DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Berlino. I compagni della sezione di lingua tedesca hanno svolto un grosso lavoro di propaganda in occasione dei due giorni di commemorazione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht che si tengono ogni anno a Berlino, il 14 e il 15 gennaio. Hanno distribuito il volantino di critica classista delle “mobilitazioni antifasciste e democratiche” (riprodotto sul numero scorso di questo giornale) in librerie, spazi occupati e luoghi d'incontro e alla conferenza “ufficiale” del 14 (dove erano presenti anche con un banchetto d'informazione con la nostra stampa), e, il giorno dopo, nel corso della manifestazione, durante la quale c’è stato modo di discutere con alcuni dei partecipanti. Nel pomeriggio del 15, poi, hanno tenuto il previsto incontro pubblico sul tema “Per una risposta di classe alle mobilitazioni borghesi contro il populismo di destra”. Ne diamo di seguito una rapida sintesi. Dopo aver presentato il partito, assente dalla scena tedesca negli ultimi trent'anni, e aver precisato che non si tratta di una... rifondazione, ma della ripresa del lavoro politico in piena continuità con la tradizione della Sinistra Comunista, i compagni hanno ricordato il ruolo dirigente nel PCd'I nato a Livorno nel 1921, la battaglia condotta in difesa del marxismo nell'Internazionale Comunista e l'attività teorico-pratica con il sostegno alle lotte operaie e la costituzione di una struttura militare in grado di sostenere lo scontro con il fascismo e nel rifiuto di equivoche e combinazioni tattiche con partiti borghesi o riformisti. Hanno poi brevemente ripercorso le vicende del 1923-1926: l'arresto della direzione di Sinistra da parte dei fascisti, la sua sostituzione con una direzione di centro (Gramsci-Togliatti), la stalinizzazione, la difesa del programma comunista in occasione di quel vero e proprio spartiacque che fu il Congresso di Lione nel 1926; quindi, la riorganizzazione del Partito dopo la Seconda guerra mondiale.

A questa breve presentazione storica, è seguita la critica alle posizioni della attuale “sinistra democratica” a proposito di fascismo, democrazia, antifascismo, parlamentarismo, ecc. – le “illusioni democratiche”. Al cuore di quest'ideologia democratica sta sempre lo “spauracchio di un pericolo fascista”, con il corollario di un’interpretazione puramente moralistica di ciò che fu il nazi-fascismo (il Male) come contrapposto alla democrazia (il Bene): invece di combattere entrambi, si crede di sconfiggere il primo con una mobilitazione etica della seconda, oppure ci si mobilita per “purgare” la seconda dagli eventuali elementi fascisti, nell'illusione che esista una “vera democrazia” da rivendicare. Democrazia e fascismo sono – hanno continuato i compagni – due facce, inseparabili, della medesima medaglia: la dittatura borghese. La democrazia uscita dalla Seconda guerra mondiale ha usato le esperienze sviluppate dalla classe dominante nel periodo fascista, come ha fatto, nel corso dei secoli, con tutte le proprie esperienze di dominio (liberalismo, riformismo, ecc.). Inoltre, appare chiaro che le differenze fra democrazia e fascismo sono sempre più esili e non di sostanza (basti pensare a quanto sta avvenendo in USA, Turchia, Francia, Germania, ecc.).

Noi combattiamo la politica borghese in tutti i suoi aspetti repressivi (legali e militari), indipendentemente dal fatto che la sua maschera sia democratica o fascista. Ciò perché la fascistizzazione della democrazia in atto fin dal secondo dopoguerra non è uno stravolgimento o un’usurpazione della democrazia da parte di settori reazionari, ma lo sviluppo inevitabile delle dinamiche di potere di una classe dominante che impara dalle proprie esperienze. Al cuore dell'“anti-fascismo”, non stanno quindi l'anti-capitalismo, la lotta di classe, la “questione sociale”: e quando slogan simili vengono agitati dagli “anti-fascisti” è solo in base a un rapporto tattico, per apparire più radicali e impedire che “la destra” occupi il “terreno sociale”, che secondo loro andrebbe difeso in una prospettiva democratica (i diritti, ecc.). E così si va a finire in braccio ai guerrafondai. I compagni poi hanno toccato il tasto del “male minore”: pur di difendere la democrazia contro “il pericolo fascista”, si subordinano le proprie posizioni alla difesa dello status quo – che vuol dire, difesa... delle condizioni di sfruttamento e oppressione del proletariato. A questo proposito hanno riletto ampi stralci dal nostro articolo del 1994 “Esiste oggi un pericolo fascista?”, facendo poi esempi attuali (Clinton/Trump, Fillon/LePen, le polemiche intorno all’AFD, ecc.). Si tratta, al contrario, di difendere l’autonomia e l’antagonismo di classe, abbandonando ogni illusione di raggiungere vantaggi tattici con politiche democratiche e riformiste, a scapito però della coerenza e della continuità nella politica rivoluzionaria. “La ripresa della lotta di classe è l’unica soluzione e a questo noi lavoriamo!”, hanno concluso i compagni.

Le molte domande che sono state poste nella successiva ora abbondante hanno permesso ai compagni di chiarire ulteriormente le nostre posizioni a proposito di democrazia e fascismo, che non sono per noi “la stessa cosa”, come in molti, non capendo nulla, ci accusano di sostenere. Sono invece due forme convergenti di dominio borghese che sempre più vanno integrandosi, man mano che la classe dominante assimila le sue stesse esperienze di dominio nei confronti del proletariato. Non ha senso, dunque, distinguere in base al criterio del “male minore”, ma si deve lottare contro entrambe le forme di dominio. Il punto centrale resta sempre la ripresa della lotta di classe e l’intervento in essa del partito per dirigerla: la coscienza di classe non è congenita nel proletariato, e non è nemmeno il frutto meccanico, automatico, delle lotte che esso conduce; va introdotta dall’esterno (Lenin, Che fare?). La nascita di organizzazioni di difesa economica non compete al partito: sarà il risultato dell’esperienza stessa di lotta dei proletari. Compito del partito è intervenire in esse, sostenerle e aiutarne l’estensione, il rafforzamento e il radicamento. Ma ciò è possibile solo combattendo ogni illusione democratica, parlamentare, riformista.

Al termine dell’incontro, uno dei presenti ha salutato il fatto che torni a operare in Germania una sezione del Partito comunista internazionale.

Milano. Anche la sezione di Milano, come già quella di Roma a ottobre 2016 e quella di Benevento a giugno, ha tenuto, sabato 15 febbraio, un incontro pubblico di presentazione dell’opuscolo La crisi del 1926 nell'Internazionale Comunista e nel partito russo, presso lo “Spazio Ligera” di via Padova, già noto a lettori e simpatizzanti e sede di altri nostri incontri pubblici.

Alla presenza dei compagni e di un buon numero di simpatizzanti e lettori, il relatore ha esordito ricordando che la pubblicazione del nostro testo non nasce da motivazioni storiografiche o culturali, ma da esigenze di pura lotta politica. Il testo intende offrire un bilancio di eventi densi di insegnamenti, che segnarono la fine del ciclo rivoluzionario iniziato con l'Ottobre rosso e conclusosi con la vittoria della controrivoluzione. Il 1926 rappresenta quindi uno spartiacque: riproporre oggi questo testo è parte della nostra battaglia per la rivoluzione.

La Rivoluzione d'Ottobre fu comunista e proletaria in ambito politico; ma in ambito economico, data l'arretratezza della Russia, aveva da affrontare necessariamente compiti antifeudali, ossia sviluppare il modo di produzione capitalistico. Fin dal 1905, questa era la tattica indicata da Lenin (Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica) in contrapposizione a quella menscevica. Dopo la presa del potere, i bolscevichi sconfissero militarmente le forze della borghesia internazionale che da subito aveva tentato di soffocare il nascente stato proletario; e furono conseguenti nel prendere l’iniziativa della costituzione, nel 1919, dell'Internazionale Comunista, con lo scopo di coordinare e guidare la rivoluzione comunista nell'Occidente sviluppato, dove la conquista del potere, specie in Germania, avrebbe accelerato il processo rivoluzionario verso il socialismo nella stessa Russia. Ma il movimento comunista internazionale non si dimostrò all’altezza del compito storico di "espandere" la rivoluzione anche in Occidente e certo non furono d’aiuto gli espedienti tattici adottati dall’Internazionale e volti a "forzare" la storia (fronte unico politico, parola d'ordine del “governo operaio e contadino, bolscevizzazione dei partiti...). La rivoluzione si accartocciò su se stessa. Negli anni che condussero alla “svolta” del 1926 (il “socialismo in un paese solo”), la battaglia contro la degenerazione dell'Internazionale, condotta in Russia in maniera sparsa e a volte contraddittoria dall’Opposizione e in Occidente con coerenza dalla sola Sinistra Comunista, già alla guida del Partito Comunista d’Italia, non era ancora persa. Gli avvenimenti di quegli anni testimoniano la dura lotta e le difficili questioni che affrontarono i rivoluzionari: lo mostrano le Tesi della Sinistra al Congresso di Lione (1926), il dibattito sulla questione russa al VI esecutivo allargato dell'Internazionale, la lettera di Bordiga a Korsch del 1926 (ripubblicata nel nostro opuscolo), e poi il tradimento dello sciopero generale inglese del 1926 e la tragedia della rivoluzione cinese del 1926-27.

Dopo aver ribadito le posizioni di Lenin, specie per quanto riguarda il significato della NEP come strumento inevitabile per lo sviluppo del capitalismo (possibilmente, al suo livello più alto, di Stato) in quanto base materiale del socialismo, in attesa dell’auspicata rivoluzione in Occidente, il compagno ha brevemente riassunto le posizioni che si andarono delineando in merito a tutti questi problemi, sempre precisando che, per il materialismo dialettico, gli eventi storici non sono determinati dalle idee di individui più o meno geniali o creativi, ma, al contrario, le dinamiche della lotta di classe, le forze sociali materiali, spingono alcuni individui ad “incarnare” e farsi portavoce di determinati interessi storici. In quest’ottica, dunque, vanno valutate le posizioni via via emerse anche dentro il partito russo, e le interpretazioni della NEP e delle prospettive della rivoluzione in Russia, proposte da Trotsky, Bucharin, Preobragensky e altri. Analogo – è stato ribadito – è il rapporto dialettico tra il partito rivoluzionario e l'“ambiente” che lo circonda e lo rende "fattore” ma anche “prodotto” della storia. L’inevitabile e necessario sviluppo del modo di produzione capitalistico in Russia, la stessa “gestione” dello stato, finirono per influenzare anche il partito bolscevico e l'Internazionale, modificandoli “geneticamente”. Così, lo stalinismo e la sua teoria del “socialismo in un solo paese” non furono il parto di chissà quali “genii del male”, ma l’espressione di queste forze materiali e impersonali, cui né il partito né l’Internazionale seppero opporre il giusto baluardo.

Le battaglie della Sinistra Comunista, volte a rendere più organica ed efficace l'Internazionale contrastando misure tattiche inizialmente "frettolose" e poi via via sempre più disgiunte da teoria e princìpi, e la sua insistenza perché la "questione russa" venisse infine posta al centro della discussione dell'intera compagine internazionale comunista (richiesta che non venne mai accolta dalla dirigenza ormai stalinizzata), rappresentano quindi le necessarie lezioni delle controrivoluzioni da cui ripartire. Era chiaro, per noi, che la battaglia andava combattuta fino in fondo, senza cedere alle sirene di “opposizioni” eterogenee e teoricamente deboli e contraddittorie, che ritenevano già persa quella battaglia e che pertanto non hanno potuto lasciare nulla alle generazioni successive di rivoluzionari. La lezione per le nuove generazioni di rivoluzionari è che occorre comprendere le cause della sconfitta: comprendere cioè la controrivoluzione per preparare la rivoluzione di domani.

Roma. L’11 febbraio, presso la Libreria Anomalia, nostro usuale punto d’incontro, i compagni della sezione hanno tenuto una conferenza pubblica su “Lo sciopero generale inglese del 1926 e la Rivoluzione cinese del 1927: ultimi sussulti dell’ondata rivoluzionaria dell’Ottobe rosso”. In apertura di conferenza, riallacciandosi alla conferenza tenuta qualche mese prima sul nostro opuscolo La crisi del 1926 nell’Internazionale Comunista e nel partito russo, un compagno ha tenuto a ribadire l’importanza del biennio 1926-27 nella storia del movimento comunista e come la sconfitta subita dall’Opposizione nel Partito Comunista russo sia direttamente collegata a quella del movimento operaio inglese e della rivoluzione cinese, ultimi sussulti di quell’ondata rivoluzionaria iniziata nel 1914 con lo scoppio del primo conflitto mondiale inter-imperialistico. La compagna che è seguita nella relazione, con l’ausilio di foto-proiezioni dell’epoca, ha analizzato dettagliatamente la crisi economica dell’Inghilterra negli anni che precedettero il poderoso sciopero generale del 1926, che mobilitò più di due milioni e mezzo di lavoratori. Il CAR (Comitato anglo-russo), organismo dell’Internazionale, emanò direttive a dir poco suicide, obbligando il Partito Comunista di Gran Bretagna a porsi a rimorchio del consiglio generale del TUC (la centrale sindacale, da sempre covo di crumiri e traditori), considerato purtroppo da un’Internazionale non ancora del tutto stalinizzata come l’autentico rappresentante degli interessi della classe operaia e con questo condannando alla sconfitta il forte e generoso proletariato inglese. Il compagno che ha preso poi la parola a proposito della rivoluzione cinese, dopo un rapido excursus sulla storia del proletariato cinese, delle sue organizzazioni di difesa economica e della lunga serie di scioperi e sollevazioni operaie tra il 1922 e il 1925, si è soffermato a illustrare molto sinteticamente le posizioni del marxismo sulle rivoluzioni nazionali nei paesi arretrati, o coloniali e semi-coloniali, così come vengono esposte nell’Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti (1850) di Marx ed Engels, in Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica di Lenin (1905) e nelle Tesi sulla questione nazionale e coloniale approvate al II Congresso del l’Internazionale Comunista (1920). Ha ribadito come le disastrose disposizioni tattiche impartite, in netta contrapposizione con queste ultime Tesi dall’Internazionale ormai stalinizzata, al giovane Partito Comunista Cinese ne abbiano determinato non solo l’indebolimento, il disarmo, l’assoggettamento al Kuomintang (il partito nazionalista borghese) e, infine, la tragica sconfitta (o meglio, una serie di tragiche sconfitte), con il solito corollario di massacri e vere carneficine, ma abbiano prodotto un danno ulteriore a tutto il movimento proletario: l’annichilimento del partito non ha significato soltanto la negazione del suo ruolo di guida del proletariato cinese, ma anche l’avergli impedito di trarre dalla sconfitta, della quale non poteva avere nessuna colpa, lezioni universali e durature in quanto bagaglio prezioso per le lotte a venire. Così, ha concluso il compagno, in quell’eccezionale concorso di situazioni non ci poté essere la saldatura tra le lotte nel paese imperialistico direttamente impegnato in Cina (l’Inghilterra) e la lotta a carattere nazionale (ma con un vigoroso movimento proletario e comunista) in quel paese. Ci fu, invece, alle radici del ritardo storico mondiale della rivoluzione, l’incapacità di sradicare fino all’ultimo dalle file del movimento comunista internazionale i miti paralizzanti della democrazia, del frontismo e del “bloccardismo”. Proprio nel riconoscimento di questi limiti (contro cui invano si alzò la nostra voce, in una battaglia sconfitta ma gloriosa e fondamentale per il futuro) è la condizione perché si riapra la prospettiva della rivoluzione dittatoriale, monoclassista e monopartitica del proletariato mondiale. Solo allora saranno vendicate le migliaia di proletari e comunisti, caduti in Cina nel 1927.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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