimane e, in situazioni di rinnovata crisi sociale, i candidati al suo ruolo abbonderanno. Quanto agli “inmmediatisti”, anch’essi non hanno fatto che cambiare di pelle: ma, di nuovo, la loro “funzione” rimane. In un caso come nell’altro, è ovvio che le due “funzioni” sono quelle di mantenere il proletariato succube del modo di produzione capitalistico.[back]

3. Ora nell’opuscolo Partito e classe, edizioni Il programma comunista, Milano 1972, pp.119-120.[back]

4. Nel nostro Lezioni delle controrivoluzioni, edizioni Il programma comunista, Milano, 1951, par.13.[back]

5. In Die Neue Etappe, Amburgo, 1921, pp.51, 55-56 e segg.[back]

6. Ci si riferisce al regime che, in Germania, dopo la sconfitta militare del 1918 (con la conseguente rovina della monarchia e il travagliato passaggio alla repubblica), condusse la repressione violenta e feroce dei forti moti proletari. Quel regime (detto “di Noske e Scheidemann” dai nomi degli uomini politici socialdemocratici che lo guidarono) sancì definitivamente il ruolo della socialdemocrazia: il riformismo non può essere per il proletariato il “ponte verso il socialismo”, ma sarà sempre per la borghesia uno dei modi migliori di gestire uno stato imperialista, in cui – “per il bene dei lavoratori” – i suoi partiti soffocano (con la forza armata) ogni potenzialità rivoluzionaria.[back]

7. Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, 28 settembre 1864.[back]

8. E’ sempre bene ricordare che, in Germania, il nazismo giunge al governo attraverso una sequenza di successi elettorali che prosciugano i consensi degli altri partiti, perché è l’unico che, con coerenza, mantiene le promesse di un riformismo autenticamente nazionale e sinceramente anticomunista.[back]

9. Ora in Nos tâches politiques, Parigi 1970, pagg.249-251.[back]

10. “La rivoluzione anticapitalistica occidentale”, ora nell’opuscolo Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, edizioni Il programma comunista, Milano , 1973, pp.35-36. [back]

 

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2008)

 

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