DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Cominciamo subito col ricordare che le posizioni del comunismo non hanno nulla a che vedere con l’anticlericalismo borghese, in qualunque forma esso si sia presentato o si presenti: liberale, anarchico, massonico, “socialista”. Il comunismo collega la lotta alla religione alla prassi concreta del movimento di classe che tende a rimuovere per sempre le radici sociali della religione, qualunque essa sia. La borghesia francese rivoluzionaria, scontrandosi con il vecchio regime feudale, dovette combattere l’ideologia religiosa perché, per il progresso del modo di produzione capitalistico, aveva bisogno di far avanzare la propria scienza e dunque di abbattere le ideologie che le si contrapponevano: sostituendo alla fede religiosa la Dea Ragione e innalzando le bandiere (altrettanto metafisiche, in una società divisa in classi) della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fratellanza, la Rivoluzione francese resta il modello classico delle rivoluzioni borghesi, anche in questo ambito. Pure la Germania dovette attaccare i privilegi del cattolicesimo, sequestrando molti dei beni della Chiesa e imponendo una società laica. E, dal Giappone alla Turchia, dall’Iran all’Egitto, dalla Spagna al Messico, molte altre rivoluzioni borghesi hanno preso di mira la religione. Quanto ai paesi dell’area mediorientale, l’attacco alla religione islamica fu portato principalmente alle moschee e alle scuole coraniche. Altri tempi…

D’altra parte, le rivoluzioni borghesi non nascono e non si sviluppano tutte dallo stesso stampo. C’è una grande differenza, ad esempio, tra rivoluzioni dall’alto (Germania, Giappone) e rivoluzioni dal basso (Francia), tra rivoluzioni dell’epoca nascente della borghesia e “rivoluzioni” dell’epoca della sua esistenza parassitaria e decadente (l’epoca dell’imperialismo e delle lotte anticoloniali). Gli inni borghesi alla Ragione e alla Scienza (nell’epoca dei Lumi) si sono spenti e l’abbraccio con le ideologie religiose, in qualunque regione del mondo, si è fatto sempre più intimo. Che, a partire dall’epoca della nascita della borghesia all’uscita dal Medioevo, la lotta contro la vecchia società si sia svolta in un ambito religioso (protestantesimo contro cattolicesimo, cristianesimo del “ritorno alle origini” contro cattolicesimo regnante, islamismo contro cristianesimo, riformisti contro settari, eretici contro fondamentalisti di tutte le specie, e viceversa) non mette in difficoltà il comunismo. Esso sa bene che il travestimento religioso e idealistico è componente essenziale dello sviluppo complesso della società umana e, anche su questo terreno, ha avuto straordinarie conferme del suo metodo di indagine. Al fondo della struttura economica, si svolgono non dispute religiose, ma lotte di classe reali e molto concrete. La costituzione della Chiesa calvinista era in tutto e per tutto democratica e repubblicana, quindi borghese, scrive Engels nell’Introduzione a Il socialismo dall’utopia alla scienza. Lo stesso clero rifletteva e riflette ancora la divisione in classi della società borghese nascente: durante la Rivoluzione francese, ad esempio, la sua parte più bassa si schierò contro la nobiltà e la monarchia. Scrive ancora Engels, in Sulle origini del Cristianesimo: “tanto i comunisti rivoluzionari francesi quanto, particolarmente, Weitling e i suoi seguaci si richiamano al Cristianesimo primitivo”. E non va dimenticato che la rivoluzione russa del 1905 (la “prima rivoluzione”) cominciò con la supplica di massa allo zar, diretta dal pope Gapon.

Marx ed Engels comprendono che il fattore religioso (la sovrastruttura religiosa) è, nella storia delle società divise in classi, straordinariamente complesso. Dallo studio di quella complessità storica, discende un realismo politico straordinario, perché quel fattore è destinato a estinguersi solo lentamente, insieme alle classi e allo Stato, una volta che il comunismo abbia eliminato le radici dell’oppressione, in tutti i rapporti sociali tra gli uomini. Non per nulla nel Primo libro del Capitale, Marx, parlando del valore della merce, dice che per trovare un’analogia che gli corrisponda bisogna rivolgersi alla sovrastruttura religiosa!

Tornando all’oggi, vediamo come, nell’area mediorientale, la stessa idea di “nazione” (borghese per definizione) sia impregnata di spiritualismo religioso, rimanendo ancora agganciata a una visione premoderna: il concetto di “nazione ebraica” è tanto mistico quanto quello della cosiddetta “nazione islamica”. Ma anche la borghesia di stampo occidentale mostra quest’attaccamento alla “religione dei padri” (sebbene la forma di produzione capitalista, la sua ideologia, la rivoluzione contro l’ancien régime, le guerre napoleoniche, abbiano segnato il carattere della “forma nazionale borghese”), ricambiando con grandi favori la presenza di forze conservatrici di natura religiosa tra le sue organizzazioni sociali. Le immagini di papi, di presidenti laici e religiosi, di monarchi e califfi, campeggiano nelle città, non solo mediorientali, e davanti a esse si prostrano le folle osannanti; e la ricchezza monetaria e finanziaria, le proprietà delle Chiese impiantate nei territori, la gestione caritatevole della miseria, della salute, dell’educazione dei giovani, i favori e il denaro concessi dagli Stati, fanno delle potenti gerarchie ecclesiastiche altrettante vere e proprie organizzazioni monopolistiche.

I vecchi rapporti di produzione precapitalistici, ricacciati sullo sfondo da lungo tempo, hanno una straordinaria capacità di autoconservazione e sarebbero d’intralcio allo sviluppo capitalistico se agissero nella loro forma più estesa e libera da vincoli: il capitalismo però, che non è solo un modo di produzione ma anche una formazione economico-sociale, è riuscito ad assorbire, integrare e utilizzare le eredità del passato. I nuovi rapporti di produzione, con i loro nuovi protagonisti, non potendo sciogliere del tutto i resti delle antiche sovrastrutture, tuttavia possono portarli a un livello di compiutezza, adattandole alla dinamica del controllo sociale cui sono destinate. Il misticismo, ponendo in forma nuova le premesse materiali e sociali da cui sorsero le nazioni capitalistiche moderne, impregna di sé la realtà sociale dello sfruttamento di classe. E negli osanna alla santa nazione italica (o argentina) del Papa cattolico sentiamo il grido “Gott mit uns!” (“Dio con noi!”) della guerra prossima ventura.

Sollecitando le borghesie europee a compiere le loro rivoluzioni, Marx ed Engels non si misero certo a disquisire sulla purezza razionalista e atea della rivoluzione borghese, importandogli più di rovesciare le vecchie condizioni feudali e di approfittare della dinamica storica per spingere il proletariato verso il potere (rivoluzione in permanenza), sottraendolo dalle mani della borghesia allora “rivoluzionaria”. Oggi, non si metterebbero certo a benedire presunte rivoluzioni borghesi europee o arabe, travestite più o meno di panni laici, per il fatto che un tempo la borghesia in fasce si travestì di tali panni. Il socialismo, uscito dall’epoca dell’utopia e divenuto scienza di classe, non lascia nelle mani della borghesia, giovane o decrepita che sia, la “bandiera rossa degli oppressi”, quella del proletariato.

Israele in quanto Stato, ad esempio, è una formazione politica europea di carattere e origine perfettamente borghese: ma, in quanto sovrastruttura, condivide la stessa ideologia reazionaria di quelle islamica e cattolica. Gli scopritori di presunti elementi progressivi e rivoluzionari nella religione islamica (quanti neo convertiti!) dimenticano che una vera e propria borghesia rivoluzionaria in Medio Oriente non è mai esistita, che le borghesie venute alla luce e importate in Medioriente hanno fatto il loro tempo e che oggi non è rimasta alcuna traccia dell’anticolonialismo e del panarabismo della fine degli anni ’50 del secolo scorso, falliti entrambi. E che la stessa rivendicazione nazionale palestinese, nei primi anni ’70 del ‘900 (leva, un tempo, di un possibile processo “rivoluzionario”), si è realizzata in quel miserabile bantustan in cui tutte le forze politiche palestinesi, laiche e religiose, giocano al massacro reciproco e soprattutto a quello del proletariato, dopo averlo spinto in quel vicolo cieco. Leggere dunque nel panislamismo in tutte le sue varianti attuali una testa d’ariete che tenti di attaccare la fortezza imperialista (un Bin Laden, un Isis, ad esempio) e quindi spingere ancora il proletariato mediorientale a un’alleanza con la miserabile borghesia araba, fanatica o laica, violenta o pacifista, è puramente demenziale.

Il diffondersi dell’ideologia religiosa si spiega con l’espropriazione delle antiche attività agricole e artigianali (economia agricola di villaggio, retta da vecchie figure patriarcal-feudali) senza una concomitante industrializzazione. Furono la proletarizzazione degli anni del secondo dopoguerra e il fallimento delle riforme agrarie tentate successivamente negli anni ‘70 a dare la spinta ai movimenti nazionalisti (Egitto, Irak, Iran, Algeria, Tunisia). E a spingerli oltre furono poi anche l’affermarsi di una più moderna agricoltura (liberatasi del fardello della minuta agricoltura di sostentamento) e di un’industrializzazione pagata dal petrolio e, insieme a ciò, il rilancio di una manifattura condotta da una piccola e media borghesia, con l’inevitabile corollario di lavoratori disoccupati o sottoccupati, di contadini senza terra, sradicati e urbanizzati. Il gonfiarsi di attività commerciali e burocratiche e di un terziario assistenziale mutò il volto della realtà mediorientale, inondando città come Damasco, Amman, Beirut, il Cairo, Gerusalemme di precarietà e miseria, ma anche di sovrappopolazione relativa, di rifugiati palestinesi nei più diversi campi profughi, ogni qual volta che la marcia trionfale di Israele faceva sentire i suoi passi chiodati.

Tutti i tentativi d’industrializzazione del territorio, sull’indotto di una tecnologia legata all’estrazione del greggio, alla sua raffinazione e al suo trasporto, sono stati messi alla catena delle grandi compagnie petrolifere (e non solo: autostrade, oleodotti, autocisterne). I tentativi di massiccia importazione della tecnologia di estrazione, di trasporto, di raffinazione, e la creazione di un’attività industriale propria in quel terreno sono falliti: la dipendenza dalle grandi multinazionali non è mai cessata.

Mentre i paesi asiatici sono entrati nel girone infernale della produzione capitalistica che fa capo alle nuove tecnologie, la maledizione della rendita fondiaria ha pesato come un grande macigno su tutto il Medioriente. A questo punto le strutture assistenziali e religiose (ricchezza, potere, forza organizzativa e dissuasiva, sostegno, capacità di indirizzo educativo), sciolti del tutto i legami con la terra e con le comunità di villaggio, hanno avviluppato in una ragnatela le masse mediorientali e proletarie, immerse nella più feroce proletarizzazione e urbanizzazione, senza un’industrializzazione degna di questo nome, orientandole verso un atteggiamento rivolto al passato più che al futuro. L’alleanza tra le borghesie nascenti e l’islamismo con le sue divisioni interne ha costituito un collante reazionario, utile contro il proletariato, ma non certo contro l’imperialismo.

Nello stesso tempo, il ritardo della “nazione” in senso moderno e permanere di legami tribali, familiari e religiosi a ricacciare le masse proletarie nel passato. La borghesia “nazionale” non ha trascinato con sé il proletariato sulla via dell’organizzazione produttiva e della sindacalizzazione, che si diffonde tuttavia per vie spontanee solamente attorno ai grandi centri di trasporto e nei porti. Soprattutto, è l’assenza del partito di classe, del programma comunista, a impedire al proletariato di cogliere il varco verso il futuro.

La borghesia dominante è oggi per lo più quella degli apparati amministrativi e militari e della tecno-burocrazia finanziaria legata al potere politico e religioso. Essa è composta massicciamente da classi medie, mai ascese al livello di una vera borghesia nazionale unitaria: mezze classi che tentano di nascondere in nome di una vecchia “cultura unitaria” la dipendenza politico-economica dall’Occidente – mezze classi che vanterebbero, a dir loro, per la presenza dell’ideologia religiosa, un titolo di “completezza umana” nei confronti della marcia inesorabile del capitale.

L’attuale scissione tra paesi più moderati, più vicini all’Occidente in quanto grandi produttori di petrolio, e paesi ostili, in quanto esclusi dal piano della produzione e consumo, non corrisponde più alla dinamica della borghesia nascente, che vedeva i grandi Stati tentare la via dell’indipendenza “nazionale” o della rivendicazione di un destino comune (il panarabismo). Sempre più emerge dalle crisi economiche ricorrenti la concorrenza mondiale tra quegli stessi Stati, che spinge a conservare, per paura d’essere scavalcata dalle masse proletarie, lo status quo della borghesia laica o religiosa comunque al potere.

Per un certo lasso di tempo, sembravano scomparsi i colpi di stato, le rivolte di palazzo della prima metà del secolo scorso, sotto la spinta e la direzione coloniale e imperialista francese, inglese e americana, allorché gli anni ’70 hanno scoperto i nervi dell’intero sistema, mentre si oscurava la cosiddetta lotta nazionale. La “rivoluzione islamica” komeinista del 1979, preceduta dalle lotte operaie, ha cominciato a segnare in profondità il territorio mediorientale nelle città, nelle fabbriche, nei pozzi e nelle raffinerie. Mescolando la modernità capitalistica al parassitismo finanziario, è stato riportato alla luce il fondamentalismo religioso.

Un tempo esso si teneva su questo paradosso: più avanzava la crisi economica indotta dalle guerre e dallo scontro interminabile in Palestina, più il ripiegamento verso il passato si faceva rapido. Si cercavano in esso le possibilità di riscatto dalle delusioni, dalla miseria del presente; si cercavano nella “modernizzazione”, e non nel modo di produzione capitalistico e nelle sue contraddizioni, le cause del disordine. La “negazione della modernizzazione” diveniva fattore politico di affasciamento delle masse più miserabili: ma questa massa era il risultato ultimo della proletarizzazione e della modernizzazione capitalistica, non della sua assenza; ed era per questo che la piccola borghesia diveniva reazionaria: perché temeva da una parte la propria caduta tra le fila del proletariato e dall’altra lo sprigionarsi della lotta di classe, che si affacciava sulla scena in potenti fasci di luce. Diversamente, la borghesia nazionale d’Iran (come quella d’Israele) riusciva a gestire uno sviluppo industriale moderno, una tecnologia d’avanguardia, ossequiando la religione islamica (ed ebraica) come mezzo di controllo del proletariato e di sfida nei confronti della concorrenza capitalistica: dandole veste istituzionale.

Il ripiegamento piccolo-borghese nel fondamentalismo conduceva ovviamente alla ripresa delle posizioni religiose fondative dell’Islam. Conduceva ad esempio alla condanna dell’usura moderna (il tasso d’interesse), da cui si era afflitti ad opera di apparati parassitari giganteschi conquistati alla “religione produttivistica” dell’Occidente; e conduceva alla nuova riflessione sull’elemosina coranica in quanto forma della distribuzione della ricchezza, in chiave di eguaglianza ed equità. Veniva cioè alla luce la richiesta di forme moderne di distribuzione del reddito, una sorta di nuovo welfare mediorientale (una vera e propria socialdemocrazia a carattere religioso). L’Islam “di lotta” rispondeva al bisogno sociale dei “credenti”, che si ritrovavano nelle moschee nella dichiarazione simbolica della “guerra santa” contro i “non credenti” (i quali poi altro non erano, molto prosaicamente, che i concorrenti occidentali!).

Da questi meccanismi sociali, le classi medie traevano alimento politico per propagandare il fondamentalismo, per arruolarsi nelle fila di coloro che difendono le case, il territorio locale, le forme tribali, le particolarità religiose, le antiche usanze. I diseredati diventavano dunque “materia prima” tanto della politica borghese imperialista quanto di quella autoctona. I cosiddetti “aiuti umanitari” occidentali permettevano di annegare i bisogni reali nella palude dell’assistenzialismo dei campi profughi, delle masse accampate alle periferie delle città arabe sotto il controllo delle frange estremiste e delle truppe dell’ONU. La modernizzazione iniziale aveva emarginato le vecchie classi medie monarchico-feudali religiose, sostituendole con nuove classi medie educate secondo modelli occidentali e largamente presenti oggi in tutte le organizzazioni burocratiche e giudiziarie arabe. Il “nemico” era dunque l’Occidente: la sua cultura, la sua modernità, e quindi la sua immoralità. E l’Occidente, a sua volta, controaccusava i paesi mussulmani di barbarie, di mancanza di democrazia, di misticismo religioso. Se, dunque, la democrazia rappresentativa occidentale era ormai in uno stato di coma e se d’altra parte le cosiddette “camere consultive” in Medioriente, costituite da giuristi e da rappresentanti di tribù, famiglie e via dicendo, retaggio d’altri tempi, non riuscivano a tenere testa al caos sociale interno, nell’incertezza non restava altro a tutti i “concorrenti” che affidarsi alle mani del buon Dio.

La crisi economica dell’inizio degli anni ’90 e la guerra anti-irakena hanno fatto riscoprire sia in Occidente che nel Medioriente tutte le vecchie ideologie, il cui scopo è il controllo sociale delle masse proletarie. Se in Occidente son venuti alla luce razzismi e nazionalismi, e si parla sempre più spesso di pensioni di fame, di salari minimi, di ammortizzatori sociali insufficienti, di assistenza sociale carente, e si cercano nell’immigrazione le cause del malessere – se insomma l’intera impalcatura democratica non regge all’urto delle emergenze sociali, politiche ed economiche, e i sociologi borghesi si chiedono che cosa sarà della democrazia domani, allora è evidente che la necessità di un controllo sociale più capillare, con l’uso di nuove tecnologie di spionaggio, si fa sempre più urgente. La natura degli Stati borghesi mediorientali e delle borghesie imperialiste si sostanzia dunque ormai di ideologie sempre più reazionarie. Democrazie parlamentari allo sbando (teocratiche, socialdemocratiche, lobbistiche) e rappresentanze più o meno tribali stanno ancora lì a richiedere d’urgenza l’intervento di qualche nuova “primavera mediorientale” che vada fino in fondo, che spazzi via l’immensa mole di immondizia vecchia e nuovissima, laica o religiosa. Che possa salvare capre antiche e cavoli modernissimi.

Se, alla fine di questo scenario infernale, le borghesie arabe e non arabe vestono a dismisura panni religiosi (sunniti, sciiti, wahhabiti, salafiti) in lotta gli uni contro gli altri, presentandosi agli occhi delle masse con una divisa militante nuova; se, alla fine di un lungo processo, le organizzazioni islamiche di Hamas in Palestina e degli Hezbollah in Libano, o baathiste in Siria, wahhabite in Arabia Saudita, jihadiste di al Qaeda e ora dell’Isis in vaste aree del Medioriente, hanno preso piede e ritrovato nuovo vigore, tutto ciò mostra come lefaglie mediorientali si stiano allargando a vista d’occhio. E’ facile constatare come i massacri tra le stesse fazioni religiose non siano minori di quelli contro le fazioni religiose concorrenti, che le guerre interarabe non siano state e non siano meno micidiali di quelle tra arabi e Occidente. Non si tratta, quindi, di guerre di religione o di civiltà,ma di lotta fra i grandi interessi economici che investono quest’immensa area. E d’altronde la storia dà conferma che, quanto a “effusio sanguinis”, gli uomini di Dio non scherzano: soprattutto quando gli arsenali sono pieni di armi!

Procedendo lungo la scia della cosiddetta “rivoluzione iraniana” innestatasi sulle lotte operaie a Teheran e a Isfahan alla fine degli anni ’70, seguite, all’inizio degli anni ’80 in Europa, da quelle in Polonia nei cantieri navali, dei metalmeccanici in Italia e dei minatori in Inghilterra, lo scenario cambia. Se, nel 1981, l’uccisione di un Sadat, erede della lotta nazionale nasseriana, da parte dei Fratelli Mussulmani diviene paradigma di una lotta fanatica contro gli accordi di pace dell’Egitto con Israele; se in Algeria il FLNA (Fronte di liberazione nazionale algerino), che aveva cacciato i francesi, divenuto ormai una miserabile struttura militare burocratica, si trova sotto l’attacco di movimenti fondamentalisti armati come il Gia (Gruppo islamico armato), rivendicanti dal 1991 al 1995 una repubblica islamica come in Iran, tutto ciò dimostra solamente la conclusione di un lungo ciclo borghese avviantesi verso il baratro. Comincia da qui un nuovo ciclo che si interseca con la crisi di sovrapproduzione mondiale apertasi dopo il lungo periodo di sovraccumulazione “americana” della fine del XX secolo e la seconda guerra irakena del 2003. E sono ancora le lotte economiche di difesa a lanciare il segnale: le lotte degli operai tessili egiziani e le manifestazioni per il pane (Mahalla, Suez, Il Cairo) e dei lavoratori tunisini a ridestare le masse, spingendole contro le dittature esistenti (Mubarak in Egitto, Ben Ali in Tunisia) – lotte che verranno stroncate da una nuova dittatura in Egitto e da un controllo capillare in Tunisia, accompagnati dal consenso della piccola borghesia convenuta in massa. Le cosiddette “primavere arabe”, le “belle rivoluzioni” tanto amate dalle classi medie, segnalano, con la sconfitta immediata del movimento proletario, la conclusione di movimenti di lotta che avevano messo in moto masse enormi, disperse dall’esercito egiziano nei campi e nelle fabbriche. E così, fra il 2009 e il 2011, le lotte, senza più una radice operaia, si estendono in Libia (contro Gheddafi) e in Siria (contro Bassar al-Assad). Il bisogno proletario, nel fondersi con gli interessi delle classi medie che si agitano contro la corruzione, la miseria generalizzata, la “scandalosa” ricchezza dei regimi, perde la propria forza e si disperde.

Nel loro insieme, questi eventi dimostrano comunque che i processi della lotta di classe, tenuti ancora strettamente sotto controllo, continuano a covare nelle viscere della realtà sociale mediorientale. La vera tragedia è che essi non trovano, lungo la loro strada, il partito di classe, l’unico che possa rispondere alle tante domande che provengono sia dalle condizioni di vita e di lavoro del proletariato sia dalla disperazione di quelle stesse classi medie che, sprofondando nel baratro sociale, cercano le risposte nelle posizioni fondamentaliste. Così, non trovando soluzione, il corso storico da un lato tracima in una palude sociale e dall’altro s’infila nel vicolo cieco di una guerra che abbraccia tutto il Medioriente e coinvolge il Nord Africa. Solo nuovi terremoti, nuove profonde crisi economiche, possono creare occasioni rivoluzionarie – il cui epicentro tuttavia non si trovi più nel Medioriente, ma nel cuore profondo delle metropoli imperialiste.

 

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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