DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(Storia della Sinistra III, 1986, pag. 237)

 

Una affermazione favorita degli unitari nelle attuali polemiche è che nel nostro partito non vi sono più riformisti. Questa asserzione riposa su di una pericolosa confusione, che anzitutto deve essere eliminata. Dalla III Internazionale e dalla sua sezione italiana non devono essere esclusi soltanto i riformisti, ma tutti i socialdemocratici. La seconda definizione è più larga della prima.

Mentre infatti si deve intendere per socialdemocratico chiunque nega che il proletariato per emanciparsi dallo sfruttamento capitalistico deve ricorrere alla rivoluzione violenta e alla propria dittatura, e ammette invece che il proletariato possa giungervi per le pacifiche vie delle conquiste democratiche, raggiungendo il potere attraverso la maggioranza dei mandati elettivi dello Stato borghese, ed esercitandolo in forma democratica, cioè tollerando i rappresentanti politici della borghesia, divenuti minoranza, riformista è invece quel socialdemocratico che, per giungere a questo, rinunzia anche al principio della lotta di classe, al metodo della intransigenza, collabora nelle elezioni e nel governo con una parte della borghesia, poiché pensa che anche prima della conquista dei poteri politici il proletariato possa, con questi mezzi, iniziare la trasformazione del meccanismo economico capitalistico nel senso dei suoi interessi e dei principi socialisti, col mezzo delle riforme attuate da un governo borghese o borghese-proletario.

Aggiungiamo subito che il riformista è il socialdemocratico più logico e più completo: la fede nella intransigenza classista perde ogni senso se non giunge alle sue logiche conseguenze: se è vero che i rapporti di produzione capitalistici non verranno mai attaccati da un governo borghese o borghese-proletario, bisogna conchiudere che la borghesia non cederà mai il potere dinnanzi ad una maggioranza numerica e formale, ma solo dinnanzi alla forza; né rinunzierà a riconquistarlo colla forza dopo la prima sconfitta pel fatto solo che le si consenta il diritto ad una rappresentanza di minoranza.

Quindi il socialdemocratico intransigente dovrebbe, secondo la logica astratta, divenire un comunista; ma secondo la dialettica della storia diviene spesso, nella fase decisiva della lotta di classe, insieme al riformista, un autentico controrivoluzionario. Perciò entrambi devono uscire oggi dalle nostre file, nelle quali vogliamo solo coloro che riconoscono la necessità della rivoluzione e della dittatura, e ad esse preparano le masse proletarie.

Questa premessa ci permette di conchiudere che se anche nel nostro partito non vi fossero riformisti, ciò non vorrebbe dire che non vi sia ancora da realizzare la divisione da noi invocata: comunisti da una parte, socialdemocratici dall’altra, per tutte le ragioni che abbiamo esposto e andiamo esponendo.

Ma i riformisti ci sono in Italia, ed è riformista nel vero senso della parola tutta la destra del partito, nel suo pensiero e nella sua attività.

La dimostrazione sta nel Convegno di Reggio Emilia, per chi ancora conservasse dei dubbi al riguardo. Non nella mozione, nella quale il vero spirito di quella adunanza è subdolamente mascherato, togliendo definitivamente alla estrema destra del nostro partito un merito che talvolta le abbiamo riconosciuto, quello della onestà e della sincerità.

Ma a darci una dimostrazione evidente dell’esistenza dei riformisti e del riformismo vengono in buon punto gli articoli di U.G. Mondolfo nell’Avanti![1]

L’autore di essi si propone infatti, e lo dichiara abbastanza apertamente, di mostrare il vero contenuto delle decisioni di Reggio, a dispetto della stessa mozione votata sperando di sfuggire – l’unitarismo aiutando – alle doverose sanzioni della III Internazionale.

Gli articoli del Mondolfo, nella loro esposizione della crisi sociale conseguita alla guerra e delle sue prospettive, e nella discussione delle condizioni di maturità per la rivoluzione proletaria, comeché costituiscano la solita falsificazione del marxismo, meritano una speciale confutazione.

Vogliamo però oggi servircene solo allo scopo di dimostrare ai semplicistici unitari come il riformismo – e che riformismo! – esista ancora tra noi.

L’articolo di Mondolfo è scritto apposta per confondere i concetti dello sviluppo dal capitalismo al comunismo, ai quali la Internazionale comunista ha il compito di preparare la coscienza delle masse. È proprio uno di quegli articoli che noi – attraverso la invocata scissione – non vogliamo più stampare nei giornali del partito di classe del proletariato, per lasciare che la borghesia li pubblichi a sue spese.

Giocando volutamente sull’equivoco – visto che non possiamo parlare di ignoranza in materia così elementare da parte del Mondolfo – questi crea la confusione tra il metodo comunista e quello riformista, insinuando che la III Internazionale, che Lenin, che i massimalisti italiani attendano da una rivoluzione violenta il miracolo della attuazione del comunismo in toto, e cercando la prova della necessaria gradualità nel passare dal meccanismo borghese a quello comunista dell’economia, non nelle esplicite affermazioni di tutti i comunisti, da Marx a Lenin, ma in pretese delusioni e patteggiamenti del governo russo col capitalismo.

La vostra conquista del potere con l’insurrezione armata presenta la eventualità della sconfitta del proletariato – ci dice il Mondolfo.

Il suo metodo invece è sicurissimo, e tende, in fondo, a quello stesso gradualismo. Quelle che... sono le norme economiche del potere dei Soviet in Russia, sarebbero in Italia i risultati della legislazione di Turati e C., ministri per grazia di Dio e volontà della nazione. Solo, per i Reggiani, queste misure prendono il nome nuovo ed elegante di approssimazioni socialiste.

Il Mondolfo accenna a queste misure economiche che, secondo lui, rappresenterebbero lo spianamento della via al socialismo. Basta leggere l’accenno che egli ne dà per comprendere che queste misure non sono lontanamente paragonabili a quelle attuate in Russia. L’accenno allo stupendo opuscolo del social-opportunista Bauer su “La via al socialismo” ce lo conferma. Non si tratta dei primi colpi di piccone al fondamento del capitalismo, ma di misure che, nei quadri del suo meccanismo economico, tenteranno di eliminarne le contraddizioni e le tragiche conseguenze, eludendo le rivolte proletarie contro i rapporti di produzione capitalistici. La socializzazione delle industrie, delle miniere, del latifondo, accennata da Mondolfo-Bauer, è forse perfino quella espropriazione con indennità che i comunisti, da Marx a Pannekoek, hanno dimostrato essere una semplice conversione formale del privilegio capitalistico. Il controllo sulla produzione e la disciplina nel lavoro per le aziende non ancora socializzate – e lo stesso dicasi per quelle statizzate secondo il metodo suddetto – equivale alle peggiori risorse e restrizioni conservatrici del capitalismo.

Ma quand’anche le misure sociali fossero le stesse che noi concepiamo immediatamente possibili per la dittatura proletaria – dato e non concesso ciò per un momento solo – è evidente l’abisso che separa questi concetti da quelli del comunismo marxista. Giacché il meccanismo statale borghese non è stato spezzato e sostituito da quello proletario – perché cioè non v’è stata rivoluzione e dittatura – le riforme più audaci non hanno altro effetto che quello di prolungare la vita del capitalismo, rendendone i rapporti meno intollerabili al proletariato.

Le stesse misure, che dopo il rovesciamento del potere borghese rappresenteranno realmente l’inizio del processo di sostituzione dell’ingranaggio capitalistico a quello comunistico, se fosse possibile attuarle prima, da parte di un regime social-democratico, avrebbero opposto effetto. Sarebbero rabberciature della crollante baracca capitalistica, invece di essere gli atti di dispotico intervento sui rapporti dell’economia previsti dal Manifesto dei Comunisti, e che solo una dittatura rivoluzionaria del proletariato può realizzare.

Non è la tesi del Mondolfo che inseguiamo nella polemica; è solo la dimostrazione che detta tesi è riformista e perciò reazionaria.

Ma non taceremo un argomento: i provvedimenti da lui affacciati risentono di tutta la preoccupazione di far seguitare a funzionare la struttura economica capitalistica – che la borghesia non sa più far funzionare: basti accennare che egli si propone con essi di restaurare il valore della moneta, mentre chi ha inteso e studiato il processo economico che si svolge oggi in Russia, e che è seguace del pensiero marxista – non coll’intento di diffamare il primo e castrare il secondo – sa che, nella trasformazione del meccanismo produttivo e distributivo in senso comunista, il valore della moneta deve discendere per precipitare fino allo zero. Per lo Stato borghese ciò è il fallimento, per il regime proletario ciò è una grande tappa sulla via del comunismo.

Qui è la prova che lo Stato socialdemocratico di Mondolfo resta nettamente uno Stato borghese.

Ma se anche il processo economico visto da Mondolfo, invece di esserne la negazione storica, fosse la stessa cosa di quello a cui noi tendiamo e di cui la dittatura rivoluzionaria contiene le possibilità, non resterebbe meno assurda teoricamente e insidiosa praticamente la proposta dei riformisti reggiani.

Di fronte ad essa la borghesia non cederà che nel caso in cui si convinca che rappresenta l’unica sua probabilità di sopravvivere e di evitare la rivoluzione. Ma se, come Mondolfo pretende, questo esperimento di governo socialista costituisce la massima possibile accelerazione per la sparizione del capitalismo, è evidente che la borghesia, accorgendosi di questo, si opporrebbe colla forza, sia al momento della formazione di un tal governo, sia ad un certo momento della attuazione del suo programma. Le forze dello Stato borghese non risponderebbero alle disposizioni di un ministero socialista, ma essendo l’apparecchio esecutivo, burocratico, militare, poliziesco, rimasto intatto (vedi la meravigliosa dimostrazione comunista di Lenin nel suo “Stato e Rivoluzione”) entrerebbero in azione contro il proletariato. Questo d’altra parte avrebbe, nella illusione di possedere il potere, rinunziato alla preparazione di un proprio apparecchio d’azione armata – il trionfo della reazione borghese sarebbe assicurato. Nell’altra ipotesi – che cioè il governo socialista non attuasse (come certamente sarà) le misure anticapitalistiche – le masse sarebbero parimenti impotenti, perché impegnate sulla via democratica e pacifista, a ritornare a mezzi estremi. Mondolfo lo dice chiaramente. È necessario che il proletariato – ossia il Partito, unito grazie ai Serrati – appoggi l’esperimento di governo, che dovrà seguire i modi e le forme della democrazia.

Si tratta dunque di garantire l’impotenza rivoluzionaria del proletariato impegnando tutti i suoi organismi di classe su questa via dell’andata al potere. Questa andata al potere, d’altra parte, esige il consenso della borghesia.

La maggioranza parlamentare oggi non c’è – meno ancora ci sarebbe in una eventuale nuova Camera – e, se anche ci fosse, è sempre dal potere borghese che dipenderà la scelta tra l’accettare i socialisti al potere pacificamente, o lo sfidare il proletariato all’assalto rivoluzionario. Come dunque un tale esperimento differirebbe dalla classica collaborazione ministeriale predicata da tanti anni dall’autentico riformismo? Se le riforme si chiamano oggi approssimazioni socialiste, la collaborazione al governo si chiama non meno gesuiticamente cooperazione di elementi tecnici. Come assai bene diceva ad lmola Gennari, non è l’utilizzazione dei borghesi come tecnici, ossia nella produzione, ma la spartizione del potere con i tecnici della politica borghese. Tanto è vero che, dice Mondolfo, ciò si farebbe per eliminare la resistenza della borghesia. Ma la borghesia userà tutte le sue forze di resistenza, prima di perdere il controllo dell’apparecchio statale. Essa rinuncerà ad usarle, conservandole intatte, dinnanzi all’esperimento socialdemocratico, solo perché saprà che lo si compie nel suo interesse.

Siamo dunque alle ultime conseguenze del riformismo ministerialista e possibilista. È vero che, secondo la lettera e lo spirito di quanto a Reggio Emilia deliberammo nel 1912, i fautori di questo indirizzo erano già dichiarati incompatibili col partito. Ma nella applicazione si accettò purtroppo il criterio, sopravvisuto a Bologna, della disciplina... che si sa quanto la destra ha rispettato da allora ad oggi.

Il riformismo dunque ha vissuto e vive nel Partito. V’è di più. Allora, prima della guerra mondiale, esso poteva avere una parvenza di giustificazione.

Il regime capitalistico sembrava contenere allora queste possibilità di pacifici sviluppi. Oggi la guerra ha distrutto anche le apparenze di questa ipotesi. Eppure il riformismo, come ieri si giustificava colla floridezza del capitalismo, sofisticamente si giustifica oggi colla decomposizione di esso. E si avvia chiaramente alla sua finalità storica: la reazione antiproletaria.

Questo trapela dallo stesso articolo di Mondolfo: il governo dei riformisti si baserà sull’aperta e piena democrazia, ma in caso di necessità ricorrerà alla dittatura. Modigliani fu a Reggio più esplicito, e nelle sue parole era il funerale della cavalleria politica democratica. Anche a noi servirà la violenza, diss’egli. Non vedete in ciò il preludio - non già di un incontro tra destri e sinistri, auspice qualche Alessandri, nella tesi di una dittatura proletaria tradotta non dal russo in italiano, ma dalla virilità marxista alla sterilità piccolo-borghese – bensì della dittatura socialdemocratica che come in Germania, in Polonia, in Ucraina, in Georgia, nei rispettivi periodi, non potrà essere che l’ultima forma della dittatura e della reazione contro il proletariato? Il preludio è chiarissimo in questo gioco politico (non ci infastidite cogli argomenti della onestà personale, e del Noske che non c’è, orecchianti della politica di classe!): impegnare tutto il proletariato a rinunziare al suo armamento ideale e materiale e ad accettare un governo ad etichetta socialista, senza avere spezzato gli attuali apparecchi di potere – ossia di difesa armata organizzata – della borghesia.

Il riformismo c’è, ed esso fa la sua fatale strada, avvelenando sempre più di sé il partito, verso la controrivoluzione. Ecco il pericolo.

Ma un pericolo peggiore di questo, contro cui dovrebbe bastare il grado di coscienza classista acquisito dal proletariato italiano, ha in sé il nostro partito.

Questo più grave pericolo si chiama la cecità degli unitari. E, nella implacabile dialettica della storia, cecità e complicità sono la stessa cosa.

[1] Unità del partito, violenza, dittatura, nella mozione di Reggio Emilia, 11 Novembre; Cause e rimedi della presente crisi sociale nella mozione di Reggio, 18 Novembre; La via al socialismo e l’andata al potere nella mozione di Reggio Emilia, 3 Dicembre.

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