DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Una situazione in caduta libera

Nel numero 6/2012 di questo giornale, abbiamo pubblicato un articolo che chiariva bene la situazione di disagio estremo del proletariato in Sardegna, sottolineando la disperazione dei lavoratori della Carbosulcis e dell’Alcoa (Alluminium Company of America) di Portovesme. A essi, i rappresentanti del governo di turno e i capi sindacali – spaventati da una situazione ormai diventata esplosiva e fuori controllo – avevano promesso un esito positivo delle vertenze. I lavoratori, pronti a “farsi saltare in aria” con 600 kg di esplosivo nelle viscere delle miniere, avevano salutato con entusiasmo l’interessamento da parte delle autorità e, in particolare, del capo dello Stato, interrompendo le azioni di lotta e le forme spontanee di organizzazione scaturite da una condizione drammatica.

Oggi, a quasi tre anni di distanza da quelle vicende, non solo non si vede all’orizzonte alcun esito positivo o il benché minimo segno miglioramento, ma, sulla spinta della crisi economica internazionale sempre più aggressiva e dirompente, il disagio economico e sociale si è esteso a ogni angolo dell’isola, mettendo a dura prova le condizioni di vita e di lavoro del proletariato sardo. A soffrire non sono più unicamente l’industria tradizionale (estrattiva e metallurgica), ma anche i settori ad alto coefficiente tecnologico e di specializzazione. Di fatto, il settore ICT, che in Sardegna rappresentava un fiore all’occhiello del tanto esaltato settore informatico e tecnologico in cui si era investito grazie a ingenti aiuti di stato, ha iniziato a mostrare profondi e devastanti sintomi di una crisi che non risparmia più nessuno.

Una rapida evoluzione socio-economica

Vale la pena riportare la frase, se si vuole dai toni profetici, del Manifesto del partito comunista, che recita: «l’insicurezza e il movimento perpetui distinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti[…],[in essa] si volatilizzano le immobili gerarchie sociali», a sottolineare che il capitalismo non possiede affatto una sostanza eterna e durevole, ma è soggetto, come i modi di produzione che lo hanno preceduto, a cambiamenti e mutamenti che ne decreteranno il trapasso ed il superamento definitivo e ormai necessario.

In molti, qui in Sardegna, sanno che la realtà produttiva e del lavoro è ormai giunta a un punto di non ritorno e il tessuto industriale sta subendo velocemente un corso di smantellamento. Come abbiamo scritto sopra, oltre alla chiusura delle industrie tradizionali, oggi stanno segnando pesantemente il passo anche le attività dell’alta tecnologia nate sotto la spinta della New Economy.

Per capire bene la tragicità della congiuntura economica isolana – periferia dell’azienda Italia – , è sufficiente dare una scorsa ai seguenti dati messi a disposizione proprio dai sindacati e dal rapporto del Ministero dello Sviluppo Economico. Da essi si evince che l’Alcoa ha definitivamente chiuso i battenti e 500 operai sono ora in mobilità, mentre circa 600 dell’indotto subiscono i contraccolpi della cessazione dell’attività produttiva. Per quanto riguarda la Carbosulcis, l’azienda mineraria 100% della Regione, i 460 operai attendono di conoscere la loro sorte all’interno del progetto di dismissione, prevista per il 2018 dal fumoso Piano Sulcis. Similmente, i 120 colleghi della miniera di Silius (giacimento di fluorite e barite chiuso ormai dal 2007) e i 400 operai dell’Eurallumina di Portovesme, acquisita dal gruppo russo RuSal nel 2006, si trovano in cassa integrazione dal 2009 senza nessuna prospettiva di rilancio.

La Rockwool di Iglesias, che produceva lana di roccia, ha cessato ormai da tempo l’attività produttiva, riconvertendo solo in parte le proprie maestranze e lasciando senza ammortizzatori sociali una parte di lavoratori, oggi definiti invisibili e senza tutele. Da canto suo, la Vinyls di Porto Torres risulta ferma e gli operai che avevano occupato il carcere abbandonato dell’Asinara sono ormai privi anche di ammortizzatori sociali.

Il polo tessile con gli impianti di Macomer, Ottana e Siniscola è giunto definitivamente alla chiusura e le 1.500 famiglie legate alla Legler, alla Queen e alla RoseMary attualmente si trovano prive di ammortizzatori sociali, specialmente a causa delle nuove norme introdotte con il tanto osannato Jobs Act.

A Oristano, la società Bonifiche Sarde, ormai in liquidazione, ha deciso di ridurre il proprio organico e di conseguenza 90 operai si ritrovano a bollire nel calderone infernale dei disoccupati, ove verranno immersi anche altri 200 operai della Sielte, altra società che ha subito pesantemente i contraccolpi della congiuntura economica internazionale. La Keller di Villacidro, che si occupava della costruzione di vagoni ferroviari, è attualmente chiusa e 320 operai attendono di ricevere l’avvilente pane della carità che la borghesia è ancora disposta a elargire, sia pure in misure sempre più… pediatriche 1.

Nel settore informatico e dell’ICT sono iniziati i tempi della ristrutturazione: Akhela – fiore all’occhiello dell’ICT e vanto dei Moratti – ha iniziato col mettere in mobilità 49 dipendenti, ma altri ancora sono in… lista d’attesa, a causa della messa in vendita dei diversi rami d’azienda delle sedi di Torino, Maranello, Milano e Roma, tutte legate alla sede centrale cagliaritana. A sua volta, TiNet, filiale dell’azienda americana, annuncia altri 36 licenziamenti per il 2015, dopo aver licenziato nel 2014 il cuore altamente tecnologico dell’azienda con profili a elevata specializzazione. In realtà, questa società aveva chiuso i bilanci in attivo, ma i processi di delocalizzazione verso aree geografiche che offrono più consistenti margini di sfruttamento e quindi a più alta estrazione di plusvalore hanno imposto alla società di rivolgere la propria attenzione altrove, senza dimenticare che i profitti offerti dalla borsa, frutto di un’estrema finanziarizzazione dell’economia, spingono le imprese a investire sulle bolle speculative delle borse mondiali, non sempre con risultati positivi. Non è un caso, infatti, che anche i lavoratori della Società Electa, con sede a Sassari e Milano, operante nel settore finanziario e dei prestiti, si trovino ormai in cassa integrazione in deroga, senza alcuna prospettiva di reintegro. Similmente alle due precedenti imprese, non va dimenticata la società regionale Sardegnait, anch’essa travolta da una profonda crisi, che preannuncia una prossima ristrutturazione.

Ma non si può certo fare a meno di citare il caso Meridiana Fly, azienda del settore dei trasporti aerei che ha annunciato lo smantellamento e ben 1634 esuberi, di cui 800 circa sardi, nonostante le iniziative a tutto campo dei lavoratori. Anche qui, l’obiettivo del management è quello di assumere lavoratori più giovani con profili professionali più bassi tramite Air Italy, compagnia acquisita dal gruppo, eliminando lavoratori ad alto coefficiente di professionalità e anzianità di servizio e colpendo la fascia di età che va dai 34 ai 50/60 anni, che gode di contratti più tutelanti e di stipendi più alti. Insomma, come da noi più volte ricordato, la strada che la borghesia deve percorrere è sempre più quella dell’incremento dei livelli di sfruttamento e della riduzione dei salari.

In tutto questo disfacimento dell’apparato industriale e produttivo dell’isola sembrerebbe resistere solamente il settore energetico, per il quale sarebbero in cantiere investimenti cospicui relativi al completamente del progetto Gasli – gasdotto Italia-Algeria passante per la Sardegna, attualmente bloccato – e alla realizzazione del non ancora ben definito piano di trivellazioni sulle coste occidentali sarde, ipotizzate dal progetto Eleonora. Quest’ultimo dovrebbe portare all’estrazione di gas e petrolio mediante il cracking delle rocce bituminose, anche se pareri contrari sono stati espressi a causa del suo impatto negativo sull’ambiente, cosa che metterebbe in crisi un settore agropastorale in un’area della Sardegna, quella di Arborea, in cui esso risulta in attivo, al contrario del Medio Campidano, dove invece è in costante declino, con conseguente tracollo di zuccherifici, caseifici e allevamento.

Eppure, se si guarda con più attenzione, anche nel settore dell’energia l’orizzonte appare carico di nubi scure che preannunciano tempesta. Già nel mese di ottobre, nella raffineria siciliana di Gela (Caltanissetta) era stata paventata la possibilità dilicenziamento per i 3000lavoratori dello stabilimento, senza contare quelli dell’indotto: e già iniziò a correre voceanche in Sardegnadi una medesima sorte prevista per gli operai della SARAS. In effetti, proprio secondo quanto afferma ilpresidente dell'Unione petrolifera, AlessandroGilotti, commentando i licenziamenti presso l'impianto siciliano, sarebbero a rischio non solo il sito di Gela,ma tutte le raffinerie italiane, "anche le più moderne ed efficienti, a causa di una competizione internazionale insostenibile”.In base a quanto riportato dalla stessa Unione petrolifera, nel 2014 i consumidi petrolioitaliani si sono attestati intorno a 56 milioni di tonnellate, chiaro sintomo di una produzione industriale in costante declino, a fronte di una capacità di raffinazione di 99 milioni di tonnellate che hanno quindi prodotto un surplus di oltre 40 milioni di tonnellate.Volendo tirare le somme, l’elegia funebre della raffinazione italianaGilottila pronuncia con la frase conclusiva: "Parlare di investimenti inquesta situazione non è possibile, anche perché economicamente non ha senso tenere in piedi attività industriali che non hanno prospettive".

Si capisce bene che ben presto anche il settore energetico sardo dovrà prepararsi ad affrontare momenti infausti, e a riprova di ciò va sottolineato come la società Sarlux – ex SARAS, dopo l’acquisto di Versalis – ha messo in conto 250 esuberi, giusto per iniziare. Tuttavia, stando a quanto riportato dall’Unione Sarda nel settembre 2014, il settore petrolchimico è destinato anch’esso a un inesorabile declino con l’uscita dal mondo produttivo di ben 15 mila operai impiegati.

 

La cecità della borghesia italiota

Alla crisi massacrante, la borghesia italiota risponde con frasi altisonanti e proposte che non tengono conto di una realtà ben diversa, che morde con sempre più ferocia una classe proletaria ancora incapace di darsi forza, inquadramento e armi di lotta. Questi signori, nonostante abbiano cercato di mettere in conto tutte le sciagure finanziarie, nella loro incerta comprensione della crisi non avevano previsto un declino economico di siffattamagnitudo. Così, ora hanno iniziato a convocare alla corte di sua Maestà il Capitalismo “esperti” di economia (o sono veggenti, cartomanti, maghi?) equesti si prodigano nel gettarei pesi delle proprie congetture sui piatti della bilancia e, con lo sguardo attento dei pesatori di brillanti, di veleni e di polvere da sparo, scrutano le lancette e tutti i loro più infinitesimi spostamenti, per poi abbandonarsi a sterili riflessioni e frasi arzigogolate che da alcuni anni terminano tutte con l’asserzione: «Signori, la crisi terminerà a breve!». E via con l’entusiasmo generale, squilli di tromba e inviti all’ottimismo e alla fiducia. Ma in realtà – come sanno bene i proletariche giorno dopo giorno vanno a ingrossare le file dell’esercito di riserva – in un baluginare allucinato e febbrile procedono a tastoni, come un non vedente in una stanza semibuia.

In verità, la crisi internazionale continua a falcidiare miriadi di senza riserve, secondo meccanismi che noi comunisti conosciamo bene, e che portano alla concentrazione e all’accumulazione della ricchezza a un polo e alla miseria crescente all’altro. Ciò che sta avvenendo in Sardegna, come nel resto d’Italia o nei paesi del mondo a capitalismo maturo, è che anche la classe media e quella che un tempo veniva definita con un certo orgoglio “aristocrazia operaia”hanno imboccato il cammino della proletarizzazione. Le certezze sono svanite, i discorsi sulle possibilità delle nuove tecnologie tacciono e si dirada come nebbia inconsistente l’entusiasmo per prospettive diquanto mai prossimee prorompenti crescite.Di fatto, dal giorno in cui le cose hanno preso ad andare male, non vi sono stati barba di progressista o ghigno di riformista capaci di negare l’evidenza. A mostrare sofferenza è l’intera struttura economica: i consumi sono in netto calo in tutta l’isola, la produzione langue, gli ordinativi scemano e la pletora di merci giace invenduta nei magazzini, sotto lo sguardo attonito di impotenti economisti. Ciò che rimane chiaro è che, intanto, sono passati i giorni, i mesi e gli anni, e gli slanci di euforia vanno via via scemando, mentre la crisi continua con la propria ferocia a trangugiare, famelica, lavoratori, imprese e società a centinaia.

Quali prospettive in questa fase storica?

Benché la situazione sia di una gravità estrema e centinaia di operai continuino, giorno dopo giorno, ad andare a ingrossare l’esercito dei dannati della terra, la classe proletaria sarda appare tuttora ancorata all’idea di facili soluzioni. Ovviamente, in questo contesto, i bonzi sindacali – nella fattispecie agenti di corporazioni sindacali che nulla hanno a che fare con le organizzazioni operaie di cui parlavano Marx, Engels e Lenin – portano avanti in modo egregio il loro operato di pompieri. Essi sanno bene che devono spezzare e frantumare la benché minima iniziativa di unione nelle vertenze anche spontanee, messe in piedi dai lavoratori in lotta.

Non è un caso che, nel sud dell’isola, sia nata in modo spontaneo una sorta di “piattaforma” chiamata Vertenza Sardegna, che cerca di raccogliere e unire le varie azioni delle singole aziende e i lavoratori fuoriusciti dal mondo della produzione. Ma è bene sottolineare come l’iniziativa, spontanea e spontaneista, mostri ancora notevoli limiti dal punto di vista teorico e dell’azione da intraprendere. La stragrande maggioranza del proletariato sardo mostra ancora di volersi affidare alle facili vie illusorie di fantomatici “imprenditori” onesti e dediti a una “cultura” del lavoro incentrata sul benessere di tutti! Si rincorre ancora l’idea di uno sviluppo economico privo delle contraddizioni classiche del sistema economico capitalistico, illusi dalla visione di un’isola felice in cui le cose possono cambiare perché… esiste “la volontà” e “l’onestà” di imprenditori “coscienziosi” e “responsabili” – trascurando la contingenza economica internazionale che sferza ormai anche regioni finanziariamente meno sofferenti.

Di fatto, va sottolineato come ancora notevoli siano le incrostazioni ideologiche di matrice piccoloborghese che spingono la classe operaia a fare affidamento sulle false promesse e sulle vane speranze proposte – mediante i tavoli di trattativa e di concertazione – dal sindacato e da un ceto politico che oggi più che mai teme che la situazione possa scappare di mano, visto l’atteggiamento sempre meno composto del proletariato sardo che dice apertamente di non potersi più fidare né dell’uno né dell’altro. Per citare le parole del segretario regionale del maggior sindacato italiano, “Quando hai una base occupazionale di 650.000 lavoratori e di questi 150.000 vivono di ammortizzatori sociali, vuol dire che sei alla débâcle totale, al tracollo”. L’auspicio del segretario della CGIL isolana è che lo stesso governatore sardo, Francesco Pigliaru – un “sinistro” e keynesiano convinto – non applichi, come Renzi, “ricette vecchie e stantie che sembrano partorite nel 1800, anche se vengono proposte con un twit”. In altri termini, costoro predicano un… ritorno al centralismo statale e a un’intensificazione della fascistizzazione dell’economia, così come avvenuto durante il decennio che seguì la crisi del 1929.

Indicazioni di azione

Da un punto di vista prettamente numerico, va sottolineato che, nel giro di quattro anni, le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice sarda sono andate degradando in misura esponenziale. A partire dal primo trimestre del 2012 e nei due anni successivi, la Sardegna ha subito un’ulteriore flessione dell’occupazione, seguendo un’inesorabile tendenza verso il basso e registrando circa 63.000 unità in meno nel giro di due anni. Si contano, infatti, circa 80.000 occupati in meno se paragonati ai valori massimi raggiunti nel periodo precedente lo scoppio della crisi 2.

Anche quelle aziende che presupponevano tassi di crescita consistenti hanno dovuto, non solo rivedere a ribasso le loro stime, ma addirittura ristrutturare e licenziare buona parte del proprio organico, se non addirittura chiudere direttamente gli impianti produttivi. La Sardegna risulta ai primi posti nazionali in quanto a fruizione degli ammortizzatori sociali, tanto che ben 17600 lavoratori sardi conducono una esistenza scandita dall’avvilente condizione di mobilità in deroga, e fra questi 4000 hanno smesso di percepire il sussidio di stato con la fine del 2014, mentre per altri 3000 si profila la medesima sorte già nel primo semestre del 2015.

Se dunque, rispetto all’articolo di fine 2012, la situazione è ulteriormente peggiorata (e non poteva che essere così: la crisi è mondiale e macina vite proletarie a ogni angolo del mondo), identiche rimangono le prospettive che noi indichiamo ai proletari sardi. Essi dovranno tornare a lottare a viso aperto contro tutti i loro nemici: il padronato, i partiti e i sindacati che da tempo li hanno manipolati e poi abbandonati, i politici locali e nazionali, lo Stato. Ma per farlo dovranno scrollarsi di dosso i macigni che li soffocano e paralizzano: le illusioni riformiste (e, peggio, autonomiste), le pratiche democratiche e clientelari, la fiducia riposta in questo o quell’imprenditore “buono” e “onesto”. Dovranno tornare a creare organismi territoriali di difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro (e soprattutto di non-lavoro), stringere legami sempre più stretti fra le categorie (occupati e disoccupati) e le realtà di lotta dentro e fuori la Sardegna, facendola finita una volta per tutte con la dannata insularità. “Un attacco a uno è un attacco a tutti”: questo deve tornare a essere il grido di proletari che rifiutano ogni barriera, ogni recinto, ogni isolamento.

In tutto ciò, è evidente il ruolo centrale del partito rivoluzionario. A esso, organo di teoria e di prassi, depositario della memoria e dell’esperienza storica del proletariato internazionale, spetta il compito di indirizzare le lotte verso obiettivi ulteriori: che vadano cioè oltre la (necessaria) difesa dal vero e proprio assalto che si sta subendo e preparino infine l’attacco a un modo di produzione che, identico a Cagliari come a Baltimora, a Sassari come a Manchester, a Nuoro come a Pechino, va abbattuto perché da tempo è fermo al capolinea e avvelena tutti con i suoi gas di scarico.

1 A queste situazioni, vanno aggiunte poi la crisi dell’IGEA, società a partecipazione regionale, specializzata nel settore delle bonifiche e con un invidiabile radicamento su buona parte del territorio sardo, che ha visto via via erodersi la capacità di restare sul mercato e si avvia, essa pure, verso la chiusura; la messa in cassa integrazione a rotazione dei lavoratori della Bekaert Sardegna (impegnata nella produzione di cavetti d’acciaio per la realizzazione degli pneumatici); e la perdita di 23.000 mila occupati nel settore dell’edilizia – lavoratori, questi, che non avranno possibilità di reimpiego in altri settori, e che risultano difficilmente assorbibili con i cosiddetti lavori soggetti alla stagionalità. La drammaticità di questi numeri viene commentata dal Rapporto 2013 sul mercato del lavoro in Sardegna come un fenomeno che va ben oltre il concetto di crisi e che rappresenta piuttosto una vera e propria destrutturazione dell’apparto produttivo e industriale.

2 Si tratta di ben 12 punti percentuali in meno con un 7% inferiore rispetto al 2004. Questo dato evidenzia che, con l’acuirsi della crisi economica mondiale, la Sardegna ha perso non solo i posti di lavoro creati durante la fase di “espansione” precedente il tracollo subito nel 2008 con lo scoppio della crisi prodotta dai mutui sub-prime, ma anche una parte dell’occupazione creata in precedenza. Di fatto, da tali dati si comprende che il punto finale raggiunto dalla crisi occupazionale isolana tende a collimare in modo quasi perfetto con il dato del Mezzogiorno, rispetto al quale sono andati completamente perduti ben 5 punti percentuali di vantaggio che erano stati registrati rispetto al periodo 2004-2008.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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