DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(Storia della Sinistra III, 1986, pag. 322)

Nei precedenti miei articoli intorno al problema della andata al potere, mi sono proposto, con quella continuità di trattazione compatibile colla periodicità di un giornale, di rimettere nei loro veri termini le differenze di principio che dividono i comunisti dai seguaci delle tradizionali scuole socialistiche. Non è quindi ancora la critica della tattica socialdemocratica e del necessario suo sviluppo fino alla aperta azione antirivoluzionaria, tesi che solo di passaggio ho sfiorato a che merita più ampio esame, ma soltanto per ora la dimostrazione che il metodo comunista ha un contenuto suo proprio, così ben definito che non si può appressarvisi per sfumature, accettarlo parte si e parte no, sottoporlo ad una critica che riveli e dimostri in esso adattabilità che ne diminuiscano la distanza dalle vecchie illusioni socialdemocratiche.

Ho perciò esposta la antitesi tra la tesi socialdemocratica e quella comunista, rilevando come sia solo apparentemente loro punto di partenza comune il problema del come il proletariato giungerà al potere; ma in realtà esse si dividono sulla questione più importante della necessità o meno di spezzare la macchina dello Stato borghese per creare la possibilità del potere proletario demolitore della economia borghese.

Quando un socialdemocratico mi dice che lo Stato come oggi è congegnato (ossia coi suoi parlamenti e col suo apparato esecutivo) può essere preso e volto ai fini di classe del proletariato, il che è la stessa cosa dalla espressione: si può giungere a questi fini senza l’azione violenta ed armata, quando egli così si esprime, poco mi importa che egli si sia richiamato al marxismo nell’accettare a parole i concetti di lotta di classe, di intransigenza di andata al potere senza partecipazione borghese. Costui nulla intende del sistema marxista, poiché non ha digerito la critica della democrazia e dello Stato nei rapporti tra le classi, non ha imparato da Marx e nemmeno dalla storia posteriore che una speciale struttura statale nasce e muore come strumento del potere di una classe che lo sviluppo dei mezzi produttivi pone alla testa della società; che la classe borghese capitalistica ha questo strumento storico nello Stato parlamentare moderno, quale esiste in tutti i paesi che hanno conquistato le delizie del regime democratico col suo corredo di burocrazia, di esercito, di giustizia di classe.

Colui non vede neanche che la borghesia per assumere, quando la maturazione dei rapporti economici ve la sospinse, la direzione della società, dovette annegare nel sangue e nel terrore i vecchi istituti, le persone, le caste che per essi dominavano; costui accetta una tesi specificatamente e idiotamente borghese, che nel cammino della storia la necessità dell’uso della violenza e della guerra civile a dei trapassi rivoluzionari sia chiusa con la legittima violenza che ci diede la rivoluzione democratica, e avrebbe aperta l’ora delle lotte civili pacifiche, e schedaiole. Tesi borghese, perché non è che la traduzione in linguaggio demagogico del concetto che la violenza fu legittima per portare al potere la classe capitalistica, ma non è legittima per spodestarla; tesi turpemente borghese perché racchiude la conclusione – in cui come sempre la borghesia per la dialettica implacabile che la guida nella storia rimangia disinvolta i filosofemi di cui si è servita – che la violenza difensiva dello Stato attuale contro ogni atto lesivo dei suoi poteri costituzionali è legittima ed è adoperata nell’interesse collettivo consistente nella conservazione del meccanismo democratico.

Chi quindi pone un dito nell’ingranaggio dell’errore socialdemocratico dà partita vinta alla polemica borghese, e si ritrova agli antipodi della verità marxista secondo cui lo Stato esiste e funziona per gli interessi non della collettività sociale ma di una sola classe. Quegli nemmeno vede come può chiudere il ciclo delle rivoluzioni, in cui il potere passa da una classe all’altra, soltanto la funzione storica di uno Stato che operi alla abolizione delle classi, quale solo può essere lo Stato proletario demolitore del principio della proprietà privata; mentre lo Stato borghese apre e svolge il suo ciclo storico nell’ambiente di una società più che mai divisa in classi. Un tale soggetto insomma non è solo un imbecille dinanzi alla genialità del pensiero marxista, ma è altresì, dinanzi alle sue virili e categoriche affermazioni contro ogni filisteismo pacifistico, un povero castrato del gregge di Cristo, di Tolstoj e di Mazzini; che domani però assumerebbe le funzioni di eunuco al servizio della violenza dei sultani del capitale, che non nutrono pregiudiziali umanitarie e quacqueristiche.

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Ricacciati così nel pantano socialdemocratico coloro che pretendono sopra nuotarvi a mezzo della vecchia e sconquassata zattera della tattica intransigente di altri tempi – che allora aveva il suo valore storico di logica premessa della attitudine odierna dei comunisti – è d’uopo occuparsi di innumerevoli altri formulatori di programmi che pretendono l’epiteto di comunisti pel fatto solo di essersi spinti un poco più in là, con loro peculiari affermazioni, con loro speciali interpretazioni dei concetti centrali comunisti di uso della violenza e dittatura proletaria.

Costoro pullulano in Italia, tra quelli specialmente che da recenti accesissime dichiarazioni massimaliste sono in rotta verso il più sporco riformismo, ma che per i loro fini hanno bisogno di presentarsi alle masse come aderenti alla dottrina del comunismo, all’azione della Terza Internazionale. Non solo si può provare che il pensiero di costoro si riduce a quello socialdemocratico puro – e mi si passi l’espressione, ritorsione non intenzionale di quella abbastanza cretina di comunisti puri, fabbricata a scopo non di disamina critica, ma di miserevole pettegolezzo – ma la loro azione, nei suoi riflessi sulle masse, è ancora più insidiosa e disfattistica di quella dei primi. Che cosa dicono costoro? Il più sovente non dicono nulla, ma hanno al tempo stesso l’abilità di perdere l’occasione di tacere, dimodoché non scoprono il loro pensiero che attraverso cose tanto piccine e volgari che la sola risposta idonea è il disprezzo. Ma talvolta esprimono un loro punto di vista, se anche sarebbero imbarazzati a dire quale sia tal punto tra... i quattro punti cardinali. Talvolta scrivono, e se non scrivono almeno disegnano tutta la vile inettitudine del loro atteggiamento.

Prendiamo ad esaminare soltanto la loro posizione sul problema della violenza. Dicono qualche cosa di simile: ammettiamo la violenza come momento necessario dell’atto rivoluzionario, ma neghiamo la opportunità di predicarla fin da ora (i coccodrilli arrossiscono sotto le loro cornee squame!) poiché la situazione non è matura, la borghesia è forte, la borghesia se si sente minacciare ci assale prima del tempo.

Ma è proprio questo ciò che fanno costoro. Hanno predicato la necessità della violenza fino a ieri, ma nulla hanno fatto per organizzare in una preparazione della massa quella loro predicazione verbale, appagandosi che questa desse come risultati i 150 seggi parlamentari e i 2500 comuni socialisti, e dinanzi all’attacco borghese, che non sanno ributtare, predicano il disarmo ideale e materiale del proletariato prospettandolo in dichiarazioni ignobili, che assumono anche la forma di vignette disfattiste la cui paternità sarebbe in regime militare – ossia così nel regime della borghesia che in quello del socialismo non evangelico – colpa più che bastevole per il plotone di esecuzione.

Dire: alla violenza si ricorrerà in un momento estremo, quando le stesse condizioni culminanti della crisi la renderanno fatale e logica nel suo svolgimento, confina con un calcolo disfattista della rivoluzione. Infatti la borghesia calcola sul suo apparato difensivo democratico per raggiungere questo effetto: illudere le masse – l’errore socialdemocratico aiutando – che esse ascenderanno per la facile via legalitaria e quando la violenza esploderà, approfittare della propria preparazione e organizzazione armata statale per soffocare lo sforzo di un proletariato che insorga senza nessuna preparazione.

Quindi, chi non è un socialdemocratico puro, chi arriva a vedere che, comunque le cose si svolgano, all’urto finale armato si arriverà primo o dopo, deve anche capire che ci si arriverà in condizioni tanto più favorevoli alla rivoluzione quanto più il proletariato sarà preparato a tali frangenti. E il metodo Comunista vuole che anche quando la situazione non è quella dell’imminenza dell’assalto, si dica al proletariato che l’assalto ci dovrà essere e che solo con le armi in pugno lo si potrà condurre. Collo stesso passo con cui si prospetta questa necessità creando nelle masse la coscienza di doverla e saperla affrontare, i comunisti devono andare organizzando la forza proletaria contro quella dello Stato borghese, ed è solo a questo patto che si può anche, ove la situazione lo consigli, sospendere azioni arrischiate e sfavorevoli.

Ma chi dinanzi allo sferrarsi del periodo dei decisivi conflitti, dinanzi alla eloquenza del fatto che la borghesia getta la maschera della democrazia e della legalità, vuol rispondere applicando questa maschera stessa sul viso del proletariato, facendolo il gerente della legittimità del civile regime parlamentare, dicendo alle masse di scartare la prospettiva di una loro azione armata, e di attendere il misterioso divenire di chi sa quali forze inermi ed imponderabili che gli apriranno l’avvenire, non può uscire da questo dilemma: se egli è un seguace della menzogna socialdemocratica che esclude la violenza proletaria dalle vie della storia, basterà per lui il limbo degli imbecilli; se è invece un assertore della necessità sia pure annebbiata di un episodio di lotta violenta, e peggio se fu un declamatore di violenze verbali anche al di là del necessario, deve essere precipitato e sommerso nella bolgia dei traditori.

Il Comunista, 20 febbraio 1921

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