DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nella Parte Prima di questo studio (che – lo ricordiamo – costituiva uno dei Rapporti alla Riunione Generale di Partito, tenutasi a Milano il 29-30/10/2016), abbiamo fornito una sintesi delle “dinamiche dell’imperialismo nel secondo dopoguerra”, strutturata nei seguenti capitoletti: “La guerra è finita”, “Gli aspetti produttivi”, “Gli aspetti finanziari e commerciali”, “La questione demografica”, “La crisi sincrona di sovrapproduzione della metà degli anni ‘70”. Procediamo ora, in due puntate, con la Parte Seconda.

 

PARTE SECONDA: INTEGRAZIONI AL LAVORO SUL CORSO DEL CAPITALISMO MONDIALE

Ultimo “ciclo lungo” (1974-2007): il vano tentativo del capitale di andare oltre i propri limiti

Scopo di questa seconda parte è integrare l'aggiornamento del “corso del capitalismo mondiale” con una ricostruzione delle crisi che hanno interessato la sfera del credito nell'ultimo “ciclo lungo” (1). La questione riveste un particolare rilievo se si tiene conto del fatto che il ciclo di espansione che si apre dopo la crisi del 1974-75 è stato accompagnato da un’espansione senza precedenti del credito e della finanza, tanto da indurre la cosiddetta scienza economica a teorizzare pressoché unanimemente l'avvento di un “capitalismo affatto nuovo”, non più centrato sulla produzione di beni materiali ma sulla potenza del denaro e della finanza. Questa visione si fonda sull’evidenza dei fenomeni di superficie, ma è ben lontana dal rappresentare la realtà del capitalismo che, per quanto cerchi di spingersi oltre se stesso, rimane invariante nelle sue determinanti di base. Il tentativo di forzare la produzione ricorre infatti in tutte le epoche del capitalismo, sempre affidato alla leva del credito, con la differenza che, nell'ultimo “ciclo lungo”, il ricorso al credito, conformemente al grado di sviluppo delle forze produttive, ha superato ogni precedente limite sia sul mercato interno sia sui mercati internazionali.

La spinta alla sovrapproduzione forzata dal credito è stata la risposta del capitale alla crisi del 1974-75, punto terminale della fase espansiva post-bellica. Il centro dell'imperialismo mondiale si è riorganizzato a partire dalla liberalizzazione del credito, che ha assunto dimensione mondiale con la libertà di movimento dei capitali e la privatizzazione dei flussi internazionali di capitale sottratti al monopolio delle banche centrali. Nell'arco di quarant'anni, il processo di forzatura del credito internazionale ha innescato fasi di crescita economica di paesi in via di sviluppo che generalmente sono sfociate in gravi crisi debitorie; in paesi di vecchio capitalismo, la liberalizzazione del credito ha indotto fasi di espansione forzata dell'economia, anch'esse interrotte da crisi debitorie e crollo dei prezzi a partire dai settori oggetto di speculazione.

La ricostruzione di questo lungo percorso indica anzitutto quanto lo sviluppo convulso del capitalismo nell'epoca della cosiddetta globalizzazione sia stato solo apparentemente trionfale, e in definitiva costellato di fallimenti, di cui la grande crisi del 2008 ha rappresentato l'inevitabile esito. In definitiva, l'immane sforzo del capitale di liberarsi dalle catene della legge del valore che lo condanna all'inesorabile declino non ha potuto evitare la seconda grande crisi del meccanismo di accumulazione per la cui soluzione, a distanza di quasi dieci anni, non si intravedono le condizioni sul terreno economico, nonostante gli immani sforzi della banche centrali. Il capitale, nelle sue articolazioni nazionali, deve affidarsi pertanto con sempre più frequenza agli strumenti politici: sul piano interno, alimentando il capitale con sussidi diretti e indiretti, legiferando a favore dell'intensificazione dello sfruttamento, riducendo la quota complessiva di reddito destinata ai salari; sul piano internazionale, ingaggiando guerre commerciali sempre più aspre che ripropongono storiche contrapposizioni. L'interventismo statale ha per altro caratterizzato tutta la fase della cosiddetta liberalizzazione, che altro non è stata se non un grandioso intervento di ri-regolamentazione atto a smantellare le limitazioni imposte al credito e ai movimenti di capitali risalenti alla Grande Depressione pre-guerra.

Nel prosieguo di questo lavoro, intendiamo presentare il percorso che il capitalismo ha compiuto a partire dalla crisi del sistema di Bretton Woods, un passaggio chiave nell'ambito della liberalizzazione delle condizioni per l'espansione del credito a livello mondiale.

1- La creazione di un mercato mondiale dei capitali

Una premessa innanzitutto. L'esigenza di un mercato mondiale è connaturata allo sviluppo capitalistico, ma deve fare i conti con le esigenze dei governi nazionali di salvaguardare un certo grado di autonomia (monetaria) che permetta di attenuare le ripercussioni negative degli squilibri internazionali sui mercati interni. Il dualismo che nasce dalla spinta all'internazionalizzazione e dal freno determinato dalle necessità nazionali fa sì che il completamento di un sistema monetario internazionale con un'unica moneta o con cambi stabilmente fissi non si compirà mai. Il sistema è destinato pertanto a rimanere perennemente teso tra i due estremi dell'autarchia e della mondializzazione. Nella seconda metà del XX secolo, si è raggiunto il punto più alto di integrazione del mercato mondiale, prima sul piano commerciale e in seguito su quello finanziario, attraverso  a) l'affermazione di una moneta fiduciaria mondiale, b) la libertà di movimento dei capitali, c) la privatizzazione dei flussi internazionali di capitale. In seguito, altrettanta rilevanza hanno assunto il processo di integrazione monetaria europea e le politiche di liberalizzazione dei movimenti dei capitali negli anni Ottanta (2). Analizziamo allora ciascuno di questi punti.

a) L'affermazione di una moneta fiduciaria mondiale

Dopo la Prima guerra imperialista, il consolidamento del capitalismo mondiale si era realizzato in un nuovo sistema monetario di tipo duale: l'oro rimaneva base del regime monetario internazionale, mentre la carta, la moneta fiduciaria, si imponeva nella circolazione interna, convertibile solo per le esigenze dei regolamenti all'estero. Nel 1946, i nostri compagni scrivevano: “Questa dualità doveva acquistare un'importanza capitale quando la crisi mondiale aprì la terza delle fasi essenziali del periodo del dopoguerra, quella durante la quale la società capitalista doveva tentare di adattarsi allo stadio decadente della sua evoluzione” (“I problemi della moneta e la prima guerra mondiale”, Prometeo, n.4/1946). Con ciò, intendevano dire che la crisi del sistema aureo internazionale manifestatasi dopo il 1930 annunciava l'abbandono dell'ancoraggio all'oro e il passaggio a un sistema senza regole, basato, in definitiva, sulla forza economica e politica dei Paesi concorrenti.

Gli accordi di Bretton Woods riaffermarono il regime dualistico, ma la durata effettiva del nuovo assetto non superò un decennio. Essi posero al centro del sistema monetario mondiale il dollaro, convertibile in oro al prezzo di 35$ l'oncia, mentre le autorità monetarie dei singoli paesi assumevano l'impegno di convertire le loro valute in dollari a un prezzo fisso, o comunque entro una ristretta banda di oscillazione. Di fatto, per quanto il vincolo non fosse rigido, si introduceva un regime di cambi fissi (3): in definitiva un'unica moneta mondiale, convertibile in oro, mentre le singole banche centrali garantivano la convertibilità in dollari delle altre divise nazionali.

In un'epoca di espansione economica, crebbe pertanto la domanda di dollari, alla quale gli Stati Uniti potevano provvedere solo con politiche monetarie espansive (dal 1959 al 1969, lo stock di moneta M2 Usa raddoppia, e l'inflazione cresce del 40%) che spinsero in deficit la bilancia dei pagamenti. Questo implicava che in prospettiva gli Stati Uniti non sarebbero stati in grado di garantire la convertibilità dollari/oro, e in effetti a nulla valsero i tentativi di mantenere il prezzo dell'oro a 35$ vendendolo ai privati per scopi industriali. A partire dal 1968, partì un'ondata speculativa di vendita di dollari in cambio di marchi e yen che nell'arco di alcuni anni portò alla disintegrazione del sistema di cambi fissi di Bretton Woods.

In regime di cambi fissi, un paese in deficit permanente delle partite correnti, non potendo impegnare oltre un certo limite le riserve per mantenere la parità, deve mettere in atto politiche monetarie e fiscali restrittive che deprimono la domanda interna e le importazioni. Il cambio fisso pone pertanto un forte condizionamento esterno sull'azione dei governi, con ricadute su redditi e occupazione. Come accade nell'odierna realtà dell'Euro-area, dove vige un regime di cambi fissi, ogni deficit che non venga compensato da aumenti delle tasse, tagli di spesa, riduzione dei salari e dell'occupazione provoca attacchi speculativi che mettono in crisi i rapporti di cambio (nel caso dell'euro, la permanenza nell'area monetaria). Ma alla fine degli anni Sessanta non vi erano le condizioni per far digerire una contrazione dei salari e dell'occupazione come quella imposta in questi anni a paesi come la Grecia. In Francia, l'aumento salariale sulla spinta delle lotte operaie del '68 si accompagnò a un incremento delle importazioni e a un peggioramento della bilancia dei pagamenti che costrinse il governo a svalutare il franco; in Gran Bretagna, le politiche espansive dei laburisti crearono le condizioni per attacchi speculativi sulla sterlina, che fu svalutata nel 1967; negli Stati Uniti, le politiche monetarie e fiscali espansive portarono a un peggioramento della bilancia dei pagamenti che dai primi anni Settanta precipitò in territorio negativo, e a una spirale inflazionistica che, in virtù del ruolo centrale del dollaro, si trasmise a tutto il mondo (vedi P. De Grauwe, Economia monetaria internazionale, Il Mulino, p.68-69). Nel 1971, anche il dollaro subì la svalutazione nei confronti delle principali divise. Nello stesso anno, la dichiarazione di inconvertibilità dollaro-oro pose fine agli accordi di Bretton Woods e segnò una nuova tappa nel cammino verso la smaterializzazione della moneta (cfr. il nostro testo “Teoria della moneta”, Il programma comunista, nn. 5,6,7,8,10,12,14,15,16/1968).

Con l'abbandono delle regole di Bretton Woods, si passò a un sistema monetario internazionale con una moneta fiduciaria principale, affiancata da altre monete di riserva concorrenti (marco e yen) e dai “Diritti speciali di prelievo”. Il nuovo assetto garantiva un'espansione della massa monetaria indipendente da un irrealistico vincolo aureo, basata più che sul già vacillante primato economico della superpotenza atlantica (minacciato allora dalla concorrenza di Germania e Giappone) sul suo indiscusso strapotere politico-militare che le garantiva “l'esorbitante privilegio” di battere moneta mondiale e il vantaggio di riscuotere una parte del plusvalore mondiale prodotto fuori dai suoi confini (4).

All'epoca si manifestavano già i primi segni di un rallentamento del ciclo di espansione post-bellica che aveva visto protagonista un pugno di potenze industriali dominanti. In presenza di questi segnali di declino, le condizioni monetarie si adeguarono alla prospettiva di un'espansione della massa monetaria disponibile sui mercati mondiali, dove già  esisteva una massa di capitali fluttuanti in dollari, fuori dal controllo delle banche centrali. La completa smaterializzazione del denaro, liberato da ogni riferimento alla merce-oro, si estendeva oltre i confini nazionali, imponendo definitivamente la moneta fiduciaria nell'interscambio mondiale. L'abbandono dei cambi fissi determinò inizialmente una fase di grande volatilità nei rapporti di cambio tra monete (cfr. “Nel turbine delle monete e degli idoli borghesi vacillanti si staglia all'orizzonte il crollo del sistema capitalistico”, Il programma comunista, n.19/1971) e in seguito si stabilizzò in un relativo equilibrio in cui giocavano un ruolo centrale i movimenti internazionali di capitali e le politiche messe in atto dalle principali banche centrali.

 

b) Libertà di movimento dei capitali

Finché c'era stata espansione, il regime monetario internazionale si era basato su regole condivise; quando cominciò a profilarsi un rallentamento del tasso di accumulazione si passò a un sistema di fatto senza regole e di aperta concorrenza anche sul terreno delle monete. Fu questa la madre di tutte le liberalizzazioni che sarebbero state introdotte in seguito. Il nuovo regime prevedeva fluttuazioni controllate dei tassi di cambio come strumento per compensare gli squilibri tra le bilance dei pagamenti senza dover ricorrere a manovre eccessivamente impopolari. Le variazioni delle parità, però, comportano un rischio valutario che agisce da freno ai movimenti internazionali dei capitali, movimenti che andavano pertanto liberalizzati (5). 

La libertà di movimento di capitali ha avuto pertanto un ruolo fondamentale nel finanziamento compensativo degli squilibri nei saldi globali delle bilance dei pagamenti, riducendo la necessità del ricorso alle riserve ufficiali per contenere le oscillazioni dei tassi di cambio e i loro effetti inflattivi (in caso di forti svalutazioni) o recessivi (in caso di rivalutazioni) (6).

Per intervenire sui rapporti di cambio delle proprie divise, gli Stati si trovarono pertanto nella necessità di attirare il flusso di capitali attraverso politiche espansive che promuovessero le occasioni di investimento e garantissero la redditività degli impieghi. Una politica fiscale espansiva “(dovuta a un aumento di spesa pubblica o a una riduzione delle imposte) fa aumentare la produzione interna e il tasso di interesse interno. L'effetto produzione fa aumentare le importazioni provocando, quindi, un deterioramento del conto corrente, mentre l'effetto tasso di interesse provoca l'afflusso di capitali. L'effetto netto sul tasso di cambio dipende dalla mobilità dei capitali. In un contesto di perfetta libertà dei movimenti di capitali, l'effetto tasso di interesse dominerà l'effetto produzione: una espansione fiscale condurrà, pertanto, ad un apprezzamento della moneta nazionale” (De Grauwe, op. cit., p.142).

 

c) La privatizzazione dei flussi internazionali di capitale

L'altro significativo cambiamento nella gestione della liquidità internazionale intervenuto nel periodo post-Bretton Woods fu il rapido processo di privatizzazione della moneta internazionale, cioè il “forte ridimensionamento delle riserve ufficiali non auree in rapporto alle attività internazionali delle banche. In altre parole, la liquidità internazionale rimane accumulata in proporzione crescente nei portafogli delle banche anziché confluire in quelli delle banche centrali” (Voce “Sistema monetario internazionale”, Enciclopedia dell'economia Garzanti, 1992). 

E' dunque il sistema bancario privato a gestire i flussi finanziari internazionali e ad assumere così un ruolo di condizionamento delle politiche nazionali. Sono questi, in definitiva, gli onnipotenti “mercati”, le divinità che decretano il bene e il male delle nazioni in base ai differenziali di rendimento tra tassi di interesse, e che le abbandonano al loro destino quando non rispondono ai requisiti di efficienti sfruttatori del proletariato [7].

Un fenomeno tipico, che si ripresenta periodicamente nello scenario dei mercati mondiali dei capitali, è dato dal rialzo dei tassi di interesse nel centro dell'imperialismo, che determina il rientro di capitali dalla periferia e l'aumento del costo del debito per la rivalutazione della moneta (dollaro) in cui sono denominati i prestiti. Il primo Paese a fare le spese del nuovo regime in termini di costo del debito è stato il Messico, quando, agli inizi degli anni ’80, gli Stati Uniti inaugurarono una politica di alti tassi di interesse. Allo stesso tempo, però, l'afflusso di capitali, così come il rialzo dei tassi, si ripercuote sul debito del centro imperialista, che aumenta, e sulla sua competitività internazionale per la variazione al rialzo dei rapporti di cambio (8). La crisi del sistema bancario americano, di cui si parla più avanti, fu una conseguenza indiretta della politica di alti tassi.

Prima sintesi. Il mercato mondiale integrato, commerciale e finanziario, è frutto di un processo che abbraccia tutta la seconda metà del XX secolo. La liberalizzazione nei movimenti di capitali risale a un decennio prima della “svolta neoliberista” degli anni ’80, non come risultato di una particolare politica (che è sempre riflesso delle condizioni economiche reali), ma per effetto degli squilibri negli scambi internazionali, tra Paesi in deficit e Paesi in surplus. La libertà di circolazione internazionale dei capitali divenne la condizione necessaria per la compensazione di quegli squilibri. A loro volta quegli squilibri sono, in ultima istanza, il risultato delle differenti condizioni in cui avviene l'estrazione del plusvalore in ciascun Paese: a maggiore produttività del lavoro corrisponde maggiore competitività sui mercati mondiali (una data massa di merci contiene tanto meno valore quanto più la produttività determinata dal grado di composizione organica del capitale è elevata). Per un altro verso, la libertà dei movimenti di capitali introduce un fattore di distorsione: gli effetti dei divari di produttività sui rapporti di cambio possono essere annullati da manovre fiscali e sui tassi di interesse che, attirando capitali, provocano una variazione al rialzo dei rapporti di cambio della moneta del Paese destinatario dei flussi indipendente dal fattore produttività. Tuttavia, la superiore capacità di estorsione del plusvalore (alias produttività) rimane il fattore che determina, in ultima istanza, le sorti della competizione mondiale ed è pertanto perseguito da tutti i principali competitori. Ma i vantaggi di una maggiore produttività alla lunga si tramutano in un insostenibile rallentamento del tasso di accumulazione per la caduta del saggio del profitto. Pertanto, La libertà di circolazione delle merci e dei capitali, la creazione di un mercato mondiale, se da un lato contrastano la tendenza alla caduta del saggio medio del profitto (Marx), dall'altro creano l'ambiente per una competizione globale che esaspera la gara agli incrementi di produttività e, da questo punto di vista, accelera quella stessa la tendenza.

 

2- Origine della crescita dell'indebitamento

Per quanto il capitale mobiliti tutte le sue forze per contenere le spinte disgregatrici generate dal suo stesso sviluppo, la direzione e l'esito del cammino sono segnati inesorabilmente, e ogni tentativo ne genera di nuove e più forti. Il nuovo equilibrio per così dire “flessibile” seguito al collasso del sistema di Bretton Woods proponeva nuovi e più potenti fattori di disgregazione: primo fra tutti, la tendenza generalizzata all'indebitamento corrispondente alla dilatazione del credito internazionale. Riepiloghiamo la sequenza di alcuni eventi economici decisivi che caratterizzano gli anni ‘70:

- nel 1971 il dollaro comincia a svalutare in concomitanza con la dichiarazione di inconvertibilità;

- il deprezzamento spinge l'OPEC a tagliare la produzione di petrolio per tenere alti i prezzi denominati in dollari;

- l'aumento dei costi dell'energia (capitale costante) incide pesantemente sul saggio del profitto ed è uno dei fattori che innescano, a metà decennio, la caduta della produzione e processi inflattivi nei principali Paesi industriali, le cui bilance dei pagamenti vanno in rosso;

- l'aumento dei prezzi petroliferi è anche all'origine della crisi debitoria dei Paesi del Terzo Mondo, ben prima che questa esplodesse con il crollo dei prezzi delle materie prime agli inizi degli anni ‘80;

- decolla il debito pubblico degli Stati Uniti: dal 1973 al 1975 sale al ritmo annuo del 10% in termini nominali, quanto il Pil, ma il Pil reale cresce del 3%, mentre il debito nominale è il debito effettivo che la caduta dell'inflazione dei primi anni ’80 non avrebbe ridotto (9).

La capacità del capitale di riassorbire la crisi del 1975 dipese anche (10) dai fattori monetari e finanziari che stiamo cercando di mettere a fuoco: il superamento del limite aureo nella creazione di denaro mondiale e la presenza di masse di capitale finanziario liberamente fluttuanti sui mercati mondiali – con l'apporto della rendita petrolifera – e l'espansione del credito. Il 1975 segnò tuttavia la vera svolta nella traiettoria della catastrofe, perché quei fattori che avevano permesso al capitale di prolungare la propria agonia storica avrebbero ingigantito l'intensità e le dimensioni della crisi futura.

Nello stesso tempo, quei fattori erano il frutto delle difficoltà di accumulazione manifestatesi a partire dal capitalismo americano dalla fine degli anni ‘60, difficoltà che si rifletterono sulla tenuta della sua moneta e sul debito dello Stato: “tutta la crescita nel tasso del debito del Tesoro in rapporto al PIL dal 1970 è da attribuire alla caduta di profittabilità delle imprese americane e a una riduzione della tassazione sui profitti [...] dopo il 1967 gli introiti da tassazione sui profitti d'impresa crollarono drammaticamente. Caddero in parte per il relativo declino nei profitti d'impresa pre-tassazione, parte per la riduzione delle percentuali d'imposta sulle imprese” (Kliman, The Failure of Capitalist Production, Plutopress, p.65-66). Queste infatti erano scese dal 36,8% nel periodo dal 1947 al 1969 al 23,5% nel periodo dal 1970 al 2007. Se così non fosse stato, nel 2001 il tasso di profitto d'impresa sarebbe sceso dall'effettivo 7,9% al 3,3%.

Seconda sintesi. L'indebitamento del tesoro USA, che ha la sua radice ultima nella caduta del saggio del profitto delle imprese e nella riduzione della tassazione sui profitti che compensò in parte quella caduta, è un esempio di come la tendenza a fondamento della crisi, la caduta del saggio del profitto, rappresenti anche l'origine di fenomeni di superficie come il deficit di bilancio pubblico e l'indebitamento pubblico che ne finanzia le passività. Nel nuovo contesto di libera circolazione internazionale dei capitali, il debito americano è sostenuto da flussi finanziari (in particolare dai paesi del Golfo, con i quali gli Stati Uniti stringono un legame simbiotico), consentendo alla superpotenza di convivere con un deficit permanente della bilancia dei pagamenti. L'arma petrolifera assegna un ulteriore vantaggio all'imperialismo dominante, paese produttore, caricando la struttura industriale dei principali concorrenti dei costi crescenti dell'energia. Ma il maggior vantaggio per gli Stati Uniti deriva dal ruolo di principale centro finanziario mondiale in un'epoca di libertà dei flussi internazionali di capitali, ruolo che li pone nelle condizioni di appropriarsi di una quota di plusvalore mondiale sotto forma di rendita finanziaria. La risposta europea si concretizzerà attraverso il processo che porterà alla creazione di uno spazio monetario integrato e di una moneta “forte” in grado di competere col dollaro su mercati finanziari internazionali. In virtù del processo di privatizzazione dei flussi internazionali di capitali, la massa di denaro che affluiva nei centri dell'imperialismo era affidata alla gestione dei rispettivi sistemi bancari; per la sua natura di capitale finanziario, questa massa necessitava di valorizzarsi attraverso il drenaggio di quote di plusvalore da ogni angolo del mondo. Su questa vitale esigenza prende avvio il processo di liberalizzazione che nei primi anni ‘80, a partire dai capitalismi anglosassoni, abolisce le limitazioni sull'attività creditizia introdotte dopo la crisi del 1929.

3- Neoliberismo e ricadute del nuovo assetto

Lo scopo delle regole imposte al capitale bancario e finanziario per contrastare gli effetti della devastante crisi del 1929, ancora in vigore per tutta la fase espansiva post-bellica, era scongiurare un'espansione sconsiderata del credito tale da portare agli eccessi speculativi e agli sconquassi che avevano fatto traballare l'edificio del capitalismo mondiale. La leva fondamentale della reazione capitalistica alla nuova crisi di accumulazione era la restituzione della piena libertà di iniziativa al sistema creditizio (11).

Si è detto in precedenza che la madre di tutte le liberalizzazioni è stato il passaggio al regime di cambi flessibili che ha comportato la necessità della libera circolazione dei capitali, a compensare gli squilibri nelle bilance dei pagamenti. Nel momento il cui nella voragine del deficit americano si riversano i flussi internazionali di capitale, la liberalizzazione è già realtà. A quel punto, a partire dalla concentrazione finanziaria nel cuore dell'imperialismo mondiale, si creano le condizioni per una risposta globale del capitale alla crisi del meccanismo di accumulazione manifestatasi a metà degli anni ‘70: forzare la produzione attraverso la liberalizzazione del credito e la sua espansione internazionale in un contesto di libertà di movimento dei capitali.

Quello che è stato chiamato “neoliberismo” altro non è che la rappresentazione ideologica delle condizioni obiettive in cui si trovava il capitalismo mondiale nei primi anni ’80 e riflette la necessità del capitale di forzare la produzione con la leva del credito, superando i limiti dati dal livello medio del tasso di profitto e del tasso di accumulazione declinanti (12). Le difficoltà di accumulazione spingono il capitale all'azzardo e a ogni tipo di avventura, pur di recuperare margini di profitto in presenza di un tasso medio determinato dal livello dato di produttività e di sviluppo delle forze produttive: “Se il tasso di profitto cade […] avremo truffe e una generale promozione di frodi, attraverso disperati tentativi sulla strada di nuovi metodi di produzione, nuovi investimenti di capitale e nuove avventure, per assicurare qualche tipo di extraprofitto, che sarà indipendente dalla media generale o superiore a essa” (K. Marx, Il Capitale, Libro III).

Prendeva così avvio una nuova fase storica, in cui il libero dispiegarsi della potenza economica dei grandi gruppi industrial-finanziari (non è più possibile stabilire una netta separazione tra industria e credito, in un sistema estremamente concentrato e costruito su complesse interrelazioni) li avrebbe spinti alla conquista dei mercati mondiali, coinvolto nuove nazioni e nuove masse proletarie nel vortice della produzione, spinto a un'ulteriore concentrazione della produzione e della ricchezza, espropriato i produttori medi e piccoli, espropriata la piccola e media proprietà con la fattiva collaborazione degli apparati fiscali degli Stati e dei sistemi bancari, approfondito la proletarizzazione, creato strati crescenti di ceti marginali e incrementato la schiera dell'esercito industriale di riserva.

Le ricadute sugli assetti sociali, politici e sulle relazioni internazionali sarebbero state notevoli. Dare piena libertà di movimento al capitale equivaleva, in prospettiva, a imporne la legge in ogni aspetto dell'esistente, a partire dai rapporti di classe – con l'attacco alle organizzazioni economiche dei lavoratori, al salario e ai benefici del welfare – per continuare con la progressiva subordinazione degli Stati e della politica al nuovo indirizzo neoliberista. Gli oltre trent'anni che ci separano dall'avvio della liberalizzazione economica sono stati segnati dal susseguirsi di questi “disperati tentativi”: investimenti esteri, speculazioni, lancio di nuovi metodi di produzione e nuovi prodotti, con il sostegno del credito elevato al massimo grado, potenziato da strumenti finanziari fasulli, adeguati alla “generale promozione della truffa” di cui parla Marx. L'esplosione del capitale finanziario e la sua contraddittoria autonomizzazione dal processo di accumulazione reale sono al contempo espressione di potenza e di debolezza: la potenza del dominio sulla produzione reale si manifesta con il rapido afflusso e deflusso del capitale finanziario in base alle condizioni di profittabilità degli investimenti, ma nella logica del “mordi e fuggi” c'è la mancanza di prospettiva di un sistema in declino – si inseguono i minimi differenziali di rendimento perché il saggio medio del profitto è ormai insufficiente ad alimentare l'accumulazione. La quota preponderante del capitale finanziario gira a vuoto nella vana illusione di una valorizzazione nel processo D-D’, che si realizza solo con la truffa o con il balletto del cerino che passa da una mano all'altra. Gli anni ‘90 vedono la fioritura della cosiddetta “finanza creativa”, della nascita di prodotti finanziari privi di qualunque valore intrinseco, ma commerciabili sui mercati finché il vortice dell'espansione creditizia ne rendeva appetibili i rendimenti. Questi strumenti costituivano pertanto denaro bancario che alimentava a sua volta l'espansione del credito.

Il processo di espansione internazionale della finanza e del credito si è tradotto in processi reali che hanno coinvolto tanto le metropoli imperialiste quanto gli Stati periferici, con modalità diverse. A partire dagli anni ’80, i Paesi in via di sviluppo conobbero un crescente indebitamento verso i grandi investitori internazionali, sottomettendosi a regole capestro che nella maggior parte dei casi ne accentuarono la dipendenza e il sottosviluppo; in alcuni contesti più favorevoli all'attecchire della pianta capitalistica , il credito favorì l'avvio di una industrializzazione che inserì alcuni Paesi (Corea del Sud, Cina) nelle graduatorie mondiali delle principali produzioni.

Il verificarsi di crisi debitorie già dai primi anni ‘80, a iniziare da quella messicana (1981), dava i primi segnali dei rischi dell'apertura dei mercati finanziari internazionali: rischi che in quella fase si concentravano principalmente sui debitori, ma che nel breve termine avrebbero coinvolto i sistemi bancari e finanziari delle metropoli da cui il credito aveva origine. Contestualmente, aumentava l'indebitamento degli Stati, messi di fronte alle crescenti necessità di finanziare la spesa pubblica in presenza di tassi di incremento della produzione calanti rispetto ai decenni precedenti, ma anche per garantire remunerazione al capitale bancario e in generale ai rentiers, comprese le mezze classi che godevano ancora del colare del grasso accumulato negli anni del boom.

Tra gli anni ’80 e ’90, si afferma e generalizza il principio dell'indipendenza delle banche centrali: queste si svincolano dall'obbligo di scontare illimitatamente i buoni del Tesoro per finanziare la spesa dello Stato, il quale – non potendo più contare su un acquirente sicuro – è costretto a finanziarsi sui mercati internazionali e per farlo deve ridurre il prezzo dei suoi titoli e aumentarne i rendimenti (l'espansione del debito pubblico italiano si deve più che alle mani bucate dello Stato spendaccione, questa bella novità introdotta già nel 1981). Il divieto di finanziamento monetario del fabbisogno statale diventerà legge in tutta l'Eurozona con la ratifica del Trattato di Maastricht (1991).

Dal divorzio Tesoro-Banca centrale, lo Stato ha iniziato a remunerare direttamente e in modo crescente il capitale finanziario interno e internazionale e a subirne il pesante condizionamento, perdendo il già ridotto margine di manovra che, nella fase espansiva, aveva consentito ai governi di agire sulla spesa per mitigare gli effetti del mercato capitalistico e contenere le lotte rivendicative; da quel momento, la spesa pubblica non destinata a nutrire direttamente o indirettamente il capitale andava tagliata per alleggerire la pressione sul debito pubblico (13).

Mentre da un lato condizionava le politiche statali, in particolare quelle fiscali, con un inasprimento a carico delle categorie a reddito fisso e a garanzia delle rendite dei titoli di Stato, la finanza internazionale promuoveva una gara al ribasso delle imposte sui capitali e creava le condizioni per potersi sottrarre il più possibile ai controlli fiscali. La rottura delle barriere alla libera circolazione di capitali si accompagnò alla nascita di zone franche dove i capitali potevano essere accumulati e gestiti da società ad hoc fuori da ogni controllo da parte degli stati, in modo del tutto legale.

Terza sintesi. Lo smantellamento progressivo del welfare ha avuto inizio parallelamente al superamento delle barriere nazionali ai movimenti di capitale.  Anche in questo campo, il successo del capitale è manifestazione di forza solo apparente. In realtà, nasce dalla necessità di contrastare la crisi del meccanismo di accumulazione, procedendo alla redistribuzione forzata di quote di reddito dalle fasce economiche più deboli alla rendita finanziaria interna e internazionale. Non essendo in grado di produrre nuovo plusvalore a tassi sostenibili, il capitale contende quote di plusvalore sociale.

4- Instabilità finanziaria mondiale

Il nuovo assetto dell'imperialismo mondiale ha il suo contraltare in una generale instabilità finanziaria e nella crescita dell'indebitamento: dal 1976 al 1985, i casi di crisi debitoria di Stati (fallimento o ristrutturazione del debito) si moltiplicarono, principalmente per la crisi del debito dei paesi del Terzo Mondo nei primi anni ‘80. Queste difficoltà debitorie mettevano però in forte difficoltà le banche esposte in quei mercati (14). Dal 1951 al 1973, la percentuale di paesi che avevano conosciuto crisi bancarie era rimasta prossima allo zero; da allora, salì rapidamente, toccando il 10% nel '79. Poi scese al 5% fino al 1983, e da quell'anno al 1986 s’impennò nuovamente, fluttuando tra il 20 e il 30% (25% medio) dal 1985 al 1999, per poi scendere a livelli molto bassi, fino alla crisi globale del 2007-2008 (15).

Ecco la serie storica delle principali crisi che hanno coinvolto i sistemi bancari dagli anni ‘80:

- crisi delle saving & loans americane a metà decennio;

- crisi delle banche dei paesi nordici tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ‘90;

- crisi delle banche giapponesi, con lo scoppio delle bolle borsistica e immobiliare (1990); nello stesso periodo, entrano in crisi le banche di molti paesi dell'ex blocco russo; la crisi giapponese si risolve in una stagnazione per tutto il decennio e oltre;

- si rinnova la crisi finanziaria nel Terzo Mondo con la crisi delle banche in Argentina e Messico (1994);

- crisi valutaria in Thailandia (1997), che apre la strada alla crisi (bancaria) in sette paesi dell'Est e Sudest asiatico;

- 2000: inizia l'implosione della bolla della new economy;

- 2001: crisi argentina (corsa agli sportelli per convertire pesos in dollari)

- 2007: fallimento di Lehman Brothers e collasso del sistema bancario mondiale

I Parte: Continuando il lavoro sul corso del capitalismo mondiale (I)

III Parte: Continuando il lavoro sul corso del capitalismo mondiale (III)

 

NOTE

1- I nostri “cicli lunghi” si basano sui lavori di Kuscinsky (economista sovietico) che fornirono dati dal 1859 fino al 1933, e solo relativamente a Usa, Germania, Francia e Regno Unito, aggiornati al 1956 e integrati con quelli di Giappone, Italia e URSS dal lavoro dei compagni che iniziarono ad occuparsi del “corso del capitalismo mondiale” a metà degli anni Cinquanta. I cicli si riferiscono all'andamento della produzione industriale (in un'accezione più ampia rispetto al Kuscinsky che escludeva l'industria di trasformazione dei prodotti agricoli, come quella del legno e la tessitura) considerata come “base per la misurazione dello stato di salute del capitalismo, del suo processo di sviluppo e della sua finitezza storica, mediante la conferma nei tempi lunghi della legge della inesorabile decrescenza dei suoi ritmi di incremento, specchio in cui si riflette la caduta tendenziale del saggio medio di profitto e sinonimo di invecchiamento, al quale la fase imperialista cerca di reagire in vari modi e tendendo al 'rapido incremento del capitalismo' stesso” (“Il corso del capitalismo mondiale”, Il programma comunista, n.1/2005). Nei cicli “lunghi” si manifestano dunque le tendenze di fondo dello sviluppo capitalistico, in particolare il rallentamento dei tassi di incremento della produzione, mentre al loro interno si individuano cicli più brevi là dove i picchi di produzione segnano l'alternarsi di fasi di espansione, rallentamento e caduta produttiva. La periodizzazione del “corso” suddivide lo sviluppo capitalismo in quattro cicli lunghi:  i primi due cicli riguardano solo le quattro potenze considerate dal Kuscinsky e abbracciano un arco di tempo che va dal 1859 al 1913; da questa data, prende avvio il terzo ciclo che coinvolge anche Italia, Giappone e URSS/Russia e si conclude nel 1973/75. Il quarto ciclo prende avvio dalla metà degli anni Settanta; nel testo che segue (vedi paragrafo 9), ne ipotizziamo la fine nella crisi del 2008-2009, che per profondità e durata è senz'altro superiore a quella del 1975. Tuttavia, il fatto che non vi sia stata una reale ripresa seguita a una adeguata distruzione di capitale potrebbe indurre a considerare la fase attuale come un prolungamento dell'ultimo ciclo lungo. Il chiarimento di questo punto è uno degli obiettivi del prosieguo del lavoro di partito sui temi economici

2- “Tra i fattori favorevoli alla nascita di un sistema monetario internazionale integrato nell'ultimo quarto del XX secolo fu il forte sviluppo degli scambi finanziari internazionali, la crescente privatizzazione della moneta internazionale e l'avvio del progetto di integrazione monetaria europea. Lo sviluppo senza precedenti degli scambi finanziari internazionali fu favorito dagli accordi di Bretton Woods (1944) con l'istituzione di cambi fissi e la progressiva liberalizzazione dei soli scambi commerciali. Negli anni Sessanta il processo fu favorito dalla presenza di una notevole quantità di dollari nei circuiti bancari e finanziari in Europa (mercato dell'eurodollaro) e negli anni Settanta dalle esigenze di finanziamento dei deficit petroliferi [petrodollari]. Infine, gli anni Ottanta sono caratterizzati da una tendenza generalizzata alla deregolamentazione e alla liberalizzazione finanziaria”, Voce “Sistema monetario internazionale”, Enciclopedia dell'economia Garzanti, 1992.

3- Bretton Woods segnava la realizzazione sul piano internazionale di un processo già compiuto nei sistemi monetari nazionali: la centralizzazione dell'oro presso la banca nazionale e il passaggio al sistema cartaceo. Di fatto, gli Usa detenevano il 70% dell'oro in possesso delle autorità monetarie mondiali.

4- “Dal 1971, una grossa quantità di dollari, dei dollari che gli USA hanno pagato per le loro importazioni, non viene usata dagli altri paesi per importare beni statunitensi. Questi dollari sono usati da altre nazioni come valuta di riserva internazionale o come mezzo di pagamento sui mercati internazionali. In tal modo gli USA importano beni e danno in cambio denaro che non viene usato da altri paesi per importare beni statunitensi. Questi dollari, finché non vengono usati per importare beni statunitensi, rimangono carta senza valore intrinseco. Per i detentori di dollari, questo è valore potenziale che non si realizza. Questa situazione dura da 45 anni. In breve, gli USA si appropriano del valore importato e prodotto da altre nazioni per un ammontare di circa il 6% del loro PIL” (G. Carchedi, “L'imperialismo oggi, cos'è e dove va”, Rete dei comunisti). Grafico 1.1: Bilancia commerciale Usa come percentuale del Pil. Fonte: htt:p//www.data360.org/dsg.aspx?Data_Set_Group_Id=270

5- Nel regime di Bretton Woods, “venne di fatto instaurato un meccanismo di finanziamento senza aggiustamento degli squilibri internazionali e si mantenne irrealisticamente rigida la struttura dei tassi di cambio, con conseguenti crisi di fiducia e con insostenibili attacchi speculativi destabilizzanti, che hanno accelerato la fine del regime a cambi fissi. Nel sistema post-Bretton Woods, le banche centrali hanno recuperato gradi di autonomia passando a un regime di fluttuazioni controllate dei tassi di cambio. Nello stesso tempo, per non frenare il processo di integrazione in atto, hanno progressivamente liberalizzato i movimenti di capitale” (voce “Sistema monetario internazionale”, Enciclopedia dell'economia Garzanti, 1992).

6- “E' stato così possibile contenere le oscillazioni di tassi di cambio, che altrimenti sarebbero state molto più ampie. Questo obiettivo di stabilizzazione è stato assecondato dalle banche centrali: indirettamente, liberalizzando i flussi finanziari e, direttamente, completandone l'azione compensativa...con propri interventi sui mercati dei cambi, che hanno movimentato le riserve ufficiali. Le fluttuazioni controllate dei cambi hanno favorito i processi di aggiustamento, hanno frenato le crisi di fiducia e le conseguenti ondate speculative sulla sostenibilità di tassi irrealisticamente fissi e, nello stesso tempo, hanno limitato gli indesiderati contraccolpi interni di tipo inflattivo (nel caso di forti svalutazioni) e di tipo recessivo e redistributivo (nel caso di forti rivalutazioni) dei cambi liberamente flessibili” (voce “Sistema monetario internazionale”, Enciclopedia dell'economia Garzanti, 1992)

7- In questo nuovo sistema più flessibile e diversificato, “le monete possono essere scambiate con maggiore facilità, ma con maggiori rischi legati all'instabilità dei tassi di cambio”. La maggiore interdipendenza finanziaria “nel breve periodo tende ad enfatizzare le oscillazioni nei tassi di cambio con flussi finanziari che si spostano da un paese all'altro e da una valuta all'altra non solo per sfruttare divari anche minimi nei tassi di rendimento, ma anche per reazione a tutto ciò che può turbare le aspettative degli operatori” (voce “Sistema monetario internazionale”, Enciclopedia dell'economia Garzanti, 1992).

8- Nel contesto di una libera circolazione internazionale dei capitali può accadere, ad esempio, che “una politica [della banca centrale] di aumento dei tassi di interesse per finanziare un maggiore deficit pubblico e contenere l'inflazione può comportare, come hanno sperimentato gli Stati Uniti nei primi anni Ottanta, un ingente afflusso di capitali dall'estero e un forte apprezzamento del tasso di cambio.” (voce “Sistema monetario internazionale”, Enciclopedia dell'economia Garzanti, 1992).

 9- A. Kliman, The Failure of Capitalist Production, Pluto press, p.61. Kliman sostiene che, al contrario di quanto si ritiene comunemente, l'impennata dell'indebitamento degli Stati Uniti negli anni Settanta sia stata superiore a quella del decennio successivo.

10- Sulla questione delle “previsioni”, e in particolare sull'indicazione da parte del nostro Partito del 1975 come possibile anno cruciale nel corso della rivoluzione, vedere la nota 11 in Russia e rivoluzione nella teoria marxista, Edizioni Il programma comunista, 1990, p.220.

11- “la stabilità del sistema bancario americano e, per estensione, del sistema finanziario internazionale può essere messa a rischio dal massiccio finanziamento delle bilance dei pagamenti che è stato fatto dalle banche commerciali da quando il prezzo del petrolio ha preso a correre” (“Documento del senato americano del 1978”, in Kliman, op. cit., p.57).

12- “Una caduta in questo tasso [di profitto] rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti, e così appare una minaccia allo sviluppo del processo di produzione capitalistico: esso promuove sovrapproduzione, speculazione e crisi...” (A.Kliman, op. cit., p.18)

13- “Dopo una lunga interruzione, la quota di paesi con difficoltà bancarie cominciò ad espandersi dapprima negli anni Settanta. La rottura del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, insieme con una rapida ascesa dei prezzi del petrolio, catalizzò una prolungata recessione globale, sfociata in difficoltà nel settore finanziario in alcune economie avanzate” (Reinhart and Rogoff, cit. in Kliman, op. cit., p.59).

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

 

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