DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Chi considera la “legge Biagi” o la “legge Treu” come peculiarità esclusivamente italiane o come invenzione del proverbiale genio italico, deve chiaramente ricredersi. In Italia, analizzando i dati pubblicati dalla Banca d’Italia, si scopre che più del 50% dei giovani lavoratori sono assunti con contratti a tempo determinato. Di questi, oltre il 60% ha una durata inferiore ai tre mesi (la maggior parte hanno durata di un mese), solo il 2% ha durata di un anno o più, mentre 1 lavoratore su 5 gode – si fa per dire! – di contratti che non superano i 5 giorni lavorativi.

Se diamo un’occhiata alla Spagna, è facile accorgersi che qui le cifre del lavoro precario superano di tre volte la media europea, giacché nei soli anni che vanno dal 1987 al 1994 si passa da 1,2  a 3,1 milioni di contratti interinali (dal 15,6% al 34,9%), mentre negli anni che vanno dal 1997 al 2003 i contratti precari superano la soglia dei 5 milioni. In terra di Spagna, addirittura, tutti i settori lavorativi registrano tassi di precariato al di sopra del 30%, per toccare il 65% nel girone infernale dell’edilizia. Di conseguenza, il precariato attecchisce in ogni tipo di impresa e specialmente in quelle con meno di 50 lavoratori.

Gli inizi del processo di “flessibilizzazione della contrattazione” risalgono a una legge del lontano 1980 (Ley 8/1980), ma la massiccia metamorfosi dei contratti rompe gli argini nel 1984, anno in cui il Governo approva una riforma del cosiddetto Estatuto de los Trabajadores (Ley 32/1984), la quale incentiva e promuove una diversificazione di figure contrattuali distinte dal contratto a tempo indeterminato, giustificando la scelta con la necessità di creare nuovi posti di lavoro e trovare una via di uscita dalla crisi che colpisce tutta l’economia europea in quegli anni e che si ripercuote in Spagna con più tremenda ferocia. La regolamentazione di orario e giornata di lavoro perde il significato precedente, dei tempi in cui la immacolata democrazia non aveva ancora toccato il suolo iberico per alleviarlo dalle sofferenze e dalle pene prodotte dalla dittatura franchista. Da ciò si evince che non è la legge a produrre un cambiamento economico, quanto piuttosto il cambiamento economico – o se si vuole la crisi – a rendere necessaria la legge. L’estrema flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e la precarietà crescente rappresentano l’attacco diretto al proletariato, che appare identico nella sostanza e nelle forme a prescindere dalla provenienza geografica. Esso non è il frutto della malvagità di un determinato governo – spagnolo o italiano che sia – o dovuto all’incapacità di un politico, o ancora di un capitalista particolarmente cinico, ma scaturisce dalle necessità superiori del modo di produzione capitalistico, ormai impegnato su più fronti con una crisi sistemica e strutturale, sempre in cerca di assicurarsi più lauti profitti.

Di fatto, il lavoro interinale abbandona la sua atipicità e la sua condizione di manifestazione passeggera per convertirsi in uno spettro permanente per tutta la classe operaia spagnola, obbligata a essere sempre più gravata da carichi e orari di lavoro crescenti. Inoltre, lungi dall’essere una panacea capace di riassorbire la disoccupazione, il precariato aggrava la situazione accrescendo la massa dei lavoratori destinati a essere gettati nel calderone ribollente del desempleo, cioè della disoccupazione. Lo stesso governo del PSOE, che si proponeva come amico e fedele alleato della classe operaia, non ha mai intrapreso un percorso di modifica della legge, ma, al contrario, in nome del benessere dell’economia nazionale, ha sempre continuato a ingannare i proletari, forte di una borghesissima morale basata sul “más vale tener un empleo con menos o ningún derecho que estar en paro”, “meglio avere un lavoro con meno diritti o nessun diritto che stare senza lavorare”!

Da tutto ciò deriva un marcato peggioramento delle condizioni di lavoro: recenti studi di parte borghese mettono in risalto che gli incidenti sul lavoro colpiscono maggiormente i precari, aventi scarsa esperienza lavorativa e maggiore esposizione ai rischi sul luogo di lavoro, poiché costretti a orari massacranti, flessibilità geografica e professionale, ma anche a stipendi da fame (secondo Eurostat, gli operai spagnoli guadagnano il 33% in meno rispetto alla media dell’Europa dei 15, con  salari fermi dal 1997), ovviamente obbligati a condizioni di vita decisamente degradanti. La relazione fra edilizia, contratti interinali e incidenti sul lavoro è palese con 10.071 morti dal 1997 al 2003, ma sono realtà che i rappresentanti istituzionali preferiscono tacere e nascondere, preferendo i conteggi sempre in positivo dell’aumento della produttività, vanto e orgoglio di un paese che si presenta in Europa con una delle crescite più alte del PIL. Intanto, il massacro proletario continua silenziosamente, giorno dopo giorno, accompagnato dalle ipocrite lacrime dei servitori del potere capitalistico, i quali non si sognano neppure di proporre una riduzione dell’orario di lavoro o un abbassamento dei ritmi dello sfruttamento.

Le promesse fatte in campagna elettorale dei vari partiti destri e sinistri, riguardo a una possibile cancellazione o anche alla sola riduzione dei contratti interinali, ripiombano nel dimenticatoio, dato che capiscono tutti piuttosto bene che la crisi economica, iniziata nella metà degli anni settanta, si ripresenta con accresciuta virulenza, infettando anche quei settori che sembravano immuni da un tale contagio. E qualsiasi governo borghese, fatto di sfruttatori e oppressori, non possiede altri mezzi per allontanarla o affrontarla, se non scaricando questa stessa sulle spalle di un proletariato già provato da parecchi decenni di sacrifici e di legnate sul dorso. In questo senso, i nuovi contratti appaiono completamente privi di regolamentazione, alleggeriti dalle spese di liquidazione, ferie, malattia, straordinari, ecc., senza il benché minimo controllo da parte del governo, il quale anzi tende ad incentivare tali tipi di contratti con la giustificazione che per ogni operaio che raggiunge il pensionamento è possibile assumere un giovane precario, piuttosto che lasciare vacante quel posto di lavoro per via di costi troppo onerosi per le imprese. Con questa stessa logica perversa, nel 1997 venne approvata una proposta di legge che tendeva ad aggravare ulteriormente le condizioni dei lavoratori. Il Parlamento propose infatti una sorta di via di fuga per smussare giusto qualche angolo della legge sul lavoro precario: l’idea si basava sul fijo barato – fisso e a basso costo – che nella realtà dei fatti manteneva una essenza celata di precarietà, e allo stesso tempo permetteva alle imprese di alleggerire i costi di assunzione e di liquidazione degli operai. Il tutto con l’appoggio fedele dei principali sindacati del paese – CC.OO e UGT – ormai integrati alla politica di governo e lontani anni luce dalla tutela dei diritti dei lavoratori, specialmente in occasione del cosiddetto AIEE (Acuerdo Interconfederal para la Estabilidad en el Empleo) con il quale si accettava la politica del capitalismo neoliberale dominante. In tale accordo, si diceva espressamente che “il lavoro è la risultante di molteplici variabili, fra le quali una politica economica che lo fortifica, unitamente a un tratto adeguato di maggiore flessibilità, al fine di contribuire al miglioramento della competitività e del buon funzionamento delle imprese”. Insomma, una immolazione incessante e crescente sull’altare del profitto capitalistico, con conseguente atomizzazione e indebolimento della classe proletaria, al fine di omologare la Spagna con il resto dell’Europa, ove cresce la marea dei senza riserve e degli sfruttati. Si capisce facilmente che la solfa rimane sempre la stessa, in qualsiasi paese capitalisticamente maturo: sacrifici e assoggettamento completo in nome dell’economia nazionale, assieme a una maggior divisione e disunione della classe operaia.

Continui pure la borghesia a proporre le sue ricette per rinviare la crisi. Noi sappiamo bene che la durissima strada che deve percorrere il proletariato spagnolo, come quello italiano o di qualsiasi altro paese del mondo, proprio perché senza patria e lontano dagli interessi delle borghesie nazionali, è quella che porta alla ripresa della lotta di classe, assieme alla necessità del partito – elemento essenziale per organizzare e inquadrare la classe proletaria, in prospettiva della presa violenta del potere e dell’instaurazione della dittatura proletaria come tappa imprescindibile verso la società senza classi.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2008)

 

 

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